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Violenza sessuale per costrizione e indebita induzione: impossibile il concorso

in Giurisprudenza Penale Web, 2016, 11 – ISSN 2499-846X

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Cassazione Penale, Sez. III, 28 luglio 2016 (ud. 17 maggio 2016), n. 33049
Presidente Rosi, Relatore Gai

1. La Suprema Corte coglie l’occasione per pronunciarsi sulla questione del concorso tra violenza sessuale per costrizione e indebita induzione all’esito di un processo – con molti capi di imputazione a carico di un solo soggetto – caratterizzato da numerosi ribaltamenti tra i tre gradi di giudizio.

Il cappellano di un carcere veniva condannato in primo grado, all’esito di giudizio abbreviato, per i reati di violenza sessuale – ma limitatamente solo ad alcune delle condotte contestate – e di induzione indebita – così riqualificata l’originaria contestazione di concussione – commessi nei confronti di alcuni detenuti. Tra i capi di imputazione in relazione a cui, invece, l’imputato veniva  assolto, vi erano, in particolare, altri fatti di violenza sessuale, caratterizzati dall’essere stati commessi nella forma “con abuso di autorità”. Ciò perché, sostanzialmente, secondo il Giudice di primo grado le funzioni di tipo esclusivamente religioso attribuite al cappellano portavano ad escludere la sussistenza di una “posizione autoritativa”, cioè di supremazia nei confronti dei detenuti, non comportando la possibilità di esercitare alcun potere autoritativo.

In sede di appello, in accoglimento dell’impugnazione del P.M., l’imputato veniva invece condannato per alcuni dei capi di violenza sessuale con abuso di autorità per cui vi era stata assoluzione in primo grado. La Corte rilevava infatti che la nozione di “abuso di autorità” dev’essere intesa in senso più ampio di quello circoscritto alla posizione autoritativa di tipo formale e pubblicistico, dovendo invece ricomprendere ogni forma di sfruttamento della posizione di supremazia dell’agente, purché questo sia tale da determinare uno squilibrio tra le parti e uno stato di soggezione psicologica della vittima (riprendendo così l’orientamento già più volte espresso dalla Suprema Corte e di recente ribadito con la sentenza sez. III, n. 49990/2014). Ritenendo dunque sussistente la violenza sessuale con abuso di autorità, la Corte d’Appello aveva inoltre ritenuto che i medesimi fatti integrassero anche il reato di induzione indebita ex art. 319-quater c.p.

Ed è in particolare su quest’ultima statuizione che si concentravano i motivi di ricorso in Cassazione dell’imputato. Sosteneva infatti la difesa che non è possibile configurare un concorso – in relazione al medesimo fatto – tra il delitto di violenza sessuale mediante costrizione e quello di indebita induzione. Secondo la difesa, infatti, non può trovare accoglimento la tesi adottata dalla Corte d’Appello, secondo la quale l’atto sessuale che la persona offesa sarebbe stata costretta a subire costituirebbe, al tempo stesso, l’utilità che l’extraneus sarebbe indotto a dare al pubblico ufficiale, al fine di conseguire un indebito vantaggio. Il concetto fondamentale alla base della tesi difensiva, dunque, è che “chi costringe non induce”: non è possibile che una condotta di costrizione assuma rilievo anche, contemporaneamente, come di natura induttiva.

Ed è proprio questo il motivo di ricorso che la Cassazione ha ritenuto di accogliere in pieno, cogliendo l’occasione, tuttavia, per un interessante ricostruzione non solo del rapporto tra i reati in questione, ma anche della loro evoluzione normativa e dei requisiti per la loro integrazione.

2. Nella pronuncia in esame la Corte rileva infatti che deve ritenersi logicamente preliminare un’ulteriore questione posta dalla difesa, circa la qualificazione soggettiva del cappellano del carcere quale incaricato di pubblico servizio, poiché da ciò discende la possibilità di riconoscere in capo allo stesso il reato di cui all’art. 319-quater c.p.

Sosteneva infatti la difesa – tra i motivi di ricorso – che in capo al cappellano del carcere, investito di funzioni unicamente religiose, non sarebbe riconoscibile tale qualifica, che presuppone necessariamente lo svolgimento di attività di tipo pubblicistico.

Sul punto, rileva la Corte che la qualifica deve invece essere riconosciuta, poiché il cappellano del carcere svolge dei compiti assegnatigli per legge e funzionali all’interesse pubblico perseguito dallo Stato nel trattamento dei detenuti (ribadendo, così, un principio già affermato in Cass., sez. VI, n. 12/2008). Si tratta infatti di un’attività che trova il suo fondamento nella legge di riforma dell’ordinamento penitenziario, laddove quest’ultimo stabilisce che il trattamento del detenuto sia svolto avvalendosi anche della religione (art. 15 ord. Pen.), prevedendo infatti che il servizio di assistenza cattolica sia mantenuto stabilmente all’interno delle strutture penitenziarie.

Ciò premesso, e ribadita dunque la qualifica di incaricato di pubblico servizio in capo al cappellano del carcere, la Corte ritiene però di aderire alla tesi difensiva in merito alla questione del concorso tra reati.

Sul punto, rileva la Corte che la questione trova nuova rilevanza in seguito alla legge di riforma introdotta con legge n.190/2012, che ha riformulato l’art. 317 c.p., circoscrivendone la portata sia dal punto di vista dell’autore che della condotta materiale. Quanto al primo profilo, infatti, dopo la riforma il reato di concussione veniva integrato solo dalle condotte realizzate dal pubblico ufficiale, escludendo la rilevanza di quelle poste in essere dall’incaricato di pubblico servizio: il legislatore, tuttavia, con  l. n.69/2015 è nuovamente tornato sul punto, riportando nuovamente quest’ultima figura tra i potenziali autori.

