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Incompatibilità dell’infermita fisica con la detenzione in carcere: la sentenza della cassazione nel caso Riina

in Giurisprudenza Penale Web, 2017, 9 – ISSN 2499-846X

Cassazione Penale, Sez. I., 5 giugno 2017 (ud. 22 marzo 2017), n. 27766
Presidente Di Tomassi, Relatore Cocomello

Con la sentenza in commento, la prima sezione penale della Corte di Cassazione ha annullato l’ordinanza con cui il Tribunale di Sorveglianza di Bologna aveva rigettato le richieste presentate dal difensore di Salvatore Riina, riguardo l’ipotesi di differimento dell’esecuzione della pena o, in subordine, di esecuzione della pena nelle forme della detenzione domiciliare.

In considerazione della risonanza mediatica della vicenda, la pronuncia de qua si mostra particolarmente interessante, posto che la questione nodale affrontata dalla Suprema Corte riguarda il principio dell’esistenza di un “diritto di morire dignitosamente” che deve essere assicurato a tutti i detenuti, dunque, Riina compreso.

Nella vicenda sottoposta al vaglio dei giudici di legittimità, il Tribunale di Sorveglianza di Bologna, rigettando il ricorso avanzato dal difensore del Capo dell’organizzazione criminale denominata “Cosa Nostra”, escludeva in primis la sussistenza dell’ipotesi di differimento obbligatorio della esecuzione della pena detentiva, prevista dall’art. 146, comma 1, c.p.[1], sul presupposto che dalle relazioni sanitarie acquisite, non emergeva che le pur gravi condizioni di salute del detenuto fossero tali da rendere inefficace qualunque tipo di cure, dandosi, al contrario, atto nelle stesse, di numerosi trattamenti terapeutici praticati nei confronti di Riina, uniti a svariati ricoveri ex art. 11 l. 26 luglio 1975 n. 354, ivi compreso quello, in corso alla data dell’istanza, presso l’Azienda Ospedaliera Universitaria di Parma.

In secondo luogo, riguardo la valutazione della sussistenza dei presupposti per un rinvio facoltativo dell’esecuzione della pena, ai sensi dell’art. 147, comma 1, n. 2), c.p., il Tribunale bolognese evidenziava la trattabilità delle patologie del detenuto anche in regime carcerario, rammentando alcuni episodi riguardanti la patologia cardiaca, la quale era stata adeguatamente fronteggiata con tempestivi interventi di ricovero.

A fortiori, il Tribunale escludeva, altresì, il superamento dei limiti inerenti il rispetto del senso di umanità di cui deve essere connotata la pena e del diritto alla salute; in particolare, nell’ordinanza in oggetto, i giudici di merito affermavano che proprio in relazione all’idoneità della struttura penitenziaria ad apprestare interventi urgenti, lo stato di detenzione nulla aggiungeva alla sofferenza della patologia, posto che il rischio dell’esito infausto è pari e comune a quello di ogni cittadino, anche in stato di libertà.

Da ultimo, il provvedimento effettuava anche un giudizio di bilanciamento della complessa situazione sanitaria del richiedente la misura alternativa con le esigenze di sicurezza ed incolumità pubblica, in considerazione della notevole ed acclarata pericolosità di Riina che ricopriva “la posizione di vertice assoluto dell’organizzazione criminale Cosa Nostra”, ancora operante e rispetto alla quale il suddetto non aveva mai manifestato piena volontà di dissociazione. Tali circostanze, secondo il Tribunale, rendevano impossibile una prognosi di assenza di pericolo di recidiva del predetto, nonostante le precarie attuali condizioni di salute.

Avverso tale pronuncia aveva proposto ricorso per Cassazione il difensore dell’imputato, denunciando, con un unico motivo, violazione di legge con riferimento agli artt. 147 e 47-ter, comma 1, ter, l. n. 354/1975, nonché contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione. In particolare, a parere del ricorrente, l’ordinanza impugnata operava una valutazione solo parziale dei profili riguardanti il grave stato di infermità fisica del detenuto, omettendo un’adeguata motivazione riguardante l’ulteriore profilo del mantenimento dello stato detentivo che poteva risolversi in un trattamento contrario al senso di umanità e, pertanto, contrastante i principi costituzionali e della CEDU.

La Suprema Corte ha accolto il suddetto ricorso, sostenendo che la motivazione adottata dal provvedimento adottato dal Tribunale di Sorveglianza di Bologna sia carente, e in alcuni tratti, contraddittoria.

Invero, a parere degli ermellini, la valutazione operata dai giudici di merito riguardo l’assenza di un’incompatibilità dell’infermità fisica del soggetto rispetto alla detenzione carceraria non si mostra pienamente esaustiva, poiché basata esclusivamente sull’esame del trattamento delle patologie dello stesso anche in ambiente carcerario, in considerazione del continuo monitoraggio e dell’adeguatezza degli interventi, anche d’urgenza, operati nei suoi confronti.

Sul punto, il Supremo Collegio rammenta l’orientamento giurisprudenziale secondo il quale, affinché la pena non si risolva in un trattamento inumano e degradante, nel pieno rispetto dei principi di cui agli artt. 27, comma 3, Cost. e 3 Convenzione EDU, la valutazione riguardante l’applicazione della detenzione domiciliare non deve ritenersi limitata alla patologia implicante un pericolo per la vita della persona, dovendo estendersi piuttosto ad ogni stato morboso o scadimento fisico capace di determinare un’esistenza al di sotto della soglia di dignità che deve essere rispettata pure in carcere[2].

