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Punire e rieducare: un equilibrio storicamente (im)possibile

in Giurisprudenza Penale Web, 2018, 10 – ISSN 2499-846X

Da millenni gli uomini si puniscono vicendevolmente e da millenni si domandano perché lo facciano
Wiesnet E., Pena e retribuzione: la riconciliazione tradita. Sul rapporto fra cristianesimo e pena, Milano, 1987

La pressoché totalità dei manuali di diritto penale contiene, all’interno dei primi capitoli, almeno un paragrafo intitolato: “Perché punire?”.

La punizione per il male arrecato alla società sembra essere, in sostanza, il risultato di una semplice operazione algebrica secondo la quale “ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria”: siamo innanzi ad una sorta di istintualità del diritto penale?

Il diritto penale, tuttavia, al di là della facile provocazione, sembra realmente racchiudere in sé una sorta di istinto. Si pensi, in primis, alla traduzione del latino poena che, in linea con il greco poinè, si rende: “prezzo del riscatto per un reato di sangue, espiazione, ammenda, quindi, in senso lato, soddisfazione, compenso, perciò ora vendetta, ora pena, castigo punizione[1]”. La pena, storicamente parlando, è, infatti, la soddisfazione dell’istinto vendicativo della persona offesa e si palesa, in tempi recenti, come l’accentramento statale dell’esigenza sociale di vendetta. È stato efficacemente scritto, infatti, che “l’istinto aggressivo che è all’origine della vendetta non muta nello spazio e nel tempo, ma mutano le forme e le norme della vendetta. La vendetta sembra nascere da una reazione istintuale ad una aggressione subìta, ma la vendetta non è solo istinto: è anche istituzione. Percorrendo la storia e la geografia umana, ci troviamo di fronte, infatti, a molteplici forme della vendetta: per esempio la vendetta barbaricina, la ultio romana, la vendetta del Kanun albanese, la vendetta dei samurai, la vendetta descritta nelle saghe nordiche medioevali, la vendetta dell’antico diritto hindu, la vendetta mafiosa, la vendetta langarola. Si tratta di veri e propri istituti giuridici (come quelli della proprietà e del matrimonio) che sono regolati e costituiti dalle proprie norme e che si iscrivono all’interno di particolari diritti, che spesso sono diritti popolari (folklaws). […] Dall’unicità dell’istinto aggressivo siamo giunti alla molteplicità degli istituti giuridici della vendetta[2]”. A ben vedere, pertanto, non è una grandissima novità l’assenza di rieducazione nell’universo della pena.

Non è nemmeno un caso, d’altronde, il fatto che gli istituti antesignani del carcere siano le “houses of correction” londinesi, nate “nei primi anni del cinquecento, [allorquando] il clero londinese propose al re di utilizzare un palazzo, il palazzo di Bridewall, per ospitare i vagabondi, gli autori di piccoli reati, di piccoli furti, le persone che non trovavano lavoro, organizzando un’attività produttiva che avesse lo scopo di riformare i soggetti con il lavoro obbligatorio, con la disciplina, ma non in vista di punirli coercitivamente con un lavoro forzato, ma affinché, attraverso il lavoro, fosse assicurato prima di tutto l’automantenimento, quindi il sostentamento di coloro che venivano internati e, infine, venisse impartita un’educazione disciplinare idonea a garantirne l’avviamento al lavoro[3]”. Tale pena era un “ossimoro, dal momento che la carità si sviluppava in termini di costrizione: una carità che veniva fatta subire[4]” e nacque, pertanto, per soddisfare gli interessi finanziari del regno: ideale ben lungi dal concetto di rieducazione del reo.

L’ideale illuministico, grandissimo sostenitore del carcere, d’altronde, nel momento in cui acclamava la pena carceraria come la migliore delle pene-contrapponendola all’inumana pena di morte ed allo splendore dei supplizi- non tardava nel definirla, nella realtà dei fatti, come una “cloaque d’infection où mille malhereux s’entre-communiquent le poison lentement dévorant de la mort[5]”. La pena carceraria, in buona sintesi, ha sempre vissuto nell’ombra di sé stessa: condannata a non rispecchiare, nei tragici fatti, la propria idealizzazione.

Non è sconcertante osservare che, storicamente parlando, nel momento in cui il carcere venne elevato a “panacea d’ogni male” quest’ultimo veniva, al contempo, aspramente criticato per la propria concreta inadeguatezza? Come scrisse Foucault “la critica della prigione e dei suoi metodi apparì ben presto, in quegli stessi anni 1820-45; essa si fissa d’altronde in un certo numero di formulazioni che-salvo per le cifre-sono ancor oggi ripetute quasi senza alcun cambiamento”.

