Incostituzionale la norma che consentiva all’imputato detenuto di opporsi all’astensione del difensore ed alla sospensione dei termini di custodia: brevi considerazioni a caldo
in Giurisprudenza Penale Web, 2018, 7-8 – ISSN 2499-846X
Corte Costituzionale, 27 luglio 2018 (ud. 4 luglio 2018) sentenza n. 180
Presidente Lattanzi, Relatore Amoroso
1. La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 180 del 27 luglio 2018 (pubblicata in questa Rivista, ivi), ha dichiarato illegittimo, perché in contrasto con l’art. 13, comma 5, della Costituzione, l’art. 2-bis della legge 13 giugno 1990, n. 146 (1) nella parte in cui consente che il codice di autoregolamentazione delle astensioni dalle udienze degli avvocati (2) – nel regolare, all’art. 4, comma 1, lettera b), l’astensione degli avvocati nei procedimenti e nei processi in relazione ai quali l’imputato si trovi in stato di custodia cautelare – interferisca con la disciplina della libertà personale dell’imputato.
La Corte, in particolare, ha osservato che l’art. 13, comma 5, prescrive una «riserva di legge, di carattere assoluto» in materia di carcerazione preventiva, riserva da cui discende che solo la legge, in quanto fonte di rango primario, può dettare disposizioni che incidano sulla durata delle misure custodiali.
Il codice di autoregolamentazione, com’è noto, è fonte di rango secondario (3) per cui, ove all’art. 4, comma 1, lettera b) prescrive che l’astensione del difensore non è consentita nella materia penale, nei «procedimenti e nei processi in relazione ai quali l’imputato si trovi in stato di custodia cautelare o di detenzione, ove l’imputato chieda espressamente, analogamente a quanto previsto dall’art. 420-ter, comma 5 (introdotto dalla legge n. 479/1999) del codice di procedura penale, che si proceda», per via del richiamo all’art. 420-ter, comma 5, cod. proc. pen., il “consenso” esplicito od implicito dell’imputato detenuto – secondo la Consulta – impone al giudice di rinviare l’udienza ad altra data, con conseguente sospensione dei termini di durata massima della custodia cautelare.
La Corte, difatti, osserva: «la disposizione del codice di autoregolamentazione mira ad introdurre – ed introduce – una fattispecie analoga e parallela a quella legale che, dando rilievo all’assenso dell’imputato, incide parimenti sul prolungamento, o no, dei termini di durata massima della custodia cautelare, e finisce per toccare proprio la disciplina legale di tali termini», protetta – come si è detto – dalla prescrizione costituzionale della riserva assoluta di legge.
2. Il Tribunale rimettente, come si legge nella pronuncia, aveva lamentato – unitamente ad altri parametri costituzionali – la violazione dell’art. 13, «in quanto, derivando dal rinvio dell’udienza l’effetto della sospensione dei termini di custodia cautelare ai sensi dell’art. 304 cod. proc. pen., l’imputato, presunto non colpevole, subisce restrizioni della libertà personale per motivi diversi da quelli espressamente considerati dalla legge», censurando per ciò «la norma primaria che non avrebbe dovuto consentire ciò che poi la norma subprimaria ha regolamentato», osservando che «per essere rispettosa dei parametri evocati [la norma primaria] dovrebbe precludere al codice di autoregolamentazione una tale interferenza».
La Corte ha, dunque, accolto la questione in questi termini, con conseguente assorbimento degli altri profili di illegittimità dedotti.
3. La sentenza in commento ha ricordato la precedente pronuncia n. 171 del 1996, nella quale la Corte «ha riconosciuto che “l’astensione dalle udienze degli avvocati e procuratori è manifestazione incisiva della dinamica associativa volta alla tutela di questa forma di lavoro autonomo”, in relazione alla quale è identificabile, più che una mera facoltà di rilievo costituzionale, un vero e proprio diritto di libertà».
