CONTRIBUTIDIRITTO PENALE

La rilevanza della condotta distrattiva in ambito fallimentare penale

in Giurisprudenza Penale Web, 2020, 6 – ISSN 2499-846X

di Mattia Miglio, Stefano Beccardi e Marco Gentile

Cassazione Penale, Sez. V, 1 aprile 2020 (ud. 5 dicembre 2019), n. 10971
Presidente Vessicchelli, Relatore Scordamaglia

1. Come noto, il reato di bancarotta fraudolenta (art. 216 L.F.) può manifestarsi in tre diverse tipologie: quella c.d. “patrimoniale” (di cui la distrazione è la condotta più ricorrente, seppure non l’unica), quella c.d. “documentale” (che si realizza mediante sottrazione, distruzione o falsificazione delle scritture contabili, o la loro tenuta in guisa da non rendere possibile la ricostruzione del patrimonio o del movimento degli affari) e quella “preferenziale” (che si integra mediante pagamenti o simulazione di titoli di prelazione a favore di taluni creditori in danno di altri).

Se per le ultime due fattispecie non risulta particolarmente problematica, per la Pubblica Accusa, la prova della sussistenza in concreto della relativa condotta rilevante, diversamente in quella “patrimoniale” si riscontra ancora una certa tendenza a ritenerla integrata semplicemente desumendola dall’accertamento di un deficit patrimoniale alla data di fallimento.

Proprio nel solco da ultimo indicato si inserisce la recente pronuncia della V Sezione Penale della Corte di Cassazione n. 10971 del 1° aprile 2020 (ud. 5 dicembre 2019), la quale fornisce importanti chiarimenti in merito alla necessità di procedere ad un puntuale accertamento giudiziale delle condotte distrattive.

2. Nel merito della vicenda sottoposta all’esame della Suprema Corte, all’odierno imputato – quale Legale Rappresentante di una società a responsabilità limitata dichiarata fallita – veniva contestata – tra le varie imputazioni – la fattispecie di bancarotta fraudolenta per distrazione dei beni della fallita per un importo di circa 140.000 Euro, pari al valore dell’ingiustificato disavanzo rinvenuto in sede di fallimento.

Nello specifico, secondo l’impostazione della Pubblica Accusa (accolta dalla Corte d’Appello), ai fini della consumazione del reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale, non sarebbe stato necessario procedere al puntuale accertamento del venir meno di singoli beni oggetto di distrazione (dei quali era nota l’esistenza prima della formazione del deficit), essendo tutt’al più sufficiente per l’organo giudicante trarre il proprio convincimento sull’esistenza della distrazione dal mero accertamento del passivo.

Nell’accogliere il ricorso proposto dai difensori dell’imputato, la Suprema Corte respinge la soluzione adottata dalla Corte d’Appello di Torino, sull’assunto per cui, ove la responsabilità “fosse desunta dall’accertamento del passivo, il reato di bancarotta fraudolenta sarebbe ravvisabile in ogni ipotesi di fallimento” (p. 3).

Più precisamente, gli Ermellini – richiamando un proprio orientamento giurisprudenziale – puntualizzano che “in tema di reati fallimentari, non è consentito al giudice trarre il proprio convincimento dalla sola presenza di un disavanzo in un dato momento dell’esistenza dell’azienda successivamente fallita”, in quanto occorre invece “accertare che l’eccedenza passiva costituisca la conseguenza del venir meno di beni determinati, dei quali sia nota l’esistenza in un momento anteriore alla formazione del deficit” (p. 3).

Il principio espresso dalla Suprema Corte non è di poco conto, in quanto ribadisce che la semplice presenza di un disavanzo ingiustificato in sede di passivo non può mai costituire un elemento cardine da cui dedurre automaticamente la colpevolezza del reo con riguardo ai beni aziendali

La soluzione qui censurata, infatti, altro non è che una “scorciatoia” probatoria che ha lo scopo di “alleggerire” l’onere della prova a carico della Pubblica Accusa e che, oltre a porsi in antitesi con il principio di presunzione di innocenza, nei fatti si pone in contrasto con la stessa norma incriminatrice, che espressamente presuppone – sotto il profilo oggettivo – la prova di una delle condotte (alternative) di distrazione, occultamento, dissimulazione, distruzione o dissipazione dei beni dell’impresa, ovvero l’esposizione o il riconoscimento di passività inesistenti.

3. Del resto, in relazione agli illeciti che si perfezionano attraverso la dichiarazione di fallimento, è ormai chiaro che il deficit patrimoniale, inteso come la differenza tra attivo e passivo accertati in sede fallimentare, è un elemento necessario ma, allo stesso tempo, insufficiente per fondare una responsabilità degli amministratori dell’impresa.

