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La sentenza del Tribunale di Roma nel caso Delmastro (rivelazione di segreto d’ufficio nella vicenda Cospito).

Tribunale di Roma, Sez. VIII penale, 20 maggio 2025 (ud. 20 febbraio 2025)
Presidente dott. Rugarli, Giudici dott.ssa Conforti – dott.ssa Bruni

Segnaliamo ai lettori il deposito delle motivazioni della sentenza del Tribunale di Roma nel processo penale che vede imputato il Sottosegretario On.le Andrea Delmastro per rivelazione di segreto d’ufficio (art. 326 c.p.)

In punto di diritto, “il Collegio ritiene che le notizie comunicate dall’imputato all’On.le Donzelli rientrassero e rientrino (salvo l’effetto della loro odierna diffusa conoscenza, peraltro proprio a causa della condotta dell’imputato), nell’ambito del segreto di ufficio e avessero la copertura penale prevista dall’art 326 c.p., che la comunicazione di tali notizie abbia comportato un concreto pericolo per la tutela e l’efficacia della prevenzione e repressione della criminalità e che il Delmastro non può essere ritenuto tanto leggero e superficiale, come per certi versi vorrebbero Difesa e Procura, da non aver considerato e non essersi reso conto della valenza e delicatezza, e in definitiva della segretezza, di quelle informazioni“.

La norma – si legge nella sentenza – “comprende un ambito di applicazione molto più ampio delle classificazioni amministrative a cui spesso si è fatto riferimento; le categorie del “segreto/segretissimo, riservato/ riservatissimo” e altre consimili sono certamente ricomprese nell’ambito della tutela della norma ma non ne esauriscono affatto il portato, sicché è del tutto fuorviante e privo di qualsiasi fondamento giuridico opinare che poiché nessuna di tali clausole era apposta sulla relazione sul carteggio, sol per questo le notizie lì contenute fossero ostensibili urbi et orbi”.

Il Tribunale prosegue osservando che “sarà anche stato un segreto di pulcinella, come osserva nella sua memoria il difensore dell’imputato, ed è certamente corretto ipotizzare che i detenuti temano e ritengano di essere ascoltati e osservarti; tuttavia, – a parere del Collegio – un conto sono le ipotesi che più o meno fondatamente un soggetto formula, altro è la certezza, con collocazione del fatto in un preciso contesto spazio temporale. Giacché è certo che, a seguito del clamore mediatico dell’intervento in parlamento dell’On. Donzelli, tanto il Cospito che i detenuti di criminalità organizzata vennero a sapere che il loro colloquio era stato ascoltato e riferito“.

Vero – prosegue la pronuncia – “che non è l’imputato che diffonde in una seduta parlamentare le notizie contenute nella relazione dei NIC, ma è l’imputato che con la condotta oggetto di imputazione pone le condizioni per le successive propalazioni, che è esattamente quanto la norma vuole evitare pretendendo che le notizie riservate restino all’interno dell’ufficio e non siano indiscriminatamente diffuse all’esterno o comunque diffuse in violazione delle norme sul diritto di accesso“.

È evidente “che, all’interno di un ufficio, l’atto, l’informazione o la notizia può essere vista e conosciuta da una pluralità di persone che in ragione dei compiti di ufficio ne vengono a contatto e quindi a conoscenza ma, non per questo, viene meno il segreto che obbliga tutti i soggetti che hanno  conoscenza dell’atto o dell’informazione in funzione del ruolo svolto, quale sia“.

L’esempio più chiaro – continuano i giudici del Tribunale di Roma – “è quello degli uffici giudiziari (uffici spesso ricorrenti nella casistica di violazione dell’art 326 c.p.) in cui le notizie relative ad un’indagine o anche ad atti delicati e riservati, come intercettazioni ed esecuzione di misure cautelari, sono a conoscenza del P.M. e del Giudice, ma anche degli amministrativi addetti agli uffici che le trasmettono o le ricevono o ancora del personale di PG che collabora all’indagine o che deve eseguire i provvedimenti: in taluni casi il numero di persone a conoscenza del segreto di ufficio, anche se certo non in migliaia, può anche essere di molte unità, tutte indistintamente tenute al segreto di ufficio, senza che questo venga meno perché conosciuto da più persone“.

