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Depositata la sentenza della Corte Costituzionale sulla rilevanza penale del reclutamento e del favoreggiamento della prostituzione “volontariamente e consapevolmente esercitata”

Corte Costituzionale, 7 giugno 2019 (ud. 6 marzo 2019), sentenza n. 141
Presidente Lattanzi, Relatore Modugno

Come avevamo anticipato, con ordinanza del 6 febbraio 2018 la Corte di Appello di Bari, nel procedimento penale a carico di Giampaolo Tarantini + altri, aveva sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma primo, nr. 4) prima parte e nr. 8) della Legge Merlin (Legge 20 febbraio 1958, n. 75), nella parte in cui configura come illecito penale il reclutamento ed il favoreggiamento della prostituzione volontariamente e consapevolmente esercitata siccome in contrasto con gli artt. 2, 3, 13, 25 comma 2, 27 e 41 della Costituzione.

Ad avviso del giudice a quo, dal momento che si discute di «condotte di donne che hanno liberamente scelto di operare lo scambio contrattualistico tra il piacere procurato a terzi mediante la libera cessione della loro sessualità e quello di poter acquisire vantaggi economicamente apprezzabili», il «capovolgimento della prospettiva valutativa del concetto di libertà all’esercizio prostitutivo che il fenomeno delle escort comporta renderebbe necessaria la rinnovazione della valutazione di costituzionalità delle norme (della Legge Merlin)» in considerazione della «collocazione della libertà di autodeterminazione sessuale nell’ambito della tutela accordata dall’art.2 della Costituzione per il quale la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità».

Con sentenza depositata il 7 giugno 2019, la Corte Costituzionale ha ritenuto la questione non fondata.

«Anche nell’attuale momento storico, e al di là dei casi di “prostituzione forzata”, – si legge nel comunicato stampa – la scelta di “vendere sesso” è quasi sempre determinata da fattori – di ordine non solo economico, ma anche affettivo, familiare e sociale – che limitano e condizionano la libertà di autodeterminazione dell’individuo».

«Né giova obiettare – continua la Corte – che, in tale prospettiva, la disciplina censurata si paleserebbe eccedente lo scopo, vietando ogni cooperazione anche con quelle persone che si prostituiscano per effetto di scelte pienamente libere e consapevoli: fenomenologia che, per quanto ridotta possa essere la sua incidenza percentuale, meriterebbe, comunque sia, un trattamento differenziato. Al riguardo, occorre considerare che, in questa materia, la linea di confine tra decisioni autenticamente libere e decisioni che non lo sono si presenta fluida già sul piano teorico – risultando, perciò, non agevolmente traducibile sul piano normativo in formule astratte – e, correlativamente, di problematica verifica sul piano processuale, tramite un accertamento ex post affidato alla giurisdizione penale».

«A ciò si affiancano – si conclude – anche preoccupazioni di tutela delle stesse persone che si prostituiscono per effetto di una scelta (almeno inizialmente) libera e consapevole. Ciò in considerazione dei pericoli cui esse si espongono nell’esercizio della loro attività: pericoli connessi al loro ingresso in un circuito dal quale sarà poi difficile uscire volontariamente, stante la facilità con la quale possono divenire oggetto di indebite pressioni e ricatti, nonché ai rischi per l’integrità fisica e la salute, cui esse inevitabilmente vanno incontro nel momento in cui si trovano isolate a contatto con il cliente (pericoli di violenza fisica, di coazioni a subire atti sessuali indesiderati, di contagio conseguente a rapporti sessuali non protetti e via dicendo)».

In conclusione, la Corte Costituzionale ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 3, primo comma, numeri 4), prima parte, e 8), della legge 20 febbraio 1958, n. 75 (Abolizione della regolamentazione della prostituzione e lotta contro lo sfruttamento della prostituzione altrui), sollevate, in riferimento agli artt. 2, 3, 13, 25, secondo comma, 27 e 41 della Costituzione, dalla Corte d’appello di Bari.

Ricordiamo che identica questione era stata affrontata anche nel cd. processo “Ruby-bis” dalla Corte di Appello di Milano, che la aveva però ritenuta manifestamente infondata.

Redazione Giurisprudenza Penale

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