In ambito civilistico, nell’ambito dell’azione di responsabilità esercitata dal curatore ex art. 146, comma 2, L.F., la Suprema Corte di Cassazione Civile a Sezioni Unite (cfr. Cass. 9100/2015) ha specificato che ai fini della liquidazione del danno risarcibile non si può fare riferimento, sic et simpliciter, al deficit patrimoniale accertato.

La questione diviene ancor più sensibile in sede penale, quando – come si è detto – si rischia di sovvertire un principio cardine del nostro ordinamento dato dalla presunzione di innocenza o, se si preferisce, da un divieto di presunzione di colpevolezza. Infatti, poiché ogni dichiarazione di fallimento presuppone uno stato di insolvenza e, quindi, l’accertamento di un passivo finanziario-patrimoniale, ne deriverebbe che ogni fallimento fonderebbe una responsabilità penale, benché la crisi d’impresa possa essere stata cagionata, semplicemente, da errate – ma non insidiose – scelte imprenditoriali, assunte entro canoni di ragionevolezza nel perseguimento degli interessi dell’impresa.

Dunque, come sancito dalla sentenza in commento, la prova dei fatti integranti il reato di bancarotta fraudolenta non potrà che essere fornita da altri e ben identificati elementi, atti a individuare puntualmente – tra le altre – le condotte distrattive.

4. Per distrazione si intende ogni atto di disposizione patrimoniale preordinato a finalità diverse dall’attività d’impresa, allo scopo di assicurare l’utilità del bene a sé o a terzi evitandone l’apprensione agli organi del fallimento, con conseguente depauperamento in danno dei creditori (Cass. Pen., n. 8431/2019).

Il distacco illecito può riguardare beni materiali, immateriali, crediti, diritti reali e personali di godimento, anche di provenienza illecita, e, in generale, qualsiasi diritto capace di produrre utilità e suscettibile di valutazione economica, ad esclusione dei beni ricevuti dall’imprenditore a titolo di traslatio dominii (locazione, comodato, deposito) e delle mere aspettative di fatto (Cass. Pen., nn. 38434/2019, 53399/2018, 21933/2018).

L’accertamento della condotta distrattiva presuppone che sia nota l’esistenza di determinati beni nel patrimonio aziendale in un momento anteriore alla formazione del passivo, non rinvenuti all’atto della dichiarazione di fallimento (Cass. Pen., nn. 10971/2019, 2708/2019). Inoltre, la prova non può essere data dal mero confronto con le risultanze delle scritture contabili, ma richiede di investigare sulla destinazione dei beni e dei valori impressa dagli amministratori, anche in via presuntiva sulla scorta del contegno di questi ultimi (Cass. Pen., nn. 15060/2019, 53405/2018, 49507/2017).

Un esempio può aiutarci a comprendere meglio il concreto atteggiarsi della condotta. In una causa decisa dal Tribunale di Milano in data 12.01.2018, davanti al GUP si discuteva di un’accusa di distrazione di parte del patrimonio sociale mediante azzeramento di un credito vantato dalla società fallita nei confronti di una società terza, credito maturato per pagamenti senza titolo per conto della stessa e relativi importi corrisposti allo stesso amministratore unico per svariate centinaia di migliaia di euro oltre a vari prelievi effettuati dallo stesso senza una valida ragione economico e giuridica sottostante, come era stato rilevato dal curatore nella sua relazione ex art. 33 L.F.

La condotta era stata perpetrata anche attraverso la redazione dei bilanci in assoluto disprezzo del principio di rappresentazione veritiera e corretta ex artt. 2423 e ss cod. civ.. Proprio dalla riclassificazione dei bilanci e dalle rettifiche operate in relazione a ratei e risconti non giustificati, il curatore aveva evidenziato una perdita del capitale sociale, occultata da parte dell’amministratore e retrodatata di almeno cinque anni rispetto alla dichiarazione di fallimento.

L’amministratore era infine riconosciuto responsabile in quanto, attraverso i suoi atti, aveva reso impossibile la ricostruzione del patrimonio e del movimento degli affari della società poi fallita.

Infine, occorre evidenziare che, sovente, gli atti attraverso cui si realizza la distrazione costituiscono, a loro volta, autonome fattispecie illecite, con conseguente concorso di reati. Ciò avviene, per esempio, in relazione alla truffa (Cass. Pen., nn. 13399/2019, 14783/2018), all’appropriazione indebita (Cass. Pen., n. 14783/2018, 47561/2018), alla sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte (Cass. Pen., n. 35591/2017), all’auto-riciclaggio (Cass. Pen., n. 1203/2019).