Ha poi precisato che «è necessario, però, un bilanciamento con altri valori costituzionali meritevoli di tutela», fra i quali rientra «l’amministrazione della giustizia, con particolare riferimento ai provvedimenti restrittivi della libertà personale ed a quelli cautelari ed urgenti nonché ai processi penali con imputati in stato di detenzione», osservando che «nel bilanciamento tra questi valori e il diritto del difensore di aderire all’astensione collettiva, i primi hanno una “forza prevalente”», di cui si doveva necessariamente tenere conto nella regolamentazione della materia.
In ultimo, ha ricordato come, a seguito della pronuncia di incostituzionalità del 1996, il legislatore abbia deciso di intervenire non più con una legge ordinaria, bensì coinvolgendo le organizzazioni di categoria, attraverso il codice di autoregolamentazione. Scelta che la Corte ha giudicato pienamente legittima, in quanto «appartiene alla discrezionalità legislativa», e per di più compiuta «in un’ottica, più avanzata, di assetto partecipativo degli strumenti di composizione del conflitto».
4. Il codice si è mosso entro il perimetro delineato dalla legge 12 giugno 1990, n. 146, la quale all’art. 2 bis riconosce il diritto di astensione e fissa il principio del suo contemperamento con i diritti della persona costituzionalmente tutelati, prevedendo i requisiti del termine di preavviso, della durata e della motivazione, lasciando poi all’autoregolamentazione il compito di assicurare un livello di prestazioni compatibile con le finalità indicate dall’art. 1, comma 2.
La decisione di incostituzionalità ha sanzionato il predetto art. 2 bis nella parte in cui, affidando al codice la regolamentazione delle prestazioni essenziali, non gli ha precluso di «andare ad incidere sulla disciplina legale dei limiti di restrizione della libertà personale, prevedendo una facoltà dell’imputato – quella di richiedere, o no, che si proceda malgrado la dichiarazione di astensione del suo difensore che abbia aderito all’astensione collettiva – con diretta ricaduta sui termini di durata della custodia cautelare».
La Corte ha, inoltre, osservato che «non è (nell’immediato) un problema di disapplicazione della disposizione subprimaria, in ipotesi illegittima per violazione dei limiti posti dalla norma primaria, ma è innanzi tutto una questione di costituzionalità della norma primaria nella parte in cui ha consentito a quella subprimaria di incidere sulla durata della custodia cautelare prevedendo tale facoltà dell’imputato detenuto».
In sostanza, la Consulta ha giudicato illegittima la prescrizione del “consenso” dell’imputato detenuto, contenuta nel codice di autoregolamentazione (fonte di rango secondario), e non preclusa dall’art. 2 bis (fonte di rango primario), poiché idonea ad incidere sui termini di custodia, protetti dalla riserva assoluta di legge.
5. La Corte, per altro verso, ha lasciato immune da censure la restante disciplina che «riconosce il diritto (sindacale) di “astensione collettiva delle prestazioni, a fini di protesta o di rivendicazione di categoria”», così come «la regola sulle “prestazioni indispensabili” da assicurare in caso di procedimento o processo nei confronti di imputato detenuto in custodia cautelare … posta dalla disposizione subprimaria».
La pronuncia di incostituzionalità, pertanto, verte unicamente sulla disciplina del consenso, perché dalla Corte ritenuta idonea ad interferire con i termini di custodia, interferenza non consentita in ragione del rango subprimario attribuito al codice, e non anche sul contemperamento dei diritti cui ottempera l’autoregolamentazione.
L’effetto della pronuncia di illegittimità costituzionale è allora quello di rendere illegittimo, per violazione dell’art. 2 bis, il codice di autoregolamentazione, nella parte in cui attribuisce rilevanza al consenso od al dissenso dell’imputato detenuto ai fini della decisione sulla legittimità della richiesta di differimento udienza avanzata del difensore che ha aderito all’astensione, lasciando immune da vizi di validità la restante parte del codice.
La previsione del consenso dovrà conseguentemente essere disapplicata per contrasto con la norma primaria, applicandosi invece la rimanente disciplina.
