ARTICOLICONTRIBUTIDIRITTO PENALEParte speciale

La crisi dell’impresa e l’incombente fantasma della bancarotta. Riflessioni sull’affitto di ramo d’azienda e sul concorso dell’extraneus in una recente sentenza del Tribunale di Udine

a cura di Mattia Miglio e Corrado Ferriani

in Giurisprudenza Penale Web, 2017, 3 – ISSN 2499-846X

Tribunale Udine

Tribunale di Udine, 3 maggio 2016 (ud. 16 febbraio 2016), n. 415
Presidente Di Silvestre, Giudici Qualizza – Pecile

1. Partiamo paradossalmente dalle considerazioni che possono trarsi  a valle dell’esame  della vicenda oggetto della presente sentenza.

Purtroppo, può capitare, specie in un contesto economico precario come quello attuale, che un imprenditore versi suo malgrado in uno stato di grave crisi di liquidità, ove le passività siano radicalmente sbilanciate rispetto agli elementi attivi e ove vi siano ostacoli (apparentemente) insormontabili alla corretta prosecuzione della gestione aziendale.

Tuttavia, e la vicenda che andremo ad esaminare lo insegna, tale stato di crisi può essere superato dall’imprenditore insolvente, solo mediante il tempestivo ricorso alle ordinarie procedure concorsuali o paraconcorsuali, avvalendosi, se del caso, di professionisti incaricati di predisporre piani di ripiano conformi alla legge, sostenibili dall’impresa e idonei al suo risanamento senza pregiudizi per i creditori a loro volta coinvolti.

Nessuno spazio residua per la realizzazione di atipici piani privatistici finalizzati alla sopravvivenza aziendale né per estemporanee operazioni gestionali svincolate dall’ordinario iter concorsuale e finalizzate alla sola conservazione del patrimonio in vista del fallimento.

Tali postulati devono così fungere da stella polare per l’imprenditore in crisi (specie se se l’attività ha dimensioni medio-piccole) e, soprattutto, consentono, da un lato, all’imprenditore stesso di evitare, cautelativamente, pesanti conseguenze penali a suo carico, e, sotto altro profilo, garantiscono ai suoi creditori di non vedersi inutilmente frustrate le proprie legittime pretese creditorie nei confronti dell’impresa decotta.

Non da ultimo, l’affidamento alle procedure tipizzate dalla legge fallimentare esclude altresì che le Procure via via interessate possano contestare, a vario titolo, gravi reati economici anche nei confronti di terzi semplicemente conniventi, i quali, pur non avendo fornito alcun contributo alla realizzazione di scellerate condotte gestionali, si trovano loro malgrado costretti a subire le gravi conseguenze (sia patrimoniali che personali) derivanti dall’instaurazione di un procedimento penale (a posteriori, privo di fondamento) nei loro confronti.

2. Vediamo da vicino la vicenda sottoposta all’attenzione del Tribunale Collegiale di Udine.

La titolare di un’impresa individuale in stato di decozione affittava, poco prima della dichiarazione di fallimento della propria impresa, il proprio asset aziendale (un’attività di commercio di colori e vernici, ovviamente al netto delle perdite) a una nuova Società, che annoverava tra i soci i cognati dell’imprenditrice in via di fallimento e che proseguiva la medesima attività gestionale ed economica proprio presso la medesima sede della fallita.

Orbene, ad avviso del Tribunale friulano, tale condotta integra un’ipotesi di bancarotta per distrazione, il quale, si puntualizza, “si realizza anche attraverso la stipulazione di un contratto di locazione di azienda in previsione del fallimento che ha lo scopo di trasferire la disponibilità di tutti o principali beni ad altro soggetto” (p. 12).

Prosegue poi il Tribunale: “Elementi che qualificano la locazione come atto distrattivo sono i contratti di affitto stipulati per finalità estranee all’attività imprenditoriale fatto che si verifica quando dante causa e avente causa sono riconducibili, come nel caso in esame, allo stesso nucleo familiare o centro di interessi e quando dalla stipula del contratto di affitto derivi l’impossibilità per l’impresa di proseguire l’attività economica senza garantire il ripiano della situazione debitoria della Società, condizione che si è pienamente verificata nel caso in esame. Anche a prescindere dalla valutazione di congruità del canone annuale, e finanche del suo effettivo pagamento comunque non integralmente corrisposto […] è sufficiente per considerare come fatto distrattivo il contratto di affitto, l’avvenuta cessione dell’azienda all’interno dello stesso nucleo familiare, aduna società appositamente costituita pochi giorni prima del contratto, in assenza di qualsivoglia garanzia di un ripiano della situazione debitoria ed anzi nell’evidente certezza che tale ripiano mai sarebbe potuto avvenire, e che tale situazione debitoria si sarebbe incrementata degli oneri annuali non coperti dal canone” (pp. 12-13).

