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Le conclusioni dell’avvocato generale Bot nella causa sul rinvio pregiudiziale Taricco: verso uno scontro frontale

in Giurisprudenza Penale Web, 2017, 7-8 – ISSN 2499-846X

Ricostruite le questioni di rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE rimesse alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea dalla Corte costituzionale italiana con ordinanza 23 novembre 2016-24 gennaio 2017, n. 24 (commentata tra gli altri da A. Massaro, La risposta della Corte costituzionale alla (prima) sentenza Taricco tra sillogismi incompiuti e quesiti retorici, in questa Rivista, 2017, 3), e ripercorse le ragioni che la Corte italiana ha posto alla loro base, l’avvocato generale Yves Bot ha rassegnato le proprie conclusioni sulla vicenda.

Tali conclusioni vanno in parte nel senso di confermare i contenuti della sentenza Taricco, in parte nel senso di riconoscere il bisogno di una loro parziale precisazione, e principalmente nel senso di scontrarsi frontalmente con quanto esposto nell’ordinanza di rinvio pregiudiziale della Corte costituzionale italiana, i cui concetti vengono tutti rispediti al mittente, invitando la Corte del Lussemburgo a orientarsi in questo senso:

  • Conferma dell’interpretazione dell’art. 325, paragrafi 1 e 2, TFUE quale effettivamente impositivo, al giudice nazionale, di un obbligo di disapplicazione di norme interne sulla prescrizione che tradiscano il perseguimento dei fini di tutela degli interessi finanziari dell’Unione cui gli Stati membri si sono impegnati.
  • Ridefinizione (tuttavia) dei presupposti della disapplicazione cui il giudice deve attenersi: rinuncia al criterio statistico (“considerevole numero”) e adozione del solo criterio legato alla gravità del reato, intendendosi per gravi – secondo una definizione data dal legislatore dell’Unione – “tutti i reati aventi un collegamento con il territorio di due o più Stati membri e che comportano un danno di importo totale superiore alla soglia di Euro 10 milioni”. Dunque, con profili di innovazione rispetto alla stessa sentenza Taricco, l’avvocato generale propone di stabilire una soglia quantitativa di disapplicazione delle norme sulla prescrizione.
  • Spunto di ulteriore novità rispetto alla Taricco: proposta di costruzione ed applicazione di una “nozione europea” di interruzione della prescrizione, da intendersi nel senso che “ogni atto diretto al perseguimento del reato nonché ogni atto che ne costituisce la necessaria prosecuzione interrompe il termine di prescrizione; tale atto fa quindi decorrere un nuovo termine, identico al termine iniziale, mentre il termine di prescrizione già decorso viene cancellato”.

Le diffuse argomentazioni di tali conclusioni non possono che essere richiamate qui in sintesi.

Ad avviso dell’avvocato generale, alla radice del problema sta l’interpretazione eccessivamente restrittiva che la giurisprudenza italiana dà degli artt. 160, ultimo comma, e 161, secondo comma, c.p., che li rende manifestamente inidonei a soddisfare l’obbligo di sanzionare le violazioni degli interessi finanziari dell’Unione e privi dell’effetto dissuasivo necessario alla prevenzione di nuovi reati. Tale interpretazione, infatti, renderebbe nell’insieme la disciplina italiana sull’interruzione della prescrizione contrastante con il principio di effettività del diritto dell’Unione, e sarebbe pertanto incompatibile con quest’ultimo. In particolare, l’istituto italiano dell’interruzione della prescrizione determinerebbe non già un diritto alla ragionevole durata del processo, bensì una impunità di fatto, per via della strutturazione dell’interruzione come délai préfix (ossia termine di decadenza, fisso), entro il quale il processo va invariabilmente concluso, a pena di estinzione del reato. Ad avviso dell’avvocato generale, è invece assolutamente indispensabile che, una volta avviato, il procedimento penale possa svolgersi sino alla sua conclusione: pertanto, dal momento che ogni atto processuale è in sé indicativo della voluntas puniendi dello Stato, ciascuno di questi dovrebbe assumere efficacia interruttiva della prescrizione, e non solo quelli “poco numerosi e talora tardivi” di cui all’art. 160 c.p., produttivi per giunta dei soli “limitati effetti” di cui all’art. 161 c.p..

