ARTICOLIDIRITTO PENALEIN PRIMO PIANO

Processo Regeni: l’ordinanza della Corte di Assise di Roma sulle questioni pregiudiziali e preliminari (dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 192/2023)

[a cura di Guido Stampanoni Bassi]

Corte di Assise di Roma, Sez. I, Ordinanza, 18 marzo 2024
Presidente dott.ssa Paola Roja, Giudice dott.ssa Paola Della Vecchia

Segnaliamo ai lettori, con riferimento al cd. caso Regeni, l’ordinanza con cui la Corte di Assise di Roma – di fronte alla quale il processo è ripreso a seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 192/2023 – ha rigettato tutte le questioni pregiudiziali e preliminari poste dalle difese, disponendo di procedere nel dibattimento.

Tra i diversi temi affrontati dalla Corte, vi è quello della «sussistenza della giurisdizione del giudice italiano in ordine a tutti i fatti variamente contestati agli odierni imputati, trattandosi di accertamento che, per il suo carattere assorbente, supera qualsiasi limite temporale di rilevazione o fase processuale ai sensi dell’art. 20 c.p.p.: tanto che, al contrario, come è stato correttamente argomentato, il carattere dinamico della verifica implica il potere-dovere del giudice di controllare costantemente, per tutto il corso del processo, se i fatti che formano il contenuto dell’imputazione rientrano nell’ambito della propria giurisdizione, dovendo dichiararne il difetto non appena gli elementi di prova raccolti modifichino la struttura e l’impianto originari dell’imputazione facendola esorbitare dalla sfera cognitiva assegnatagli dall’ordinamento».

Le obiezioni sollevate dai difensori rispetto a tale impostazione «attengono, da un lato, all’operatività del principio fondamentale di irretroattività della legge penale a fronte dell’introduzione delle fattispecie specifiche di cui agli artt. 613 bis. e 613 ter. c.p. solo attraverso norme successive ai fatti, ossia con legge 14/7/2017, n. 110; dall’altro lato, soprattutto per le posizioni di 3 imputati, all’estraneità della condotta di sequestro di persona aggravato dalla qualità di pubblici ufficiali ad essi unicamente imputata, così come in concreto contestata, dall’ambito definitorio internazionale della “tortura” offerto dall’art. 1 CAT, quale recepito dalla legge nazionale».

In via preliminare, la Corte ha osservato come il «presupposto motivazionale della pronuncia di incostituzionalità sia il dato che la tortura è un crimine contro l’umanità, proibito sia dal diritto internazionale penale, sia dalle norme internazionali sui diritti umani, con tale costanza e univocità da attribuire al divieto carattere inderogabile, ascrivendolo allo ius cogens di formazione consuetudinaria previsto dall’art. 5 Dichiarazione universale dei diritti umani, dall’art. 7 Patto internazionale sui diritti civili e politici, dall’art. 3 CEDU, dall’art. 7, par. 1, lettera f, Statuto della Corte penale internazionale».

Lo statuto universale del crimine di tortura – si legge nel provvedimento – «è infatti connaturato alla sua radicale incidenza sulla dignità della persona umana, messa al centro del preambolo della Convenzione di New York contro la tortura, sicché l’accertamento dei crimini di tortura nelle forme pubbliche del dibattimento penale corrisponde ad un obbligo costituzionale e sovranazionale, e già solo per questo non è mai inutile, ove anche circostanze esterne lo privino del contraddittorio dell’imputato, sol per ciò da consentire nell’unica forma prevista dall’ordinamento interno, ossia con una declaratoria di incostituzionalità dell’ostacolo normativo, appunto pronunciata».

Ciò premesso, quanto al primo tema (relativo alla irretroattività della legge penale), la Corte evidenzia che, «dal punto di vista del diritto sostanziale, ne deriva la necessità di qualificare in concreto come atti di tortura le condotte umane commesse pure in data precedente l’entrata in vigore della legge 110 del 2017, ove presentino in fatto i caratteri e i connotati descritti dalle norme di diritto internazionale che criminalizzano gli atti di tortura e che impongono, sia pur nella cornice di ciascun ordinamento nazionale di recepimento, sanzioni penali adeguate che tengano conto della loro gravità».

Appare, dunque, necessaria – proseguono i giudici – «una migliore e più approfondita analisi della nozione di “tortura”, come interpretata a livello sovranazionale, peraltro parzialmente difforme dalla norma introdotta nell’anno 2017, non scevra da alcune criticità, al fine di verificare in concreto la riconducibilità ad essa delle condotte descritte in imputazione, soprattutto per gli incolpati del solo sequestro di persona al fine di trame conclusioni in punto sussistenza della contestata giurisdizione dell’Autorità penale italiana, allo stato delle acquisizioni».

