ARTICOLICONTRIBUTIdelitti contro la pubblica amministrazioneDIRITTO PENALEIN PRIMO PIANOParte speciale

Corruzione per l’esercizio della funzione (art. 318 c.p.) e pubblico ufficiale a libro paga del privato

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Cassazione Penale, Sez. VI, 17 novembre 2014 (ud. 25 settembre 2014), n. 47271
Presidente Agrò, Relatore Villoni, P.G. Aniello

Con la pronuncia numero 47271, depositata il 17 novembre 2014, la sesta sezione penale della Corte di Cassazione si è nuovamente pronunciata in ordine alla fattispecie di corruzione per l’esercizio della funzione di cui all’art. 318 c.p., prendendo posizione in ordine ad una serie di fatti aventi ad oggetto la corresponsione di ingenti somme di denaro attraverso le quali il pubblico ufficiale avrebbe “venduto” la sua funzione mettendosi al servizio dei soggetti corruttori, che in tal modo ne avevano acquisito la disponibilità, presente e futura, a soddisfare le rispettive esigenze.

L’ipotesi di pubblico ufficiale “a libro paga del privato” – ha affermato la Corte – ricadeva già nel fuoco della previsione dell’art. 319 c.p., nella versione antecedente la novella rappresentata dalla L. n. 190 del 2012, essendosi infatti stabilito che dinanzi ad una condotta prolungata nel tempo di un pubblico ufficiale il quale, dietro pagamento, vanificava la sua funzione di controllo nell’acquisizione di forniture pubbliche, correttamente il giudice di merito aveva ravvisato una vendita della funzione, nel senso di mercimonio della discrezionalità da parte del soggetto, in luogo di una pluralità di episodi di corruzione uniti in continuazione, derivandone la correttezza della mancata dichiarazione di prescrizione per alcune porzioni della condotta medesima, erroneamente ritenute singoli reati.

Si deve, tuttavia, prendere atto dell’intervenuta trasposizione normativa da parte del legislatore di quell’orientamento giurisprudenziale, mediante la previsione del nuovo art. 318 c.p., che sanziona espressamente la corruzione per la funzione, rompendo con l’impostazione propria del dispositivo normativo ancorato al rapporto sinallagmatico tra atto dell’ufficio (contrario o dovuto) ed accettazione di promessa e/o percezione di utilità da parte del pubblico agente. Trattasi, invero, di impostazione che ancora permane nel sistema, dal momento che la L. n. 190 del 2012, non ha eliminato l’ipotesi di corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio (nuovo art. 319 c.p.), il quale è però sanzionato in maniera più grave rispetto alla figura di reato di cui all’art. 318 c.p..

Ad avviso della Corte, la stessa collocazione topografica delle due norme, in rapporto di progressione sanzionatoria tra loro, evidenzia che alla luce della revisione normativa la previsione di base è appunto costituita dall’art. 318 c.p., la cui presenza infatti ha eliminato la necessità non solo di prevedere un’espressa sanzione per la corruzione collegata al compimento di atti dell’ufficio non contrari a legge ma anche di stabilire il compimento o meno di un atto dell’ufficio e la relativa natura, mentre il nuovo art. 319 c.p., contempla i casi di maggiore gravità, in cui il pubblico ufficiale omette o ritarda un atto di sua competenza o ne compie di addirittura contrari ai doveri d’ufficio, situazioni che come tali esigono una risposta più rigorosa da parte dell’ordinamento.

Così chiariti, in astratto, i rapporti tra le due figure di reato, la Corte osserva, tuttavia, come possano esserci senza dubbio dei casi in cui all’accettazione di indebite promesse o (evenienza più verosimile) alla percezione di indebite utilità collegate semplicemente all’esercizio della pubblica funzione si accompagnino situazioni in cui è, invece, riconoscibile il sinallagma tra quelle ed il compimento di un atto contrario ai doveri d’ufficio ovvero l’omissione o il ritardo di un atto dovuto. In tali casi – affermano i giudici – si pone il problema di definire i rapporti tra le due figure di reato di cui agli artt. 318 e 319 c.p., al fine di stabilire se debbano applicarsi congiuntamente o meno.

Secondo la pronuncia in annotazione, in altri termini, l’art. 318 c.p. non avrebbe coperto integralmente l’area della vendita della funzione, ma soltanto quelle situazioni in cui non sia noto il finalismo del suo mercimonio o in cui l’oggetto di questo sia sicuramente rappresentato da un atto dell’ufficio.

Al di fuori di queste ipotesi (rientranti, appunto, nell’art. 318 c.p.) vi sarebbe comunque un’area di applicabilità dell’art. 319 c.p., quando la vendita della funzione sia connotata da uno o più atti contrari ai doveri d’ufficio, accompagnati da indebite dazioni di denaro o prestazioni d’utilità, sia antecedenti che susseguenti rispetto all’atto tipico, il quale finisce semplicemente per evidenziare il punto più alto di contrarietà ai doveri di correttezza che si impongono al pubblico agente.

Redazione Giurisprudenza Penale

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