Fatta la diagnosi, e corroboratala con richiami alle plurime critiche alla disciplina italiana della prescrizione provenute da raccomandazioni sovranazionali e rese evidenti anche dal dibattito riformatore interno, l’avvocato generale passa ad esaminare gli strumenti di rimedio e non ravvisa alcuna criticità in quello imposto dalla sentenza Taricco, salva la necessità del riferito correttivo nei criteri per decidere la disapplicazione. Secondo l’avvocato generale, infatti, mentre sarebbe confliggente con il diritto dell’Unione Europea applicare la disciplina italiana sull’interruzione della prescrizione, non sarebbe confliggente con alcuna fonte o principio sovranazionale il disapplicarla. Nessuno dei riferimenti richiamati dalla Corte costituzionale nella propria ordinanza di rinvio pregiudiziale coglierebbe nel segno: non l’art. 49 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, né l’art. 7 della CEDU, poiché questi non osterebbero ad una disapplicazione da parte del giudice nazionale, in procedimenti in corso, delle norme in tema di interruzione della prescrizione, che andrebbero inquadrate come norme di natura “processuale”; non l’art. 53 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, che consentirebbe la disapplicazione della norma europea in favore del più garantista standard di tutela interna solo ove quest’ultimo sia “consono” al diritto dell’Unione Europea; e neppure l’art. 4, paragrafo 2 TUE, che consente al giudice di uno Stato membro di opporsi all’esecuzione di un obbligo stabilito da una sentenza della CGUE solo qualora una sua esecuzione comprometta l’identità nazionale dello Stato membro, cosa che non accadrebbe all’Italia in caso di immediata applicazione di un termine di prescrizione più lungo nei procedimenti penali in corso.

Affermazioni, queste, arricchite da ripetute digressioni dell’avvocato generale de iure condendo, nel senso di invocare una armonizzazione delle norme sulla prescrizione all’interno dell’Unione Europea come necessario viatico per la costruzione di uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia comune. A pena, altrimenti, di incentivare fenomeni di c.d. forum shopping da parte dei criminali all’interno dell’Unione.

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Ebbene, letta l’ordinanza della Corte costituzionale, in tutta la sua pacata ma irremovibile chiarezza, e lette le conclusioni dell’avvocato generale, l’impressione è che si vada verso uno scontro frontale tra le garanzie rigide del diritto costituzionale e penale italiano e le garanzie morbide con cui sembra voler costruire il proprio diritto penale l’Unione Europea. Se, in effetti, la sentenza Taricco aveva già suscitato rilevantissime (e condivisibili) perplessità nella giurisprudenza e nella dottrina italiane, queste conclusioni dell’avvocato generale Bot sono riuscite a spingersi perfino oltre.

1. Una diffusa premessa al ragionamento dell’avvocato generale (§§53-64) è dedicata a dimostrare quanto la disciplina italiana sulla prescrizione sia deprecabile: giudizio che si può più o meno condividere, e che può essere interessante argomento di dibattito nelle aule dell’organo legislativo di uno Stato sovrano (al netto del fatto, peraltro, che l’avvocato generale non pare essere al corrente del recente varo della legge 23 giugno 2017, n. 103, c.d. Riforma Orlando, che è intervenuta significativamente anche sull’istituto della prescrizione ed anche in una direzione simile a quella che egli lamenta essere carente nel nostro ordinamento, ossia quella di un sistema ad interruzioni multiple della prescrizione), ma non dovrebbe essere oggetto di manipolazione giudiziaria. Il richiamo a tutte le raccomandazioni e condanne ricevute dall’Italia in argomento (si cita la sentenza Corte EDU, 7 aprile 2015, Cestaro c. Italia) appare argomento di solare inconferenza: infatti, in nessun modo l’inadeguatezza o il non gradimento di una legge di uno Stato membro può autorizzare una sua modifica per via giurisprudenziale. Lo stesso precedente Cestaro, richiamato dall’avvocato generale, svela la fragilità del suo ragionamento: proprio perché sulla legislazione di uno Stato sovrano non è dato intervenire ad altri che all’organo legislativo di quello Stato, alle Corti sovranazionali è rimesso esclusivamente un compito di sorveglianza (e di eventuale sanzione di violazioni, come fu nel caso della Cestaro), ma giammai di intervento attivo e manipolativo sui contenuti di quella legislazione.