6. Il nuovo assetto normativo imporrà al giudice procedente, nel caso di astensione dalle udienze in processi con imputati detenuti, di non prendere in esame il consenso, od il dissenso dell’imputato. Avrà, invece ed unicamente, rilevanza «se il rinvio dell’udienza sarà dal tribunale […] ascritto al legittimo esercizio del diritto del difensore di aderire all’astensione collettiva».
In sostanza, il giudice sarà chiamato a valutare il rispetto della normativa regolamentare – per come riconfigurata dalla pronuncia della Corte – e di legge, per determinare la conformità della richiesta alle prescrizioni normative, a nulla rilevando il consenso od il dissenso dell’imputato detenuto.
7. La sospensione dei termini di custodia, in ragione del consenso all’astensione che il detenuto poteva esprimere sino alla pronuncia della Corte, non potrà più operare. La violazione della riserva di legge ha infatti condotto alla pronuncia di incostituzionalità della disciplina che sino ad ora l’aveva consentita. Vi è però da chiedersi se, dopo la sentenza in commento, i termini di custodia continueranno a decorrere, ovvero dovranno comunque essere sospesi per altra ragione.
In verità, il richiamo all’art. 420 ter, comma 5, cod. proc. pen., contenuto nell’art. 4, comma 1, lett. b) del codice di autoregolamentazione, nulla disponeva in ordine ai termini di custodia, bensì si limitava ad assicurare all’imputato il diritto di vedere celebrarsi l’udienza, nonostante la dichiarazione di astensione del proprio difensore, peraltro con l’effetto di evitare la predetta sospensione.
A ben vedere, la sospensione dei termini di custodia operava invece in applicazione dell’art. 304 cod. proc. pen., che la prescrive nelle ipotesi di richiesta di differimento dell’udienza formulata dal difensore, compresi i casi nei quali la stessa si fonda sulla volontà del legale di aderire all’astensione (4).
La disposizione non è stata sfiorata dalla pronuncia di incostituzionalità, dovendosi per ciò applicare anche a seguito della sentenza in commento. La richiesta di astensione del difensore, pertanto, ove giudicata legittima dal giudice, e cioè conforme alla disciplina di legge e regolamentare, comporterà la sospensione dei termini di custodia, ai sensi del predetto art. 304, comma 1, lett. a), cod. proc. pen., esattamente come avveniva prima della pronuncia della Corte Costituzionale.
Ciò che la Corte ha “abrogato” è effettivamente la facoltà dell’imputato detenuto di opporsi al differimento dell’udienza, mantenendo conseguentemente invariati i termini di custodia. Ciò che la Corte non ha “abrogato”, invece, è proprio la possibilità che i termini di custodia vengano sospesi a causa della richiesta legittima di adesione all’astensione. Ma, in questo caso, si tratta di disposizioni di rango primario. Dura lex, sed lex.
(1) La l. 13 giugno 1990, n. 146 ha ad oggetto norme sull’esercizio del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali e sulla salvaguardia dei diritti della persona costituzionalmente tutelati. Istituzione della Commissione di garanzia dell’attuazione della legge.
(2) Il codice di autoregolamentazione è stato adottato in data 4 aprile 2007 dall’Organismo Unitario dell’Avvocatura (OUA) e da altre associazioni categoriali (UCPI, ANF, AIGA, UNCC), valutato idoneo dalla Commissione di garanzia per lo sciopero nei servizi pubblici essenziali con delibera n. 07/749 del 13 dicembre 2007 e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 3 del 2008.
(3) La natura di fonte di rango sub-primario è stata chiarita, da ultimo, anche dalle Sezioni Unite penali della Suprema Corte di Cassazione, richiamate nella sentenza della Corte, nelle pronunce 30 maggio 2013, n. 26711 e 27 marzo 2014, n. 40187.
(4) Cfr. Sez. II penale, 17 giugno 2015, n. 41165.
Come citare il contributo in una bibliografia:
L. Scollo, Incostituzionale la norma che consentiva all’imputato detenuto di opporsi all’astensione del difensore ed alla sospensione dei termini di custodia: brevi considerazioni a caldo, in Giurisprudenza Penale Web, 2018, 7-8