Posta in questi termini, il Collegio esclude così che l’operazione contestata possa essere inquadrata nell’ambito di un piano atipico (e privatistico) di salvataggio dell’impresa individuale ormai decotta; piuttosto, le risultanze emerse in dibattimento rivelavano che l’operazione commerciale era stata posta in essere al di fuori delle ordinarie procedure paraconcorsuali (un piano di ristrutturazione del debito era stato solo abbozzato e mai portato a termine), in un contesto patrimoniale ove i crediti vantati dagli outsourcers aziendali superavano di gran lunga le poste attive dell’impresa.

Per giunta, i canoni (indipendentemente dalla loro congruità) derivanti dall’affitto dell’azienda non erano stati mai incassati dall’impresa decotta, la quale, per di più, non si era neppure avvalsa, come le era invece consentito, della clausola risolutiva espressa indicata nel contratto d’affitto con la nuova Società beneficiaria.

3. Accanto a tale operazione, poi, la Procura ha ritenuto di contestare agli imputati anche altre operazioni (asseritamente) distrattive, poste in essere (a detta della Procura) al solo fine di conservare il patrimonio immobiliare dell’imprenditore dai possibili pregiudizi scaturenti dal fallimento ormai immanente.

Tra le operazioni coinvolte, merita sicuramente di essere analizzata la cessione al fratello (da parte dell’imprenditrice in odore di fallimento) della porzione di un immobile (la porzione ovviamente di proprietà dell’imputata). Un acquisto, a detta della difesa, pagato dal fratello mediante bonifico bancario intestato alla sorella due anni (nel 2007) prima del compimento della cessione della quota immobiliare.

Orbene, la motivazione qui allegata rigetta integralmente tale impostazione; stando alle risultanze dibattimentali, l’acquirente non aveva mai corrisposto tali somme, né nel 2007 né al momento dell’acquisto (nel 2009); piuttosto, nel 2007, erano stati i genitori dell’imprenditrice ad effettuare una donazione del valore di Euro 200.000 qualificandola (formalmente) come un acconto inquadrabile nella regolamentazione ereditaria tra i figli.

Tuttavia, il fratello non aveva mai ricevuto la quota spettante e l’intera somma era così finita nella disponibilità dell’imprenditrice, probabilmente allo scopo di salvare la continuità aziendale, all’epoca già compromessa.

Pertanto, anche alla luce di alcuni scambi di corrispondenza che coinvolgevano l’imputata, la cessione della quota di immobile non aveva altro scopo che “salvare l’appartamento” in vista della dichiarazione di fallimento dell’impresa (imminente nel 2009) e la quota di 100.000 Euro – derivante dall’asserita “regolamentazione ereditaria” di due anni prima (2007) e formalmente indicata come corrispettivo della cessione al fratello della quota immobiliare – altro non era che un semplice escamotage per simulare il pagamento di un corrispettivo, in realtà mai avvenuto: “l’immobile venne trasferito al fratello senza un effettivo corrispettivo, tale non essendo la somma di 200.000 Euro corrisposti due anni prima” (pp. 16-17).

Sennonché, di tale artifizio, non sono responsabili, a detta del Tribunale friulano, né il fratello acquirente né i genitori che avevano erogato nel 2007 la somma complessiva di Euro 200.000.

Essi, infatti, non avevano piena consapevolezza della finalità distrattiva che contrassegnava l’intera operazione: “essi sapevano certamente che l’immobile non veniva pagato da T.P., ma non può ritenersi provato adeguatamente che essi avessero effettiva consapevolezza della valenza di depauperamento di tale atto, che fossero a conoscenza precisa delle condizioni della ditta friulana della cui gestione si occupava T.L. unitamente alla titolare, non erano i suggeritori dell’operazione, erano mossi da una finalità diversa” (p. 17).

Così, nessun addebito può loro esser mosso a titolo di concorso: “perché il soggetto extraneus possa essere ritenuto penalmente responsabile in concorso con soggetto qualificato, occorre da sua parte una consapevolezza che abbracci le varie condotte i reciproci nessi per il raggiungimento dell’evento distrattivo. Occorre quindi una certa consapevolezza della valenza distrattiva del contratto di cessione della porzione di immobile. La giurisprudenza di legittimità ha espresso orientamenti difformi in ordine alla necessità che l’extraneus conosca lo stato di dissesto; rileva però il tribunale che il soggetto estraneo non dispone di un completo compendio informativo e dunque può non essere in grado di ricavare dall’uscita del bene dal patrimonio, un giudizio di concreto repentaglio degli interessi dei creditori” (p. 17).

