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Processo Regeni: sollevata questione di legittimità costituzionale per l’impossibilità da parte del difensore d’ufficio di nominare un consulente tecnico (se non a proprie spese)

Corte di Assise di Roma, Sez. I, Ordinanza, 23 ottobre 2025
Presidente dott.ssa Paola Roja, Giudice dott.ssa Paola Della Vecchia

Segnaliamo ai lettori, con riferimento al processo Regeni, l’ordinanza con cui la Corte di Assise di Roma ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’articolo 225 comma 2 c.p.p. in relazione agli artt. 102 e 107 comma 3 lett. d) del d.P.R. 30/5/2002, n. 115, laddove consentendo alle parti private la nomina di un consulente tecnico a spese dello Stato ove sia stata ammessa perizia, rinvia alla disciplina sul gratuito patrocinio, segnatamente agli artt. 102 e 107, che, a loro volta, subordinano la nomina e la conseguente anticipazione a carico dell’Erario all’avvenuta ammissione al patrocinio, non consentendo la nomina del consulente tecnico, con spesa anticipata dall’Erario, da parte del difensore d’ufficio che assista un imputato, dichiarato assente ai sensi dell’art. 420 bis., comma 3, del codice di procedura penale, nell’ambito di un processo pendente per delitti commessi mediante gli atti di tortura quando, a causa della mancata assistenza dello Stato di appartenenza dell’imputato, è risultato impossibile avere la prova che quest’ultimo, pur consapevole del procedimento, sia stato messo a conoscenza della pendenza del processo per delitti commessi mediante gli atti di tortura definiti dall’art. 1 C.A.T., per contrasto con gli artt. 3, comma 1, 24, comma 2, 111, comma 2 e 117, comma 1 della Costituzione.

E’ dato storicamente qui presupposto – si legge nell’ordinanza – “che alcuno dei difensori d’ufficio ha potuto presentare istanza di ammissione al patrocinio ai sensi dell’art. 78 d.P.R. 30/5/2002, n. 115, a tacer d’altro per il difetto del primo requisito previsto a pena di inammissibilità, ossia la sottoscrizione della domanda da parte dell’interessato: condizione preliminare alla valutazione dei requisiti formali e sostanziali costituenti il contenuto dell’istanza stessa, quali richiesti dall’art. 79 d.P.R. cit., tra i quali il tetto massimo di reddito previsto dall’art. 76, comma 1, secondo i limiti periodicamente fissati con decreto dirigenziale del Ministero della Giustizia (art. 77)“.

Nessuno di essi “è stato quindi messo – neppure astrattamente – in condizione di accedere all’istituto, che ben poteva contribuire ad offrire al proprio legale, oltre agli argomenti fattuali utili a discolpa, pure la tranquillità economica nello svolgimento del mandato defensionale“.

Quello che la difesa in realtà contesta – prosegue la Corte di Assise – “non è l’impossibilità in sé di ammissione al gratuito patrocinio, essendo ben consapevole che al difensore d’ufficio è comunque garantita, attraverso il pagamento degli onorari e delle spese, una remunerazione, sia pur nel caso di specie minimamente compensativa, a fronte di un processo eccezionalmente oneroso, impegnativo per l’elevata complessità delle questioni tecniche, dispendioso, non solo temporalmente, avendo i difensori sino ad oggi affrontato a proprie spese e con anticipazioni di denaro un dibattimento straordinario che si snoda da quasi due anni“.

Ciò di cui in realtà la difesa si lamenta “è l’impossibilità attuale di procedere alla nomina di un proprio consulente (nel caso: un interprete di lingua araba) con cui assicurarsi il contraddittorio in occasione del rinnovo peritale delle traduzioni, disposto dalla Corte, dei verbali in lingua araba, la cui rilevanza è dimostrata proprio dallo stallo del processo da alcuni mesi a fronte delle contrapposte contestazioni: sulla base della corretta premessa che tale facoltà sia riservata e limitata ai difensori d’ufficio di imputati ammessi al patrocinio gratuito, ai sensi dell’art. 225 comma 2 in combinato con l’art. 102 d.P.R. n. 115, cit.“.

Ovviamente – si legge nell’ordinanza – “l’impossibilità che qui si contesta non è di tipo fattuale, bensì di ordine normativo: in altri termini, ben potrebbero i difensori procedere alla nomina di consulenti di parte, ma dovrebbero provvedervi a proprie spese, attesa l’impossibilità descritta di procedere al recupero di tale voce di costo sia, assai verosimilmente, dai propri assistiti (residenti in Egitto presso indirizzi sconosciuti poiché lo Stato egiziano si è rifiutato di darne comunicazione), sia da parte dello Stato, che si è assunto l’onere del pagamento diretto del professionista tecnico ai sensi degli artt. 83, 107, 116 с. 2 е 117 с. 2 T.U., non trattandosi dunque di spesa rimborsabile per il legale“.