5. In ogni caso, tutto quanto premesso non significa che il deficit patrimoniale non assuma alcuna rilevanza. Infatti, la presenza di un disavanzo ingiustificato può – almeno in astratto – costituire un primo indice probatorio (un punto di partenza) da cui dedurre – sempre in linea teorica – la sussistenza di altre ipotesi delittuose, distinte dalle condotte distrattive sempre nell’ambito del diritto penal-fallimentare.

Senza pretese di esaustività, si pensi, a titolo di esempio, all’ipotesi in cui l’imprenditore – pur senza tenere condotte aventi carattere fraudolento – rimanga inerte e si astenga dal richiedere il fallimento aggravando il proprio dissesto; in questo caso, ove vengano accertati i presupposti in sede giudiziale, la presenza del deficit potrebbe – almeno in astratto – aprire lo spazio a una contestazione ex art. 217, comma 4 l.f. o, se commesso da amministratori, direttori generali, sindaci e liquidatori di una Società dichiarata fallita, ai sensi dell’art. 224 l.f.

Oppure, sempre ragionando in linea astratta, la presenza di un disavanzo ingiustificato  potrebbe essere anche indice di valutazioni erronee o fallaci riportate in sede di comunicazioni sociali (ad esempio, l’iscrizione a bilancio di una voce sovrastimata); in questo caso, sempre ove ne ricorrano i presupposti, in astratto potrebbe essere contestata la violazione della fattispecie di cui all’art. 223, comma 2, n. 1 l.f.

Da ultimo, poi, non può nemmeno escludersi (sempre in linea teorica) che la presenza di un deficit possa costituire il punto di partenza per una contestazione di bancarotta da operazioni dolose ex art. 223, comma 2 n. 2 l.f.

In questo senso, si pensi – sempre a titolo di esempio – all’ipotesi in cui il disavanzo rivenuto in sede di passivo sia il frutto di omissioni sistematiche del versamento di imposte, contributi previdenziali e ritenute su più annualità fiscali.

In tali casi – secondo la prevalente giurisprudenza (cfr. ex plurimis, Cass. 24752/2018; Cass. 34153/2019) – la sistematica omissione del pagamento degli oneri fiscali e previdenziali – pur inidonea a configurare (nei termini che si sono appena descritti) l’ipotesi di condotta distrattiva – costituisce un fattore determinativo del dissesto societario e, quindi, la sottrazione di tali importi agli enti può integrare (almeno in astratto) l’art. 223, comma 2 n. 2.

Oppure, pensiamo alle condotte finalizzate a cagionare il dissesto della società occultando la perdita dell’intero capitale sociale mediante operazioni di stampo doloso (es.: fittizia cessione di un cespite aziendale), oppure proseguendo l’attivià aziendale non profittevole senza adottare i dovuti provvedimenti previsti dal codice civile in caso di riduzione del capitale sociale al di sotto del minimo legale.

Tuttavia, ed è indispensabile ribadirlo, le ipotesi appena menzionate non indicano operazioni in sé e per sé aventi automaticamente rilevanza penale a prescindere da qualsivoglia valutazione giudiziale fondata sulla razionalizzazione degli elementi emersi in sede dibattimentale.

6. Alla luce di tutte le considerazioni sopra espresse, volendo tirare le somme, la pronuncia in commento appare senz’altro utile per liberare il campo da equivoci ancora oggi troppo frequenti, sebbene il principio ivi espresso si ponga in linea di continuità con un orientamento ormai in via di consolidamento.

Per esempio, in un altro recente arresto giurisprudenziale, sempre la Sezione Quinta della Suprema Corte di Cassazione si era pronunciata – con identica statuizione – in merito ad un passivo societario costituito da debiti verso Equitalia per tributi non pagati e maggiorati della quota non dovuta per interessi e sanzioni da un debito nei confronti della Camera di Commercio, oltre che da debiti per esposizioni bancarie (sentenza 9 ottobre 2019, n. 2708).

In entrambe le pronunce, quindi, la Quinta Sezione Penale respinge con fermezza l’interpretazione normativa secondo la quale il semplice accertamento in sede di passivo di un disavanzo privo di giustificazioni possa costituire prova di una condotta distrattiva, senza ricorrere all’accertamento puntuale sulla sorte dei cespiti aziendali venuti meno.

Come insegna la sentenza qui in esame, infatti, ogni valutazione giudiziale non potrà mai ridursi ad enunciazioni apodittiche, frutto di mere presunzioni, ma dovrà essere il frutto di un rigoroso e coerente ragionamento logico-giuridico che trova fondamento sugli elementi emersi in sede dibattimentale, alla luce del principio dell’oltre ogni ragionevole dubbio.

Come citare il contributo in una bibliografia:
M. Miglio – S. Beccardi – M. Gentile, La rilevanza della condotta distrattiva in ambito fallimentare penale, in Giurisprudenza Penale Web, 2020, 6