ARTICOLIDIRITTO PROCESSUALE PENALE

La Cassazione si pronuncia in tema di acquisizione di materiale informatico da parte del PM (senza l’autorizzazione da parte di un giudice) e compatibilità della normativa interna alla Direttiva 2016/680

Cassazione Penale, Sez. VI, 8 aprile 2025 (ud. 1 aprile 2025), n. 13585
Presidente Di Stefano, Relatore Tondin

Segnaliamo ai lettori la pronuncia con cui la sesta sezione penale si è pronunciata in tema di acquisizione di materiale informatico da parte del Pubblico Ministero (e, dunque, senza la preventiva autorizzazione da parte di un giudice o di un organo amministrativo indipendente) nonché in punto di compatibilità della normativa interna alla Direttiva 2016/680 del Parlamento Europeo e del Consiglio (relativa alla “protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali da parte delle autorità competenti a fini di prevenzione, indagine, accertamento e perseguimento di reati o esecuzione di sanzioni penali, nonché alla libera circolazione di tali dati e che abroga la decisione quadro 2008/977/GAI del Consiglio“).

Le Corte prende le mosse richiamando l’orientamento della Corte di Giustizia, secondo cui il trattamento di dati personali, inteso in senso ampio, “dovrebbe essere apprezzato da un giudice o da un organo amministrativo indipendente“, richiamando la doglianza difensiva secondo cui “l’art. 4 della Direttiva, come interpretato alla Corte, sarebbe in contrasto con la normativa interna che attribuisce, nel corso delle indagini preliminari, al pubblico ministero il potere di sequestrare dispositivi informatici (art. 253 e ss)“.

Dopo aver menzionato un precedente della quinta sezione – secondo cui “il pubblico ministero è qualificabile come organo amministrativo indipendente, in quanto «autorità giudiziaria che nell’esercizio delle sue funzioni pubbliche procede alle indagini secondo le specifiche regole dettate dal legislatore idonee a garantire anche i diritti dell’indagato” – la Cassazione ha reputato che “tale lettura non è condivisibile“.

La Corte di giustizia – si legge nella decisione – “ha preso posizione sull’argomento quando è si è pronunciata sull’interpretazione dell’articolo 15, paragrafo 1, della Direttiva 2002/58/CE, del 12 luglio 2002, relativa al trattamento dei dati personali e alla tutela della vita privata nel settore delle comunicazioni elettroniche, come modificata dalla Direttiva 2009/136/CE del 25 novembre 2009. In quell’occasione il quesito sottoposto alla Corte era se tale disposizione dovesse essere interpretata nel senso che può considerarsi come un’autorità amministrativa indipendente il pubblico ministero“.

La Corte ha risposto negativamente, rilevando che il requisito di indipendenza che l’autorità incaricata di esercitare il controllo preventivo deve soddisfare “impone che tale autorità abbia la qualità di terzo rispetto a quella che chiede l’accesso ai dati, di modo che la prima sia in grado di esercitare tale controllo in modo obiettivo e imparziale al riparo da qualsiasi influenza esterna. In particolare, in ambito penale, il requisito di indipendenza implica […] che l’autorità incaricata di tale controllo preventivo, da un lato, non sia coinvolta nella conduzione dell’indagine penale di cui trattasi e, dall’altro, abbia una posizione di neutralità nei confronti delle parti del procedimento penale. Ciò non si verifica nel caso di un pubblico ministero che dirige il procedimento di indagine ed esercita, se del caso, l’azione penale. Infatti, il pubblico ministero non ha il compito di dirimere in piena indipendenza una controversia, bensì quello di sottoporla, se del caso, al giudice competente, in quanto parte nel processo che esercita l’azione penale” (CGUE, 2 marzo 2021, C-746/18, Prokuratuur; p. 54-57).

Si deve, quindi, concludere “nel senso che l’accesso ai dati contenuti in un dispositivo informatico a fini di indagine penale richiede il controllo di un giudice o di un organo amministrativo indipendente, che – secondo la giurisprudenza della Corte di Giustizia – devono essere terzi rispetto all’organo che richiede l’accesso. Ne consegue che tale funzione di controllo non può essere esercitata dal pubblico ministero, per la sua natura di parte processuale, a prescindere dal suo statuto di autonomia“.

Ciò premesso – e passando alla vicenda in esame – “va rilevato che il trattamento dei dati è stato disposto con decreto del pubblico ministero“.