La tesi sostenuta “da più voci processuali, tra le quali legittimamente quella dell’imputato, che tale classificazione (limitata divulgazione) avesse valore solo all’interno del DAP e fosse tamquam non esset per il destinatario esterno al dipartimento, che quindi poteva liberamente diffonderlo, è singolare. Dipinge una Pubblica Amministrazione senza coerenza, priva di unitarietà, in cui ogni ufficio si regola come una sorta di repubblica indipendente, senza alcuna considerazione e attenzione per le esigenze di altri uffici“.

Allo stesso modo, “la tesi che l’imputato non fosse consapevole che le notizie da lui insistentemente richieste e comunicate all’on Donzelli fossero coperte dal segreto d’ufficio non può essere condivisa: difetta di credibilità ed è sfornita di prova salva la parola interessata dell’imputato e di parte dei testi in servizio al Ministero che, riferendosi alle classificazioni del segreto e riservato e a quella del segreto investigativo, non considerano in alcun modo che il segreto di ufficio ha una portata più vasta“.

Occorre sgomberare il campo – si legge ancora nella sentenza – “da un equivoco vale a dire che l’imputato sarebbe stato tratto in errore anche dalla confusione che regnava all’interno del Ministero e dagli equivoci sul segreto amministrativo confuso con altri tipi di riservatezza degli atti (tesi che viene spesa nella richiesta di archiviazione del P.M. acquisita in atti)“.

L’intera istruttoria dibattimentale “indica che tali equivoci e le interpretazioni prospettate in dibattimento sulla libera ostensione delle notizie fornite all’On. Donzelli, sorgono e si sviluppano dopo il fatto e dopo il clamore mediatico e le polemiche politiche. E’ evidente che il difetto di dolo deve preesistere alla condotta incriminata; l’illecito deve essere compiuto sorretto da un atteggiamento psicologico che incide sulla corretta formazione del processo volitivo viziato dall’errore. La confusione e gli equivoci avrebbero dovuto sussistere prima della condotta incriminata e avrebbero dovuto condizionarla, ma di questo non c’è alcuna traccia nell’istruttoria“.

Secondo il Tribunale, “anche il profilo personale dell’imputato rende inverosimile il difetto di dolo sostenuto: laureato in legge, avvocato penalista, sottosegretario con delega agli Istituti di pena (quindi proprio il settore che attua il regime previsto dall’art 41 bis OP), parlamentare di lungo corso, attento e sensibile ai profili della sicurezza, chiamato a ricoprire ruoli apicali nell’amministrazione della giustizia e specificamente nella gestione della polizia penitenziaria e degli istituti di pena; ebbene date tutte queste premesse suona abbastanza singolare che le informazioni siano state dall’imputato ritenute liberamente divulgabili e non coperte dalla riservatezza del segreto di ufficio“.

Quanto alle richieste di risarcimento delle parti civili – 4 Parlamentari del Partito Democratico che avevano chiesto la cifra simbolica di 5 € – secondo i giudici “non è emersa alcuna evidenza del fatto che l’imputato abbia fornito all’On. Donzelli le informazioni riservate al preciso fine di consentire a quest’ultimo di utilizzarle nel proprio discorso parlamentare: non può ritenersi che l’imputato sia né l’autore “materiale” né quello “mediato” del danno reputazionale lamentato dalle parti civili, né tantomeno si può ritenere che egli ne sia corresponsabile in via solidale con l’On. Donzelli (peraltro tutelato dall’art 68 Cost.)

Redazione Giurisprudenza Penale

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