Per quanto si cerchi di intorbidire l’acqua con argomentazioni proteiformi, la sua essenza intima non cambia: stanno alla base della civiltà giuridica moderna il principio di separazione dei poteri ed il principio di legalità della pena, che esigono che la legge promani esclusivamente dall’organo legislativo dello Stato, senza interferenze del potere giudiziario, e che solo dalla legge possa derivare per il cittadino l’applicazione di una sanzione penale. Montesquieu e Beccaria avevano alcune idee in proposito, e non sembra che l’avvocato generale, per il modo in cui ha interpretato il loro pensiero, citandoli (§74), abbia reso loro giustizia.

Del resto, sul fatto che sia irricevibile in Italia anche solo l’idea della creazione di un diritto penale giurisprudenziale (come si avrebbe se si applicasse l’ordine impartito dalla Taricco) era già stata molto chiara la dottrina sviluppatasi all’indomani della sentenza (per tutti, cfr. Eusebi, Nemmeno la Corte di Giustizia dell’Unione Europea può erigere il giudice a legislatore, in Dir. pen. cont., 10 dicembre 2015; Civello, La prima attuazione della sentenza “Taricco” della C.G.U.E.: il principio di legalità nell’epoca del “minimalismo penale”, in Arch. pen., 2016, 1; Lupo, La primauté del diritto dell’UE e l’ordinamento penale nazionale, in Dir. pen. cont., 29 febbraio 2016). Ma, come si è accennato, queste conclusioni dell’avvocato generale vanno perfino oltre la Taricco: mentre quella sentenza assumeva un atteggiamento “negativo”, ordinando semplicemente la disapplicazione delle norme italiane sulla prescrizione, l’avvocato generale assume un atteggiamento positivo e “creativo” di diritto penale interno. L’avvocato generale ritiene che l’ordinamento penale italiano necessiti di un sistema “diffuso” di interruzione della prescrizione, nel quale ogni atto processuale spieghi tale effetto interruttivo, con effetto di cancellare il tempo precedentemente trascorso.

2. Ma non basta. Fin qua, l’avvocato generale si limita a mettere in discussione i principi di separazione dei poteri e legalità della pena. Ma per far entrare “Taricco” nell’ordinamento italiano, nel modo in cui lo ha imposto la Corte di Giustizia nella sua sentenza, occorre ancora un ultimo sforzo, demolire ancora un ultimo baluardo: quello della irretroattività della norma penale sostanziale di sfavore. Anche a voler consentire infatti l’assurdità di un diritto penale di matrice giurisprudenziale, e capace di sovrapporsi – negandolo – a quello legale, resterebbe il vincolo di poter ammettere ciò solo pro futuro, dato che, comunque, la pena e tutti gli effetti sostanziali che le sono connessi non potrebbero retroagire nel tempo. Ma ecco che, anche su questo, l’avvocato generale (come già a suo tempo la sentenza Taricco) trova spunti per insegnare all’Italia il suo stesso diritto penale.

La battaglia dogmatica è quella dell’incasellamento della disciplina della prescrizione entro il diritto processuale, ovvero sostanziale. Da essa discende la possibilità di affermare – a seconda – una sua modificabilità con effetto retroattivo anche in senso peggiorativo (tempus regit actum) o, viceversa, la necessità di tenere comunque ferma per il reo la disciplina in concreto più favorevole (con conseguente impossibilità di far prevalere il TFUE sugli artt. 160-161 c.p., e relativa necessità di azionare il cd. controlimite, già sfoderato ma non ancora utilizzato dalla Corte costituzionale, rappresentato dall’art. 25, comma 2 Cost.).

Ebbene, l’analisi delle norme (che legano intimamente tra loro pena e prescrizione: art. 157 c.p.) e la consolidata giurisprudenza della nostra stessa Corte costituzionale (richiamata in senso adesivo proprio dall’ordinanza di rinvio pregiudiziale n. 24/2017, cui si rinvia) consentono di affermare, senza ombra di dubbio, che in Italia la prescrizione è oggetto di disciplina penale sostanziale. Non c’è quindi bisogno che qualcuno spieghi all’Italia la natura della sua disciplina della prescrizione e, in verità, lo stesso avvocato generale, alla nota 13 del suo scritto, riconosce che l’Unione Europea presenta un panorama variegato di discipline della prescrizione, alcune di natura processuale (Belgio, Germania, Francia), altre di natura mista (Polonia, Portogallo), ed altre ancora, infine, di natura puramente sostanziale (Grecia, Spagna, Lettonia, Romania, Svezia). Dunque, l’avvocato generale ammette che gli Stati membri presentino tradizioni normative tra loro non omogenee, il che già di per sé stesso avrebbe dovuto suggerirgli che trattamenti omogenei non siano congrui.

