ARTICOLIDIRITTO PENALE

La tutela penale del merchandising delle società calcistiche

in Giurisprudenza Penale, 2019, 7-8 – ISSN 2499-846X

di Mattia MiglioPier Antonio Rossetti

Cassazione Penale, Sez. V, 19 luglio 2018 (ud. 8 maggio 2018), n. 33900
Presidente Sabeone, Relatore Fidanzia

La sentenza che qui si allega offre interessanti (e condivisibili) spunti di riflessione in merito alla tutela penale dei marchi e dei loghi delle squadre di calcio.

E’ opportuno ricordare che il bene giuridico tutelato dagli artt. 473 e 474 c.p. è la fede pubblica, da intendersi come “affidamento dei cittadini nei marchi e segni distintivi, che individuano le opere dell’ingegno e i prodotti industriali e ne garantiscono la circolazione anche a tutela del titolare del marchio”. (Cass. Pen, Sez. II, n. 36139 del 21 luglio 2017).

La norma non tutela, quanto meno in via primaria e diretta, la libera determinazione dell’acquirente, per cui non occorre la concretizzazione dell’inganno ai fini della consumazione del delitto, ma è sufficiente la mera condotta trattandosi di reato di pericolo. Per tale motivo, non rileva se la contraffazione sia grossolana e/o le condizioni di vendita siano così “anomale” da escludere la possibilità che gli acquirenti possano essere tratti in inganno.

Posta tale premessa di carattere generale, vediamo da vicino la vicenda: all’odierno indagato – un imprenditore operante nel vestiario di merce sportiva – la Procura di Lodi contestava la violazione dell’art. 474 c.p., disponendo altresì il sequestro di numerosi gadget e di oltre 2.000 magliette delle squadre di calcio Milan, Inter, Juventus, Roma e di alcune squadre estere.

Nelle more del procedimento, tale decreto veniva annullato con ordinanza del Tribunale del Riesame di Lodi, avverso la quale presentava appunto ricorso per Cassazione la Procura territoriale.

Orbene, come si vedrà fra un istante, la presente pronuncia accoglie i motivi del ricorso presentato dalla Procura, annullando con rinvio l’ordinanza impugnata e superando in radice le considerazioni che avevano indotto il Tribunale del Riesame ad annullare il decreto di sequestro.

In particolare, quest’ultimo aveva escluso la sussistenza del fumus commissi delicti, sul duplice assunto che “il nome delle squadre di calcio non può essere considerato come marchio tutelato dall’art. 474 c.p., tenuto conto che le stesse sono nate come associazioni senza scopo di lucro, che molte squadre dì calcio riportano il nome della città e/o regione in cui giocano (denominazione geografica non tutelabile) e che da decenni il loro uso è invalso nella generalità dei produttori e venditori di articoli sportivi” e che “il c.d. marchietto, ovvero il logo della squadra di calcio, che è apposto sul lato sinistro della maglietta di calcio, è suscettibile di ricevere tutela penale solo se registrato, anche in caso di registrazione si potrebbe dubitare della sua validità per assenza dei requisiti della novità ed originalità“.

Al contempo, sempre il Tribunale del Riesame aveva dichiarato insussistenti anche i presupposti della condotta di cui all’art. 474 c.p., asserendo che tale norma incriminasse le sole condotte di contraffazione, da intendersi come “riproduzione integrale, in tutta la sua configurazione emblematica e denominativa, di un marchio e di un segno distintivo, emergendo, invece, nel caso concreto la palese difformità tra i marchietti impressi sulle maglie di calcio sequestrate e i simboli originali oggetto di tutela“.

Tutto ciò premesso, analizziamo il percorso argomentativo adottato dalla Suprema Corte.

In prima battuta, la sentenza effettua un brevissimo excursus dedicato alla normativa giuridica delle squadre di calcio, chiarendo sin da subito come non sia pertinente considerare tali enti “come società di pubblico spettacolo ed il loro marchio “di servizio“.

Tale definizione, infatti, fa capo alla precedente normativa la quale, tuttavia, risulta oggi superata dall’entrata in vigore del D.L. n. 485/1996, convertito nella L. 18/11/1996 n. 586, la quale, “abrogando il precedente divieto delle distribuzione degli utili previsto dall’art. 10 comma 2° L. 91/1981, ha consentito anche alle società sportive professionistiche, in compatibilità con il disposto dell’art. 2247 cod. civ., il perseguimento dello scopo di lucro, assoggettando le medesime alla disciplina comune in materia di società“.

In virtù di tale novella, pertanto, “l’oggetto sociale delle società sportive è stato esteso anche alle attività connesse o strumentali all’attività sportiva, così consentendo a tali società di operare anche in aree diverse ed ulteriori rispetto a quelle strettamente sportive ed agonistiche e di svolgere attività d’impresa in settori limitrofi, quali la vendita dei diritti per le riprese televisive dei loro incontri sportivi, la vendita di spazi pubblicitari e dei prodotti legati al merchandising”.

