ARTICOLICONTRIBUTIDIRITTO PROCESSUALE PENALETesi di laurea

L’esecuzione della pena nei confronti degli stranieri (Tesi di laurea)

Prof. relatore: Maria Lucia Di Bitonto

Prof. corelatore: Paolo Moscarini

Ateneo: L.u.i.s.s

Anno accademico: 2013/2014

La volontà di approfondire il tema dell’esecuzione della pena nei confronti degli stranieri nasce dalla considerazione per cui,  vendo la società odierna acquisito una dimensione fortemente multietnica, si sia resa a tutta evidenza necessaria l’adozione di previsioni normative che interessino in via diretta soggetti di nazionalità diversa da quella italiana. La particolare attenzione che il diritto ha spesso rivolto alla specifica categoria degli stranieri, infatti, è stata alle volte strumento per la realizzazione della massima integrazione sociale tra persone che, pur vivendo nello stesso territorio, non fossero naturali portatrici di un medesimo bagaglio culturale; altre volte, invece, si è rivelata espressione di una politica di maggiore o minore apertura nei confronti del mondo esterno ed attraverso la quale si è inteso fronteggiare un fenomeno di vasta portata, l’immigrazione.

Prima di mettere in risalto le problematiche che sorgono quando la faseesecutiva della pena abbia come protagonista un soggetto straniero, occorre fare cenno alle diverse modalità attraverso le quali può svolgersi suddetta fase del procedimento penale. Una volta intervenuta una sentenza definitiva di condanna nei confronti dello straniero, infatti, le vie percorribili sono più di una: la detenzione, l’applicazione di misure extramurarie oppure l’espulsione.  Con specifico riferimento alla detenzione, l’attuazione dei principi costituzionali in tema di trattamento penitenziario viene a scontrarsi con alcune difficoltà pratiche. Si pensi, a titolo esemplificativo, al problema della lingua: molti stranieri non hanno che una scarsa conoscenza dell’italiano, il che rappresenta un ostacolo alla comunicazione sia con il personale dell’amministrazione penitenziaria e con gli educatori, sia con gli altri detenuti. In più, dette difficoltà comunicative non potranno che incidere anche sul corretto esercizio del diritto alla difesa, in quanto risulterà inverosimile che lo straniero possa comprendere a pieno il linguaggio giuridico e concordare con l’avvocato la migliore strategia difensiva.

Tale ostacolo, invero, non potrà essere superato se non insegnando l’italiano allo straniero, ma soltanto pochi istituti penitenziari offrono corsi a ciò finalizzati, a seconda della sensibilità che la Direzione penitenziaria mostri di avere a riguardo. Un’alternativa ai corsi di formazione linguistica potrebbe essere quella di affiancare ad ogni detenuto alloglotta un mediatore culturale: tuttavia, una scelta in questo senso è fortemente limitata dall’ingente numero di stranieri reclusi nelle carceri italiane e dall’alto costo necessario per supportare una simile iniziativa (che comunque la legge penitenziaria suggerisce, ma non prevede come obbligatoria).

Sotto il profilo dei benefici penitenziari, inoltre, la possibilità di accedere agli strumenti premiali risente della lontananza che separa lo straniero dal suo Paese d’origine: l’assenza di stabili punti di riferimento al di fuori dell’istituto penitenziario, oltre a dar vita ad uno scompenso emotivo, comporta inevitabilmente la conseguenza per cui la ricerca e lo svolgimento all’esterno dell’istituto di qualsiasi attività abbiano il più delle volte esito negativo ed impedisce allo straniero di usufruire di quei benefici che lo stesso legislatore ha ideato quale veicolo per la risocializzazione.

Da ultimo, occorre tenere conto altresì delle problematiche attinenti ad un aspetto più intimo della persona del detenuto, quello religioso. La maggior parte degli stranieri, infatti, professa una religione diversa da quella cattolica e, allo stato vigente della normativa penitenziaria, non gode del supporto morale di un ministro di culto la cui presenza sia fissa all’interno del carcere; ciò, aggiungendosi alle difficoltà relative all’osservanza di specifiche pratiche di culto, costituisce una rilevante limitazione della libertà di religione di questi soggetti.

In alternativa alla detenzione, lo straniero può richiedere che gli venga applicata una misura extramuraria di espiazione della pena. A questo proposito, un nodo problematico è stato rappresentato dalla compatibilità in astratto tra la concessione di una simile misura e l’eventuale situazione irregolare dello straniero: in altri termini, ci si è chiesto se i c.d. clandestini e coloro i quali fossero privi di un regolare permesso di soggiorno, potessero accedere a tali misure e quindi rimanere nel territorio dello Stato italiano. La risposta a tale quesito è stata offerta dalle Sezioni unite della Corte di cassazione, la quale ha evidenziato come nel vigente ordinamento non sussista alcun divieto di applicare i benefici in esame agli stranieri irregolari, sottolineando altresì la necessità a che l’obiettivo della risocializzazione non assuma connotati nazionalistici.

Per ciò che attiene all’espulsione, occorre premettere che il t.u. imm. (introdotto nel 2002) prevede diverse tipologie di espulsione alle quali è sottesa la medesima ratio: ridimensionare il fenomeno del sovraffollamento carcerario. Ciò che preme sottolineare in questa sede è come l’introduzione di tali istituti sia stata considerata espressione di un intento repressivo del legislatore del tempo, intento che per molti ha dato vita ad un trattamento normativo sicuramente speciale nei confronti degli stranieri irregolarmente soggiornanti nel territorio dello Stato.

Inoltre, sono state sollevate negli anni diverse questioni di illegittimità costituzionale aventi ad oggetto la natura stessa delle espulsioni disposte sia a titolo di misura alternativa alla detenzione che di sanzione sostitutiva della pena. A tal proposito, la Corte costituzionale, nel riaffermare le ragioni a sostegno della natura amministrativa di questi istituti, ha altresì chiarito come quest’ultima farebbe venir meno l’esigenza di assicurare il rispetto dei principi inderogabilmente stabiliti in punto di pena, a differenza di quanto avverrebbe se si trattasse di sanzioni di tipo penale.

Tanto premesso, in via generale, sui caratteri della normativa interna in tema di esecuzione penale, occorre adesso brevemente soffermarsi sui profili di diritto internazionale destinati ad incidere maggiormente in suddetta materia.
In primo luogo, la Convenzione di Strasburgo del marzo 1983 sul trasferimento delle persone condannate costituisce un importante esempio di come l’obiettivo della risocializzazione abbia assunto, nel tempo, una dimensione sempre più internazionale.

Il reinserimento sociale, infatti, risponde ad esigenze di tipo umanitario ancor prima che preventive. E non vi è dubbio, perciò, che tale reinserimento debba essere quantomeno semplificato, tramite il trasferimento del condannato nel Paese di provenienza ove avrà maggiori possibilità di un effettivo reingresso in società una volta ivi espiata del tutto la pena. Altro principio di grande rilevanza nei rapporti tra gli Stati, questa volta, membri dell’Unione europea è quello del reciproco riconoscimento delle decisioni giudiziarie, il cui processo di attuazione può dirsi avviato attraverso gli strumenti del Mandato di arresto europeo ai fini esecutivi e della cooperazione penale in materia di esecuzione, tesi alla cristallizzazione di detto principio tra quelli ispiratori del diritto dell’Unione europea.