È come se l’Italia avesse in giardino un canarino, e invece i suoi vicini di casa (il Belgio, per esempio) tenessero in giardino un cavallo. Ecco, con le sue conclusioni l’avvocato generale sta cercando di spiegare (a noi e alla Corte di Lussemburgo) che anche quello nel nostro giardino, anche se cinguetta e svolazza, in realtà è un cavallo. L’avvocato generale sostiene ed afferma nelle sue conclusioni che la normativa italiana sulla prescrizione abbia natura processuale, e fa discendere da questo incasellamento la non copertura della disciplina da parte dei canoni di irretroattività della norma penale di sfavore.

L’operazione è evidentemente impropria, e non a caso è condotta seguendo argomentazioni inesatte. Secondo l’avvocato generale (§130), in una serie di sentenze (22 giugno 2000, Coëme c. Belgio; 12 febbraio 2013, Previti c. Italia) la Corte EDU avrebbe innanzitutto messo a fuoco il concetto per cui il principio di legalità coprirebbe esclusivamente il reato e la pena, e non anche ulteriori istituti accessori a questi. Inoltre, la sentenza Previti c. Italia avrebbe chiarito la natura processuale della disciplina della prescrizione e conseguentemente consentito una sua applicazione retroattiva, sulla base del principio tempus regit actum.

Tuttavia, occorre rilevare che entrambi i riferimenti giurisprudenziali appaiono, per motivi diversi, fuori luogo.

Sulla sentenza Coëme c. Belgio, sia consentito riferirsi alla metafora di poco fa: il fatto che in Belgio tengano in giardino un cavallo autorizza le Corti sovranazionali a mettere la sella al nostro canarino? Sarebbe operazione quantomeno discutibile e, in effetti, il richiamo ad una sentenza pronunciata contro il Belgio in tema di prescrizione è semplicemente inconferente, dato che è lo stesso avvocato generale ad ammettere (v. supra) che in Unione Europea coesistono normative sulla prescrizione di natura diversa, e la nostra e quella belga sono diverse.

Quanto alla sentenza Previti c. Italia, solo apparentemente indicativa di quanto sostiene l’avvocato generale, si è in realtà di fronte ad un complesso, ma nondimeno evidente, equivoco. Oggetto del ricorso di Cesare Previti alla Corte EDU non era la disciplina sulla prescrizione, ma la norma transitoria (dunque, quella sì, processuale) dell’art. 10, comma 3 della legge 251/2005 (c.d. legge ex-Cirielli) che prevedeva che “se, per effetto delle nuove disposizioni, i termini di prescrizione risultano più brevi, le stesse si applicano ai procedimenti e ai processi pendenti alla data di entrata in vigore della presente legge, ad esclusione dei processi già pendenti in primo grado ove vi sia stata la dichiarazione di apertura del dibattimento, nonché dei processi già pendenti in grado di appello o avanti alla Corte di cassazione”. In proposito, basti dunque osservare che:

  • l’art. 10, comma 3 è pacificamente norma transitoria e processuale che non riguarda in sé la disciplina della prescrizione, bensì l’applicazione temporale della riforma della prescrizione (lei sì di contenuto sostanziale e favorevole, ma non oggetto del ricorso alla Corte EDU);
  • proprio perché nello specifico caso la Corte EDU si trovava a dover giudicare una norma processuale (l’art. 10, comma 3 legge 251/2005), e non la disciplina italiana sulla prescrizione, aveva giustamente ritenuto applicabile il principio che regola la “application immédiate d’une loi de procédure/trad. applicazione immediata di una norma processuale” (§80), ossia il principio tempus regit actum;
  • questo non sposta che la disciplina italiana della prescrizione abbia natura sostanziale, come risulta confermato dalla sentenza della Corte costituzionale n. 393 del 2006, che aveva dichiarato parzialmente illegittimo l’art. 10, comma 3 proprio nella parte in cui, fissando uno sbarramento temporale nella dichiarazione di apertura del dibattimento, impediva la retroattività della modifica penale sostanziale di favore sulla base di un limite non ragionevole, ossia l’apertura del dibattimento, che non ha alcun nesso con l’istituto della prescrizione;
  • e in ogni caso, per l’appunto, ciò che la norma processuale dell’art. 10, comma 3 della legge ex-Cirielli comportava era semplicemente una parziale irretroattività di una norma penale di favore, e non la retroattività di una norma penale di sfavore, che è quanto di ben diverso si vorrebbe fare con Taricco.