Quanto alla condotta materiale, inoltre, il legislatore del 2012, introducendo – all’art. 319-quater – la nuova disposizione dedicata al reato di induzione indebita, ha di fatto creato una fattispecie intermedia tra la concussione e la corruzione, contestualmente limitando la prima alle sole condotte realizzate con vera e propria “costrizione”. La nuova norma, infatti, è destinata invece a trovare applicazione in tutti quei casi di “confine tra condotta sopraffattrice e scambio corruttivo” (Cass. SS.UU. n. 12228/2013)[1].

Ed è proprio questo inquadramento sistematico della nuova fattispecie che comporta, secondo la Corte, la logica incompatibilità della stessa con un fatto di violenza sessuale quale quello contestato nel caso di specie. Nota infatti la Corte come anche l’art. 609-bis contempli sostanzialmente un’analoga differenza, poiché mentre al primo comma punisce la condotta realizzata mediante costrizione (“con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità”), del tutto diversa è quella di cui al secondo comma. in cui la vittima è “indotta” – e non “costretta” – a compiere atti sessuali, a causa dell’abuso della sua condizione di inferiorità o dell’inganno da parte dell’autore.

Ma nel caso in esame la violenza sessuale contestata – e riconosciuta pienamente sussistente dalla Corte d’Appello – era proprio quella descritta dal primo comma, e cioè realizzata mediante vera e propria violenza e abuso di autorità. Come opportunamente notato dalla Suprema Corte, dunque, tale condotta – così qualificata – poteva concorrere con l’originaria contestazione di concussione, ma diventa logicamente incompatibile con la nuova qualificazione di induzione indebita del fatto.

Quest’ultima fattispecie, infatti, punisce il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che, abusando della sua qualità o dei suoi poteri, induce taluno a dare o promettere indebitamente a lui o a un terzo un’utilità, che può anche consistere in una prestazione sessuale, ma con la precisazione che il soggetto passivo non subisce una vera costrizione ma, appunto, un’induzione (circostanza che, peraltro, giustifica la punibilità anche di questo soggetto, a differenza della vittima di concussione).

Nel caso di specie la Corte d’Appello aveva ritenuto che gli atti sessuali subiti dalle persone offese erano conseguenza di una costrizione posta in essere con violenza – tramite atti repentini – e abuso di autorità, e non l’effetto di una semplice induzione, che avrebbe comportato comunque una volontà della persona offesa di realizzare l’atto, sebbene a causa dell’abuso della qualità o dei poteri dell’autore. Fatti di questo tipo, dunque, possono oggi concorrere con la fattispecie di concussione, ma non con la nuova induzione indebita di cui all’art. 319-quater c.p., motivo che determina la Suprema Corte all’annullamento senza rinvio – quanto a quest’ultimo reato – perché il fatto non sussiste.

D’altra parte, la conclusione cui giunge la Corte nel caso di specie è perfettamente coerente con la pronuncia – di poco anteriore – con cui la stessa sezione aveva stabilito che il delitto di induzione indebita di cui all’art. 319-quater può concorrere con il reato di violenza sessuale per induzione di cui al comma 2 n.1 c.p., poiché in tal caso la condotta induttiva può costituire un nucleo comune che caratterizza i due reati, i quali possono tra loro concorrere essendo diversi i beni giuridici protetti e soprattutto, differenti sul piano strutturale le condotte poste in essere, in quanto, mentre l’abuso insito nel delitto di induzione indebita va riferito al soggetto agente, quello insito nel delitto di violenza sessuale va riferito al soggetto passivo del reato, ferma restando quale elemento comune una condotta induttiva di tipo approfittatrice tale da condizionare, seppur al di fuori di condotte violente, minacciose o costrittive, la volontà del soggetto passivo. (Cass., sez. III, n. 9442/2016).

In questo caso, dunque, con una violenza sessuale contestata come realizzata tramite induzione e non con costrizione, non vi sono ostacoli al riconoscimento della possibilità di un concorso tra le due fattispecie.

Nel caso in esame, invece, la differenza tra le modalità di realizzazione delle condotte comporta tra le due fattispecie una logica incompatibilità, che non consente di configurare un concorso, indipendentemente dalla considerazione che i beni giuridici protetti dalle due norme restano, ovviamente, del tutto diversi.


[1]     Più precisamente, le SS.UU., nel definire compiutamente i rapporti tra le due norme, stabilirono che “il delitto di concussione, di cui all’art. 317 c.p.. nel testo modificato dalla l. n. 190 del 2012, è caratterizzato, dal punto di vista oggettivo, da un abuso costrittivo del pubblico agente che si attua mediante violenza o minaccia, esplicita o implicita, di un danno contra ius da cui deriva una grave limitazione della libertà di determinazione del destinatario che, senza alcun vantaggio indebito per sé, viene posto di fronte all’alternativa di subire un danno o di evitarlo con la dazione o la promessa di una utilità indebita e si distingue dal delitto di induzione indebita, previsto dall’art. 319 quater c.p. introdotto dalla medesima l. n. 190, la cui condotta si configura come persuasione, suggestione, inganno (sempre che quest’ultimo non si risolva in un’induzione in errore), di pressione morale con più tenue valore condizionante della libertà di autodeterminazione del destinatario il quale, disponendo di più ampi margini decisionali, finisce col prestare acquiescenza alla richiesta della prestazione non dovuta, perché motivata dalla prospettiva di conseguire un tornaconto personale, che giustifica la previsione di una sanzione a suo carico”.

Come citare il contributo in una bibliografia:
C. Bosacchi, Violenza sessuale per costrizione e indebita induzione: impossibile il concorso, in Giurisprudenza Penale Web, 2016, 11