L’alternativa che si pone, dunque, “è quella di imporre al difensore un onere economico ingiustificato, ovvero di costringerlo ad una difesa condizionata e sminuita rispetto alle possibilità di esercizio di cui dispongono le restanti parti processuali, pubblica e privata, dopo che l’intero dibattimento è stato già connotato da una difesa sostanzialmente passiva e concretamente priva di possibilità di iniziativa autonoma rispetto alle prove introdotte dal pubblico ministero e dalle parti civili: alternativa che, dal punto di vista valoriale e dei principi, va ben al di là del rischio professionale del mancato pagamento che sempre accompagna l’attività del difensore di fiducia e del difensore d’ufficio di imputato che non possa (o non voglia) essere ammesso al gratuito patrocinio“.

La ratio cui la Corte Costituzionale “si è costantemente ispirata nelle decisioni in materia è stata da un lato quella di attuare il diritto all’inviolabilità della difesa anche attraverso la presenza, ove ritenuta necessaria, dell’assistenza di un consulente in funzione di salvaguardia di una reale dialettica delle posizioni: sì che il consulente entra a far parte integrante dell’ufficio di difesa dell’imputato, nel cui interesse presta la propria opera, attraverso argomenti, rilievi ed osservazioni tecniche che hanno sostanzialmente natura di attività difensiva e che vengono veicolate al giudice, quali elementi di prova, attraverso la relazione scritta e il suo esame dibattimentale“.

Secondo i giudici, “il vulnus che consequenzialmente si è creato nell’odierno processo a sfavore della difesa, dotata di facoltà d’iniziativa assolutamente ridotta e sbilanciata rispetto alle restanti parti, non si ritiene possa essere colmato dal rimedio che la stessa Corte ha individuato al fine di garantire il rispetto dei diritti fondamentali protetti dagli artt. 111 Cost. e 6 CEDU, ossia la restituzione nelle facoltà processuali a favore degli imputati, i quali potrebbero comparire in ogni momento, anche prima della pronuncia di un’eventuale condanna, e quindi anche senza ricorrere a un’impugnazione, in alternativa al diritto alla riapertura del processo in presenza e a loro richiesta, con il riesame del merito della causa“. Non vi è chi non veda – continuano i giudici – “che, da un lato, si tratta di situazione del tutto teorica e virtuale, priva di agganci al reale, anche a fronte del successivo atteggiamento delle Autorità egiziane; dall’altro lato, non vi è ragione perché la difesa debba essere privata nel presente processo delle facoltà consentite dall’ordinamento e non le possa sfruttare integralmente, anche rimuovendo limiti rispetto a diritti che qui si ritengono discutibilmente negati per difetto sistematico, così da ridurre il dibattimento ad un simulacro a garanzie ridotte“.

Peraltro, “non può sottacersi che, nell’eventualità di condanna di uno o più degli imputati, risulterebbe di fatto impossibile per il difensore la proposizione di un’impugnazione volta a riesaminare i temi di prova, attesa la necessità di disporre a pena di inammissibilità di uno specifico mandato, che incontrerà i medesimi limiti odierni, in ragione delle condizioni poste dall’art. 581 comma 1 quater. c.p.p. (“nel caso di imputato rispetto al quale si è proceduto in assenza, con l’atto di impugnazione del difensore è depositato, a pena di inammissibilità, specifico mandato ad impugnare, rilasciato dopo la pronuncia della sentenza e contenente la dichiarazione o l’elezione di domicilio dell’imputato, ai fini della notificazione del decreto di citazione a giudizio”)”.

Risulta, quindi, “vieppiù necessario l’integrale sfruttamento degli istituti di difesa consentiti in giudizio, a fronte della lesione che si può proiettare in prospettiva ma che attualmente già è insita nella creazione, attraverso la dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 420 bis. comma 3, c.p.p., di una partecipazione straordinaria al processo dell’imputato, di tipo virtuale, essendosi delineata un’assenza cui è estranea la conoscenza certa del processo, che è risultata fonte di adeguamento di alcuni istituti tradizionali, già sperimentato rispetto a varie questioni postesi nel corso del dibattimento“.

In altri termini, “ad un processo straordinario, nel senso della sua instaurazione in deroga agli ordinari criteri del processo in assenza posti dall’art. 420 bis. commi 1 e 2 c.p.p., devono conseguire adattamenti di istituti concepiti sulla base di presupposti diversi, unicamente rispetto ai quali risultano conformi ai principi generali del sistema; né l’astratta, eventuale possibilità di rinnovazione del processo può autorizzare che il presente si sviluppi con parzialità dei diritti difensivi“.

In conclusione, si è in presenza “di un’evidente menomazione del diritto di difesa che, a prescindere dalle condizioni di accertamento dell’abbienza dell’imputato, menoma grandemente la possibilità di efficacemente contraddire sulla questione rispetto alla quale è stata ammessa perizia, senza che ciò possa essere controbilanciato da rilievi legati alla necessità del contenimento della spesa pubblica entro giusti limiti che lo stesso legislatore ha in più occasioni inteso superare privilegiando considerazioni di natura diversa volte a valorizzare il diritto di difesa, in ogni caso reputato prevalente rispetto alla tutela dell’equilibrio del bilancio statuale (cfr. gli articoli 76 commi 4- ter. e 4-quater. d.P.R. n. 115, cit.)“.

Redazione Giurisprudenza Penale

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