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Brevi riflessioni sull’espansione della nozione di amministratore di fatto

A cura di Mattia Miglio e Gea Condorelli

Cassazione Penale, Sez. V, 29 dicembre 2015 (ud. 6 maggio 2015), n. 51091
Presidente Lapalorcia, Relatore Positano

La sentenza che qui si allega offre lo spunto per fornire importanti precisazioni in merito alla nozione generale di “amministratore di fatto”.

Questi, in estrema sintesi, i fatti: la Procura di Milano contesta il delitto di bancarotta documentale a un imprenditore – formalmente non inquadrato all’interno di una Società dichiarata fallita – per aver materialmente gestito di fatto l’azienda fallita, accanto all’amministratore di diritto e al Direttore generale dell’Ente.

Tale ricostruzione viene ovviamente contestata dalla difesa dell’imputato che – in contrasto con la tesi della Pubblica Accusa – giunge a sostenere che il proprio assistito non avrebbe affatto partecipato alla gestione dell’azienda, offrendo il proprio sostanziale contributo alla formazione delle decisione formalmente assunte dai soggetti apicali, formalmente investiti delle qualifiche manageriali. Tutt’al più, all’imputato può essere addebitata la partecipazione ad un unico affare posto in essere dalla Società, la quale comunque avrebbe operato tramite il proprio amministratore di diritto e il proprio investitore.

Evidente la ratio alla base della tesi difensiva:  la partecipazione effettiva ad un solo atto posto in essere dalla Società fallita sarebbe di fatto incompatibile con l’assunzione della carica di amministratore di fatto, la quale presupporrebbe, a detta della difesa, l’esercizio continuativo e significativo della totalità dei poteri gestori spettanti all’amministratore di una Società.

Tale tesi viene nettamente respinta dalla Suprema Corte di Cassazione, la quale bolla come “orientamento giurisprudenziale non correttamente inteso” la soluzione esegetica prospettata dalla difesa; nello specifico, la Corte ritiene che la nozione di amministratore di fatto, pur  presupponendo certamente “l’esercizio di un’apprezzabile attività gestoria, svolta in modo non episodico o occasionale”, non comporta “necessariamente l’esercizio di tutti i poteri propri dell’organo di gestione”.

Così, “ne consegue che la prova della posizione di amministratore di fatto si traduce nell’accertamento di elementi sintomatici dell’inserimento organico del soggetto con funzioni direttive – in qualsiasi fase della sequenza organizzativa, produttiva o commerciale dell’attività della società, quali sono i rapporti con i dipendenti, i fornitori o i clienti ovvero in qualunque settore gestionale di detta attività, sia esso aziendale, produttivo, amministrativo, contrattuale o disciplinare” e tale accertamento non dovrà necessariamente provare l’esercizio “di tutti i poteri propri dell’amministratore di una società” contraddistinto dai “caratteri di continuatività e significatività alla totalità dei profili gestionali di tenuta della contabilità, di organizzazione interna e di rappresentanza esterna della società fallita”.

Al contrario, la figura dell’amministratore di fatto potrà dirsi accertata nell’ipotesi in cui venga accertato “lo svolgimento di un’apprezzabile attività di gestione in termini non occasionali o episodici”.

La soluzione prospettata dalla Cassazione, ovviamente, presenta profili pregevoli accanto ad aspetti maggiormente controversi. Da un lato, è innegabile che l’attribuzione dello status di amministratore di fatto anche a in capo a coloro che hanno effettivamente posto in essere solo un (pur rilevante) pacchetto di attività gestorie si pone in linea con una concezione moderna dell’impresa.

La Cassazione supera infatti una nozione prettamente individualistica, ossia focalizzata esclusivamente sulla figura dell’imprenditore, la Suprema Corte propone una nozione di impresa come organizzazione, in questo caso complessa, in cui interagiscono tra di loro più figure, secondo le varie competenze e in linea con determinate procedure. Questo comporta una valorizzazione della dimensione organizzativa dell’azienda in quanto, come ha osservato autorevole dottrina, “dire organizzazione è dire divisione del lavoro, ripartizione di compiti e valorizzazione di competenze differenziate”.

In linea con il principio della personalità della responsabilità penale ex art. 27 Cost., la divisione di fatto dell’organizzazione in settori e zone produttive risulta essere criterio decisivo e dirimente ai fini dell’attribuzione della responsabilità penale, sostituendosi al criterio formale che tende ad identificare il (formale) legale rappresentante quale soggetto penalmente responsabile.

D’altro canto, tale soluzione privilegia evidentemente la valorizzazione del principio di effettività, il quale, come prevedibile, la Suprema Corte finisce per attribuire rilievo fondamentale all’accertamento del giudice in sede dibattimentale. Non può pertanto escludersi, seppur in via astratta, che il giudice possa far rientrare sotto l’etichetta formale del “libero convincimento discrezionale” ex art. 192 c.p.p. veri e propri convincimenti arbitrari non sorretti da adeguati riscontri probatori ma fondati su suggestioni e ricostruzioni astratte e prive di concreto supporto.