La conclusione cui giunge la Corte è che «le condotte (contestate ad uno degli imputati) di inflizione al corpo di Giulio Regeni di gravi lesioni personali di natura fisica all’origine dell’indebolimento e della perdita permanente di più organi attraverso strumenti di tortura e mezzi contundenti di varia natura (calci e/o pugni, strumenti atti all’offesa quali bastoni e mazze) sino a cagionarne la morte, con la connessa contestazione circostanziale delle aggravanti delle sevizie e della crudeltà, quand’anche rubricate nell’unica fattispecie che al tempo lo consentiva in attuazione del principio di legalità (ossia gli artt. 582 – 583 n. 2 e 585 anche in relazione agli artt. 576 n.2, 61 nn. 1), 4) e 9), c.p.) possono agevolmente ricomprendersi nel concetto più puro e minimale di “tortura”, così come allora vivente nell’ordinamento e semplicemente esplicitato in via postuma dall’art. 613 bis. c.p.».

Si tratta, infatti, «di contestazione di una condotta, assunta da un pubblico ufficiale straniero in danno di soggetto in condizione di privazione della sua libertà personale, manifestatasi – sulla base della contestazione – con atti di brutale e gratuita violenza fisica e di inflizione di sofferenze corporali personali che non possono che avere prodotto, per la loro imponenza, gravissimo dolore e tormento in senso stretto, in un crescendo che ha originato l’evento morte, anche a voler trascurare il dato del patimento psicologico».

In altri termini «non vi è dubbio alcuno che detta descrizione dell’azione avrebbe oggi portato all’incriminazione per il delitto di cui all’art. 613 bis. c.p. e che contiene tutti gli elementi minimali costitutivi che il diritto internazionale cogente, già riconosciuto peraltro dalla Repubblica dell’Egitto di cui egli è cittadino, prevedeva al tempo delle condotte quale base essenziale di incriminazione penale da parte degli ordinamenti aderenti».

Quanto al secondo tema, «ritiene la Corte che identica conclusione debba assumersi quanto al capo a) anche per i restanti imputati cui è contestato il delitto di sequestro di persona aggravato, pur senza il concorso nei reati direttamente lesivi dell’integrità fisica di Giulio Regeni : ciò non tanto in virtù di un principio di connessione finalistica tra le varie condotte, in assenza di una norma che attribuisca rilievo alla connessione probatoria (in tesi per la previa, necessaria privazione della libertà personale della vittima rispetto alle sevizie successive) o ad altro, qualsiasi diverso legame procedurale, quanto piuttosto valorizzando le modalità, le caratteristiche e le finalità delle condotte stesse, allo stato delle incolpazioni formulate».

Nel caso di specie – prosegue la Corte di Assise – «le modalità della privazione della libertà personale subita da Giulio Regeni devono ritenersi attuate in forma tale da andare ben al di là del nucleo costitutivo di un ordinario sequestro di persona, benché aggravato dall’essere stato realizzato da un pubblico ufficiale con abuso dei poteri inerenti le sue funzioni: trattasi di vittima, infatti, del tutto arbitrariamente ed immotivatamente privata della libertà di movimento per nove giorni, libertà pesantemente pregiudicata da condotte costrittive tradotte nel suo trasferimento ed internamento infine in un Centro egiziano di detenzione e tortura (sito a Lazougly), tale indicato dal pubblico ministero, in condizioni dunque di per sé inumane, privato del diritto di difesa e di accesso al Giudice nonché di contatti di qualsiasi natura con soggetti terzi esterni alla struttura (si trattasse di familiari, amici o delle Autorità consolari italiane), lungamente trattenuto in assenza di incolpazioni tradottesi in atti convogliati presso una qualsiasi autorità giudiziaria cui appellarsi e far valere le proprie ragioni, oggetto nel medesimo, intero, periodo di restrizione ingiustificata di condotte crudeli all’origine di acuti dolori fisici, frutto di crudeltà e sevizie, quand’anche indotte da mani altrui, rispetto a cui la restrizione personale era funzionale, che la contraria azione degli imputati avrebbe potuto far cessare sol che l’avessero voluto, trattandosi di persona da loro stessi privata della libertà personale e affidata alla loro custodia e alla loro potestà di vigilanza e controllo».

In altri termini, «le modalità esecutive prescelte per il sequestro, di per sé induttive di grave sofferenza psichica e di prostrazione morale, aggiunte alla mortificazione corporale, non possono che essere state ispirate a quelle finalità essenziali della tortura pubblica di tipo punitivo e/o intimidatorio che connota il dolo specifico della fattispecie, allo stato apprezzabile, limitatamente alla questione incidentale, alla luce della descrizione delle condotte oggetto di incolpazione».

In conclusione – si legge nell’ordinanza – «verificata l’essenza della nozione di “tortura” al tempo delle condotte e la sua cogenza, deve ribadirsi la sussistenza della giurisdizione italiana rispetto a tutte le ipotesi criminose contestate, in virtù dell’obbligo costituzionale di azione e sanzione per i fatti ad essa ascrivibili, quand’anche il principio generale di irretroattività delle incriminazioni fondato sull’art. 25 comma 2 Cost. ne abbia imposto la sussunzione in fattispecie con diverso nomen juris”».


Sulla vicenda abbiamo già pubblicato i seguenti documenti:

Redazione Giurisprudenza Penale

Per qualsiasi informazione: redazione@giurisprudenzapenale.com