Occorre premettere – prosegue la pronuncia – “che, secondo la sentenza della Corte di Giustizia 20 aprile 2024 C-670/22, riferita al caso dell’acquisizione di prove dall’estero (vicenda “Encrochat”), è escluso che una regola di divieto probatorio possa derivare direttamente dalle disposizioni dell’Unione («dall’altro, allo stato attuale del diritto dell’Unione, spetta, in linea di principio, unicamente al diritto nazionale determinare le norme relative all’ammissibilità e alla valutazione, nell’ambito di un procedimento penale, di informazioni e di elementi di prova che sono stati ottenuti con modalità contrarie al diritto dell’Unione – v., in tal senso, sentenza del 6 ottobre 2020, La Quadrature du Net e a. (C-511/18, C-512/18 e C-520/18, EU:C:2020:791, punto 222», p. 128). Si tratta di principio che, mutatis mutandis, è riferibile alla odierna richiesta alla difesa, che intenderebbe ottenere l’inutilizzabilità delle prove raccolte dal pubblico ministero senza il provvedimento del giudice (tale è il senso della sua richiesta di “disapplicazione” delle norme codicistiche che attribuiscono al pubblico ministero il potere di sequestro probatorio in fase di indagini). Tuttavia, la sanzione di inutilizzabilità consegue unicamente alla violazione di uno specifico divieto probatorio, che non è previsto per il caso in esame (art. 191 cod. proc. pen.)“.

Escluso, dunque, “che possa essere invocata la categoria dell’inutilizzabilità, la mancanza di potere del pubblico ministero, in conseguenza dell’interpretazione data dalla Corte di Giustizia dell’art. 4 della Direttiva 2016/680, può comportare una nullità dell’atto, in applicazione dei principi affermati dalla stessa Corte sovranazionale che, con riferimento al mancato rispetto dei diritti di difesa (in quel caso per la prova raccolta all’estero con ordine europeo di indagine) ha affermato che si devono «espungere, nell’ambito di un procedimento penale avviato a carico di una persona sospettata di atti di criminalità, informazioni ed elementi di prova se tale persona non è in grado di svolgere efficacemente le proprie osservazioni su tali informazioni ed elementi di prova» (CGUE, 20 aprile 2024, C-670/22, p. 131). Si tratta, quindi, di un effetto sostanziale, che ricorre solo in caso di concreta impossibilità di difendersi. Certamente, quindi, allo stato la normativa interna non risponde alla previsione della citata Direttiva – e della interpretazione che deve essere data anche alla norma di attuazione interna di cui all’art. 3 del d. lgs. 18 maggio 2018, n. 51 -, che richiede che il giudice intervenga in via preventiva con una pronuncia di carattere autorizzatorio (nulla impedisce, ovviamente, che per il futuro, proprio al fine di adeguarsi all’interpretazione della Corte di Giustizia, il pubblico ministero richieda l’autorizzazione al Giudice per le indagini preliminari, ovvero, nei casi di urgenza, richieda una successiva convalida)“.

Nel caso concreto – conclude la sentenza – “però i diritti della difesa ad avere una valutazione giurisdizionale non risultano pregiudicati poiché sul sequestro si è pronunciato il Tribunale per il riesame, adito ai sensi dell’art. 324 cod. proc. pen. Va rilevato che la richiesta di riesame, che viene attivata senza alcuna formalità e che impone la decisione in tempi strettissimi, innesta una procedura particolare, diversa da quella dei normali atti di impugnazione, in quanto il Tribunale deve apprezzare, sotto il profilo della legittimità e del merito, pur senza specifiche doglianze dell’interessato, la correttezza del provvedimento, la congruità e la comparazione degli interessi in gioco (esigenze probatorie e esigenze di tutela della riservatezza)“.

Perciò si deve ritenere che, nel caso di specie, “il ricorrente non abbia subito alcuna lesione dei propri diritti fondamentali al rispetto della vita privata e dei dati personali, perché vi è stata una valutazione del giudice del riesame sul sequestro, effettuata con pieni poteri di cognizione e ciò ha garantito un esame effettivo e indipendente circa la necessità, proporzionalità e minimizzazione dell’acquisizione dei dati. Del resto, si consideri come, una volta intervenuta, come nel caso di specie è avvenuto, la valutazione del giudice terzo e non del soggetto, il pubblico ministero, interessato quale parte alla raccolta della prova, non residuano ambiti di interesse a un provvedimento di annullamento. Difatti, il sistema non prevede che un eventuale annullamento del provvedimento di sequestro, non intervenuto in seguito alla valutazione del merito della contestazione, comporti una preclusione alla sua immediata reiterazione“.

Redazione Giurisprudenza Penale

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