Di conseguenza, proseguono gli ermellini, il Tribunale avrebbe dovuto effettuare una valutazione complessiva dello stato di salute del detenuto, dunque, del suo logoramento fisico, con particolare riferimento anche all’età avanzata del soggetto, riguardo la quale, com’è noto, la giurisprudenza di legittimità si è già ampiamente espressa, sancendo l’obbligo di motivazione specifica sul punto[3].

Per tali motivi, ritengono i Supremi Giudici, il provvedimento in esame non si è attenuto ai principi suesposti. In buona sostanza, dalla motivazione dell’ordinanza del Tribunale di Sorveglianza di Bologna non emerge l’iter in base al quale i suddetti giudici siano giunti a ritenere compatibile lo stato di detenzione del ricorrente ultraottantenne e affetto da gravi patologie con le molteplici funzioni della pena e con il senso di umanità che la Carta Costituzionale e la Convenzione EDU impongono nell’esecuzione della stessa.

In ordine a quest’ultimo aspetto, è peraltro appena il caso di sottolineare come la Suprema Corte affermi l’esistenza di un “diritto di morire dignitosamente” che in ragione a quanto appena evidenziato, deve essere assicurato al detenuto ed in relazione al quale, il provvedimento di rigetto del differimento dell’esecuzione della pena e della detenzione domiciliare, doveva espressamente motivare.

Ora, secondo la Cassazione l’ordinanza impugnata incorre in una intrinseca contraddittorietà della motivazione, anche laddove da un lato afferma la compatibilità dello stato di detenzione dell’istante con le sue condizioni di salute e dall’altro evidenzia espressamente le carenze strutturali della Casa di reclusione di Parma ove il medesimo è ristretto, pur ritenendo le stesse irrilevanti ai fini della decisione sulle istanze oggetto di valutazione.

Gli ermellini contestano il ragionamento operato dai giudici di merito, sostenendo come a tale conclusione il Tribunale sarebbe dovuto giungere soltanto all’esito di un accertamento volto a verificare nel concreto, se e quanto la struttura carceraria sia compatibile con le condizioni di salute del ricorrente. Nella specie, se la mancanza di un letto che permetta ad un soggetto ultraottantenne gravemente malato, dunque non autonomo, di assumere una diversa posizione, incida sul superamento o meno di quel livello di dignità dell’esistenza che deve essere assicurato a tutti i detenuti.

Pertanto, la Corte opportunamente conclude che fermo restando l’altissima pericolosità del soggetto e del suo indiscusso spessore criminale, il provvedimento non chiarisce, con motivazione adeguata, come tale pericolosità possa e debba considerarsi attuale; in merito i giudici di legittimità ritengono che tale pericolosità debba basarsi su precisi argomenti di fatto, rapportati all’attuale capacità del suddetto di compiere, nonostante il generale stato di decadimento fisico e la precarietà delle condizioni di salute in cui versa, azioni idonee in concreto ad integrare il pericolo di recidivanza.

Alla luce di quanto fin’ora esposto, qualche considerazione finale si rende doverosa. Non appare disutile richiamare che la Carta Costituzionale offra una serie di principi in tema di funzione della pena, i quali risultano di basilare importanza, ai fini di un corretto esame della pronuncia del caso di specie.

Trattasi, a tacer d’altro, di quei principi sostanzialmente richiamati agli artt. 3, 25 e 27 – i quali trovano espressione anche all’interno dell’ordinamento penitenziario –, che riguardano l’uguaglianza formale di tutti i cittadini dinanzi alla legge, la legalità e la proporzionalità della pena, la personalità e l’umanizzazione della stessa, nonché quello della rieducazione del condannato, che si mostra principio cardine di una giustizia la cui ratio deve ricercarsi non soltanto nella repressione ma, altresì, nel “tentativo” di recupero sociale del reo. A ciò va aggiunto quanto esplicitato all’art. 32 Cost., che impone alla Repubblica di tutelare la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività.

Considerando, quindi, che l’art. 3 della Convenzione EDU garantisce il diritto alla salute delle persone detenute, sembra facile intuire quanto il percorso motivazionale operato della Suprema Corte appaia ineccepibile. Invero, al di là della gravità del male commesso, uno Stato di diritto ha l’obbligo di assicurare a tutti gli individui le garanzie fondamentali enunciate nella Carta Costituzionale, garantendo, dunque, una morte dignitosa anche all’autore dei crimini più efferati.


[1] Ai sensi del quale, l’esecuzione di una pena, che non sia pecuniaria è differita: 1) se deve aver luogo nei confronti di donna incinta; 2) se deve aver luogo nei confronti di madre di infante di età inferiore ad anni uno; 3) se deve aver luogo nei confronti di persona affetta da AIDS conclamata o da grave deficienza immunitaria accertate ai sensi dell’articolo 286-bis, comma 2, c.p.p., ovvero da altra malattia particolarmente grave per effetto della quale le sue condizioni di salute risultano incompatibili con lo stato di detenzione, quando la persona si trova in una fase della malattia così avanzata da non rispondere più, secondo le certificazioni del servizio sanitario penitenziario o esterno, ai trattamenti disponibili e alle terapie curative.
[2] Cfr. Cass. pen., Sez. I, 24 gennaio 2011, n. 16681, in CED, Rv. 249966; Cass. pen., Sez. I, 8 maggio 2009, in CED, Rv. 244132.
[3] Cfr. Cass. pen., Sez. I, 13 luglio 2016, n. 52979, in CED, Rv. 268653; Cass. pen., Sez. I, 1 dicembre 2015, n. 3262, in CED, Rv. 265722.

Come citare il contributo in una bibliografia:
E. Sylos Labini, Incompatibilità dell’infermita fisica con la detenzione in carcere: la sentenza della cassazione nel caso Riina, in Giurisprudenza Penale Web, 2017, 9