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I giudici, la premeditazione di Impagnatiello e la crudeltà di Turetta: perché le sentenze a volte non rispecchiano l’opinione pubblica (ed è giusto così)

Pubblichiamo – ringraziando il Corriere della Sera per l’autorizzazione alla condivisione – l’articolo di Luigi Ferrarella dal titolo “I giudici, la premeditazione di Impagnatiello e la crudeltà di Turetta: perché le sentenze a volte non rispecchiano l’opinione pubblica (ed è giusto così)” [Corriere della Sera, 26 giugno 2025].

La foto è di Andrea Spinelli, primo “illustratore giudiziario” italiano, che ha seguito il processo di appello a carico di Alessandro Impagnatiello.

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I giudici, la premeditazione di Impagnatiello e la crudeltà di Turetta: perché le sentenze a volte non rispecchiano l’opinione pubblica (ed è giusto così)

Gli assassini di Giulia Tramontano e Giulia Cecchettin sono stati entrambi condannati all’ergastolo: se nel verdetto vengono escluse alcune aggravanti è per precise ragioni giuridiche, non certo per ridurre il «peso» del delitto (e della pena). C’è chi vuole ridurre i tribunali a «jukebox» della volontà popolare.

Scandalo se la sentenza non è di condanna, e se è di condanna allora scandalo se non è al massimo della pena, e se è al massimo della pena allora scandalo lo stesso se non ha pure il timbro di una circostanza di particolare stigma: le polemiche si alzano una volta perché in uno dei verdetti sull’uccisione di Carol Maltesi non viene riconosciuta l’aggravante dei motivi futili e abietti, un’altra volta perché la condanna dell’assassino di Giulia Cecchettin non ravvisa l’aggravante della crudeltà a dispetto delle decine di coltellate, e adesso perché l’ergastolo inflitto all’assassino di Giulia Tramontano non comprende anche l’aggravante della premeditazione.

In parte è sicuramente segno che lo strabordare delle cronache nere e giudiziarie su tutti i media non riesce evidentemente a trasformare la mole di informazioni in conoscenza reale per le persone: ancora in difficoltà a familiarizzare con l’idea che le parole del linguaggio quotidiano abbiano un senso diverso nel linguaggio del diritto; e refrattarie all’idea che i giudici nelle motivazioni debbano badare a che in Cassazione, alla fine di tutto, una sentenza non venga annullata e retroceda in appello-bis (con perdita di ulteriore tempo e riapertura delle ferite di tutte le persone coinvolte) magari solo proprio per una circostanza collaterale al reato giudicato già severamente. E di circostanze, nel mondo del diritto, ce ne sono a bizzeffe: attenuanti, aggravanti, generiche, a efficacia comune, a efficacia speciale, antecedenti, susseguenti, equivalenti.

Certo, toccherebbe in prima battuta proprio all’informazione aiutare le persone a comprendere ad esempio che la circostanza della crudeltà non attiene alle modalità tremende di un delitto, ma alla inflizione di un «di più» di sofferenze fisiche o psichiche non necessarie e sproporzionate al causare la morte, accompagnate dal compiacimento verso il dolore altrui. O che la preordinazione del delitto – intesa come ciò che attiene alla realizzazione del delitto, e alla predisposizione dei mezzi minimi necessari all’esecuzione nella fase a quest’ultima immediatamente precedente – non è sufficiente a integrare l’aggravante della premeditazione, che postula invece il radicamento e la persistenza costante, per un apprezzabile lasso di tempo, del proposito omicida nella psiche del reo, secondo indici tutti ricavabili o meno anche qui soltanto dall’esame specifico del caso concreto al vaglio dei giudici.

E qui, però, sta forse anche il nocciolo del perché queste polemiche, del tutto comprensibili se provenienti dalle persone che si sono viste portare via una persona cara, trovino terreno fertile in chi (anche nella politica) le rilancia e cavalca per motivi ben più prosaici. Al fondo vi si scorge infatti la tendenza a voler far decidere il processo al televoto di cittadini illusi di sapere ciò che il processo ha ricostruito, e dei parenti delle vittime, tanto più strumentalizzati nel loro dolore quanto meno aiutati a comprendere il significato di una sentenza. Tendenza che – proprio come in quella fetta di legislazione che procede a colpi di sempre maggiori dosi di automatismi e più stringenti presunzioni legali, incurante delle bocciature della Corte Costituzionale – punta a ridurre i margini di apprezzamento dei giudici.

In uno schema che dunque vede le toghe (e i giudici più dei pm) sotto pressione sia dal basso (dell’opinione pubblica) che dall’alto (del legislatore), avanza – e si fa oscenamente scudo delle vittime – il progetto di ridurre il giudice a jukebox di una spiccia istruttoria (presunta) popolare, alle cui rime obbligate le Corti debbano conformarsi in una sorta di obbligazione di risultato: pena apparire magistrati insensibili al grido di sicurezza dei cittadini, schierati dalla parte dei banditi, nemici del popolo in quanto nemici degli autoproclamati paladini della sicurezza del popolo. Dunque tollerati solo alla stregua di gestori di magazzino chiamati a consegnare una merce prefissata, e altrimenti «licenziabili», in questo caso non da un contratto collettivo ma dalla collettiva legittimazione popolare del loro pronunciare sentenze.