Ora come allora si potrebbe, infatti, notare che:

“-Le prigioni non diminuiscono il tasso di criminalità: possiamo estenderle, modificarle, trasformale, la quantità dei crimini e dei criminali rimane stabile, o, peggio, ancora, aumenta […]

-La detenzione provoca la recidiva; usciti di prigione, si hanno maggiori probabilità di prima di ritornarvi […]

-La prigione non può evitare di fabbricare delinquenti. Ne fabbrica per il tipo di esistenza che fa condurre ai detenuti […]

-La prigione rende possibile, meglio, favorisce, l’organizzazione di un milieu di delinquenti, solidali gli uni con gli altri, gerarchizzati, pronti per tutte le future complicità […]

-Le condizioni fatte ai detenuti liberati li condannano fatalmente alla recidiva: perché sono sotto la sorveglianza della polizia; perché hanno residenze obbligate o interdizioni di soggiorno […]

-Infine, la prigione fabbrica indirettamente dei delinquenti, facendo cadere in miseria la famiglia del detenuto[6]”.

Gli interrogativi intorno al carcere sono, a ben vedere, gli stessi da centinaia di anni: ad un’idilliaca immagine sociale del carcere si contrappone, da sempre, la più indegna concretezza dei fatti.

Si può, dunque, accostare il concetto di rieducazione alla pena carceraria? Storicamente no. Il carcere ha sempre vissuto su due binari paralleli che non si sono mai incontrati: uno era quello che portava al lontano mondo delle idee, il secondo si fermava sempre alla prima e desolata “stazione”. La situazione, attualmente, non è certamente migliorata: anzi. Solo pochi giorni fa una nota testata giornalistica riferiva che una delegazione del partito Radicale nonviolento transnazionale e transpartito aveva visitato la Casa Circondariale di Foggia trovando “carenze sanitarie, spazi limitati e assenza di personale […] una realtà dimenticata dalla legge[7]”.

Parlare di rieducazione e di pena carceraria nella stessa frase appare, oggi, del tutto ossimorico. Le parole “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato[8]” sembrano, infatti, confliggere quotidianamente con il diffuso senso di insicurezza dei cittadini: sicurezza e pericolosità sociale sono divenuti i facili “hashtag” delle recenti pronunce giurisprudenziali. A ciò si aggiunga il costante clima di “politica elettorale” che caratterizza gli ultimi anni: erodere i diritti dei detenuti sembra generare, infatti, numerosi consensi.

È difficile comprendere se la pena carceraria stia rispondendo più ad un istinto vendicativo piuttosto che auto-difensivo della società e, purtuttavia, è pacifico che non stia perseguendo alcun fine minimamente rieducativo. La bontà di una pena deve, infatti, misurarsi sulla base dei risultati ottenuti: il tasso di recidiva è talmente alto che non ha senso parlarne. La triste realtà è che “la prigione in Italia è un mondo ignoto per tutti coloro che sono liberi e alcune persone ci tengono a non far conoscere l’inferno che hanno creato e che è mal governato. Qui fuori molti non sanno che la maggior parte dei detenuti vive come pezzi di legno accatastati in cantina. Alcuni vegetano. Altri si tagliano nel corpo e nell’anima. La verità è che nella stragrande maggioranza dei casi si vive, come cani ciechi in un canile, con spazi ridotti, una non vita in totale assenza costante d’intimità, d’intrattenimento, di cultura, d’affetto[9]”.

Le facili obiezioni sono: “e allora cosa bisognerebbe fare con i detenuti?”. La risposta, altrettanto facile, è: “rieducarli!”. Il carcere è solo una delle tipologie di pena possibili ed è una pena che nel momento in cui è sorta presentava già fortissime criticità. Esistono le misure alternative alla detenzione ed esiste, soprattutto, il macro-universo della giustizia riparativa: perché continuare ad elogiare una pena inutile per chiunque come il carcere?

Quando la pena-parola di per sé densa di contraddizioni-cesserà di essere asservita alle esigenze di sicurezza sociale ed ai più svariati istinti allora, e solo allora, sarà possibile parlare di pene rieducative. Quando le pene saranno rieducative smetteranno di chiamarsi in tal modo: sarà solo rieducazione.


[1] Calonghi F., Poena, in Dizionario Latino-Italiano, Torino, 1972
[2] Lorini G. – Masia M., Antropologia della Vendetta, Napoli, 2015, pagine X-XI
[3] Padovani T., La pena carceraria, Pisa, 2014, pagina 33
[4] Ibidem, pagina 38
[5] Brissot De Warville J.P., Théorie des lois criminelles, volume I, Paris, 1871, pagina 171
[6] Ibidem, pagine 291-295
[7] Perisa R., Nel carcere di Foggia: una realtà dimenticata dalla legge, ne L’Espresso del 10 settembre 2018
[8] Art. 27 Costituzione
[9] Musumeci C., L’uso della pistola elettrica nelle carceri: l’opinione di un ergastolano, in Agoravox, 11 settembre 2018

Come citare il contributo in una bibliografia:
D. Monni, Punire e rieducare: un equilibrio storicamente (im)possibile, in Giurisprudenza Penale Web, 2018, 10