Pertanto, la sentenza Previti c. Italia non è utile a sostenere quanto vuole affermare l’avvocato generale nelle sue conclusioni. Quella sentenza ha semplicemente detto che non era ravvisabile violazione dell’art. 7 CEDU se una norma processuale italiana ancorava a determinati momenti processuali l’applicabilità di una neo-introdotta disciplina sostanziale e favorevole in tema di prescrizione. Desumere, da questo, che allora in Italia la disciplina della prescrizione abbia natura processuale è operazione semplicemente errata.

In conclusione, contrariamente a quanto sostenuto dall’avvocato generale, non solo non è affatto escluso, ma è anzi certo, che l’applicazione retroattiva in Italia di una disciplina sfavorevole in tema di prescrizione, trattandosi di retroazione di una norma sostanziale, comporterebbe una violazione dell’art. 25, comma 2 della Costituzione italiana ed anche dell’art. 7 della CEDU. Questo la Corte costituzionale lo aveva sufficientemente chiarito nella propria ordinanza n. 24/2017, e lo sforzo dell’avvocato per discostarsi da tale ricostruzione appare irragionevole. Nessuna delle sentenze citate dall’avvocato generale consente, in verità, di ritenere che la disciplina della prescrizione italiana abbia natura processuale, per lo stesso motivo per cui nessuna sentenza potrebbe mai dire che un canarino è un cavallo.

3. C’è da augurarsi dunque che la Corte del Lussemburgo sappia discernere gli errori presenti nelle conclusioni dell’avvocato generale, anche se la speranza è flebile. Sembra segnata la strada verso un diritto penale europeo nel quale principi fondamentali come quello di legalità e di sussidiarietà della pena scoloriscono davanti al fine supremo, e giustificatore di ogni mezzo, della tutela degli interessi economici dell’Unione. La sanzione penale regredisce quindi ad istanze strumentali e simboliche, come denuncia l’evidente scollegamento logico tra l’intervento proposto e il bene da tutelare: non si comprende, infatti, in che modo la disapplicazione del regime prescrizionale interno, capace di portare a null’altro che all’irrogazione di una pena reclusiva al condannato, dovrebbe essere in grado di assicurare la tutela dell’interesse alla riscossione del tributo evaso (in assenza, nella massima parte dei processi penali per reati tributari, di costituzione di parte civile dell’Agenzia delle Entrate). Verrebbe da obiettare che, se il problema è economico, economica dovrebbe essere la soluzione, da ricercarsi per esempio in una individuazione e neutralizzazione dei problemi che rendono incapaci di funzionare adeguatamente i meccanismi interni di riscossione dei tributi (dubbio su cui la Taricco si interrogava al §24, e che non sfiora invece l’avvocato generale).

Ma è un vano interrogarsi, dato che il linguaggio giuridico oltre che idiomatico parlato dal diritto penale italiano e da quello europeo appaiono inconciliabilmente diversi. Le parole della Corte costituzionale a gennaio erano state chiare, e questa è l’unica certezza che rimane: se dalla Corte di Giustizia non arriveranno le necessarie e a questo punto improbabili rassicurazioni sul significato della sentenza Taricco (sostanzialmente rimangiandosela), non paiono aprirsi altre strade che quella di una declaratoria di incostituzionalità, in parte qua, della norma interna che ha ratificato i Trattati.

Come citare il contributo in una bibliografia:
R. Lucev, Le conclusioni dell’avvocato generale Bot nella causa sul rinvio pregiudiziale Taricco: verso uno scontro frontale, in Giurisprudenza Penale Web, 2017, 7-8