Proprio la valorizzazione dell’aspetto relativo al “completo compendio informativo” in capo all’extraneus, inteso come “consapevolezza che abbracci le varie condotte, i reciproco nessi per il raggiungimento dell’evento distrattivo” che mette a rischio gli interessi dei creditori dell’impresa decotta, merita la nostra approvazione specie se si considera la presenza di alcuni filoni giurisprudenziali, volti a “sublimare” la consapevolezza e la conoscenza (da parte dell’extraneus) dell’intento distrattivo dell’amministratore.

4. Ripercorrendo brevemente il variegato orientamento giurisprudenziale sulla tematica, una prima corrente inquadra il dolo dell’extraneus “nella consapevolezza di concorrere nella sottrazione dei beni alla funzione di garanzia delle ragioni dei creditori per scopi diversi da quelli inerenti all’attività di impresa, immediatamente percepibile dal concorrente esterno, così come dall’imprenditore con il quale lo stesso concorre, come produttivo del pericolo per l’effettività di tale garanzia nell’eventualità di una procedura concorsuale, a prescindere dalla conoscenza di una situazione di insolvenza” (così, Cass. 15613/2015, che richiama a sostegno Cass. 9299/2009; Cass. 16579/2010; Cass. 1706/2014).

Sulla falsariga di tale opinione, un secondo filone ritiene invece che l’elemento doloso presupponga la consapevolezza (da parte dell’extraneus) del possibile pregiudizio derivante dalla distrazione per la garanzia dei creditori e riserva alla conoscenza del dissesto una mera funzione probatoria, quale elemento che, al pari di altri indizi, non ha funzione necessaria del dolo ma può concretamente risultare utile ai fini della dimostrazione della sussistenza del dolo (cfr. Cass. 16000/2012; Cass. 16388/2012; Cass. 39977/12; Cass. 23675/2004).

Secondo una terza impostazione, invece, l’extraneus deve avere non tanto la consapevolezza dell’insolvenza, quanto piuttosto “del rischio di insolvenza” (cfr. Cass. 41333/2006), da intendersi come pregiudizio per la garanzia dei creditori, ossia nella prospettiva di un pericolo per i creditori in caso di apertura di una procedura concorsuale.

Infine, un’isolata decisione ritiene che il dolo del terzo debba consistere nella consapevolezza e volontà di aiutare l’imprenditore in dissesto a frustrare gli adempimenti predisposti dalla legge a tutela dei creditori (cfr. Cass. 27367/2011).

Alla luce dell’excursus appena descritto, la tesi maggioritaria sembra escludere che il dolo del terzo debba includere anche la conoscenza dello stato di dissesto; d’altro canto, si badi, ove tale soluzione venisse portata alle estreme conseguenze (e, soprattutto, ove non venisse prestata adeguata attenzione ai nessi fattuali intercorrenti nelle dinamiche gestionali di un’impresa), sarebbe altamente probabile il rischio di un’espansione a dismisura dell’istituto del concorso del terzo nei reati fallimentari, dal momento che, almeno in via astratta, ogni operazione sospetta, magari in un contesto di difficoltà economica dell’impresa, potrebbe a posteriori, dare adito a una contestazione penale a carico dei terzi che siano semplicemente venuti a conoscenza del potenziale stato di decozione nel cui contesto viene perfezionata l’operazione stessa.

Per scongiurare tale deviazione ermeneutica, va così segnalata la presenza di un filone, a dire il vero minoritario, secondo la quale il dolo dell’extraneus deve includere la necessaria consapevolezza dell’insolvenza dell’impresa (o della Società) fallita (tale soluzione è stata proposta da Cass. Pen., 47502/2012, sentenza Corvetta), nonostante, è evidente, tale soluzione si esponga alla critica, secondo cui l’istituto del concorso del terzo sarebbe ammissibile nei soli casi in cui lo stato di decozione dell’impresa è già in atto, se non addirittura già dichiarato dal Tribunale fallimentare, con l’inevitabile effetto di limitare tale figura ai soli casi di bancarotta post-fallimentare (Cass. 32031/14).

Come citare il contributo in una bibliografia:
M. Miglio – C. Ferriani, La crisi dell’impresa e l’incombente fantasma della bancarotta. Riflessioni sull’affitto di ramo d’azienda e sul concorso dell’extraneus in una recente sentenza del Tribunale di Udine, in Giurisprudenza Penale Web, 2017, 3