Escluso quindi che le squadre di calcio possano oggi rientrare nel novero delle associazioni prive di scopo di lucro, la conclusione è pressoché scontata: “le società sportive professionistiche sono quindi delle imprese a tutti gli effetti e, come tali, nell’esercizio della loro attività economica organizzata al fine della produzione e scambio di beni e servizi (ovviamente contigui all’attività sportiva), possono utilizzare e registrare marchi commerciali“.

Di conseguenza, stante la natura imprenditoriale delle squadre calcistiche, anche i relativi marchi e loghi – pur riportanti o coincidenti con il nome della città o della regione in cui esse giocano – non possono che godere della tutela (anche penale) del marchio forte riconosciuta ex art. 13 comma I cod. propr. ind.

Del resto, “se è pur vero che i marchi utilizzati dalle squadre professioniste di calcio spesso evocano la denominazione geografica della città o della regione in cui gioca la squadra – circostanza che sarebbe ostativa alla loro registrabilità, a norma dell’art. 13 comma 1° del codice della proprietà industriale, ove il segno fosse costituito in via esclusiva dal toponimo – tuttavia, come già evidenziato da questa Corte (sez 1 civile n. 7861 del 11 agosto 1998), “anche una denominazione geografica può essere inserita in un marchio e dare luogo ad un marchio “forte” purchè l’insieme del segno, in concreto, faccia desumere l’avvenuta trasposizione del messaggio dal piano di riferimento del luogo a quello di individualizzazione del prodotto, sicché prevalendo le componenti di originalità e fantasia, l’uso del toponimo non adempia ad una funzione meramente descrittiva“.

Ragion per cui “anche ammettendo che al toponimo venga aggiunto un elemento differenziale solo minimo, quale, a titolo di esempio, la data di fondazione della società calcistica, tale segno sarà registrabile e godrà tendenzialmente della tutela del marchio debole in relazione allo stretto collegamento concettuale tra il marchio e la denominazione geografica, salvo che non venga fornita prova dell’acquisita capacità distintiva, del suo rafforzamento, attraverso l’uso dello stesso segno (c.d. secondary meaning)“.

Sennonché, così ragionando, nessun pregio possono assumere – a detta della Cassazione – gli argomenti secondo cui “l’uso generalizzato del marchio o del logo della squadra di calcio, incidendo sul requisito della novità e della originalità, ne inficerebbe la validità” oppure “l’eventuale uso ultradecennale di tali segni sui capi di abbigliamento da parte di produttori e venditori di articoli sportivi – che non può comunque essere genericamente allegato ma va rigorosamente dimostrato – prima che venissero meno i paletti normativi sopra evidenziati che impedivano alle società calcistiche di poter sfruttare commercialmente i propri segni, costituisca un elemento ostativo alla loro registrazione“.

Lungi dal perdere la loro capacità distintiva (la c.d. “volgarizzazione del segno”), “i segni delle società calcistiche che sono stati impressi sulle magliette oggetto di sequestro” godono infatti di una “forte capacità distintiva (in conseguenza della immediata immedesimazione concettuale degli stessi con quella determinata società), la cui notorietà, acquisita con l’attività sportiva principale, non può certo essere messa in discussione“.

In definitiva – chiarita la piena registrabilità e tutelabilità dei marchi delle società calcistiche – trovano tutela penale ex art. 474 c.p., “i c.d. marchietti delle società Juventus, Inter e Milan risultano regolarmente registrati“.

Per quanto attiene a quello della Roma Calcio, la Corte osserva che “trattandosi di marchio celebre” non è richiesta la prova della registrazione. Sul punto, proprio in ordine all’onere della prova, la Suprema Corte richiama un principio dalla stessa già espresso in precedenza, secondo cui “ai fini della sussistenza del delitto previsto dall’art. 474 cod. pen., allorché si tratti di marchio di larghissimo uso e di incontestata utilizzazione da parte delle relative società produttrici, non è richiesta la prova della sua registrazione, gravando in tal caso l’onere di provare la insussistenza dei presupposti per la sua protezione su chi tale insussistenza deduce”. (Cass., II Sez., n. 36139 del 19 luglio 2017; sul punto, sono conformi anche: Cass. Pen., V Sez. n. 5215 del 3 febbraio 2014; Cass. Pen., Sez. II, n. 22693 del 5 giugno 2008)

Infine, la Suprema Corte censura anche la tesi difensiva secondo cui godrebbe di tutela penale la sola condotta di contraffazione, quale “riproduzione integrale” di un marchio o di un segno distintivo, mentre non integrerebbe il reato una mera riproduzione di parte dello stesso.

Infatti, costituiscono condotte punibili ai sensi degli artt. 473 e 474 c.p. sia la contraffazione – la quale “presuppone la riproduzione integrale in tutta la sua configurazione emblematica e denominativa, di un marchio o di un segno distintivo” – sia la c.d. alterazione, con cui “si intende la riproduzione solo parziale ma tale da potersi confondere col marchio originario o col segno distintivo“, essendo “sufficiente la riproduzione del marchio “nei suoi elementi essenziali” e tale valutazione deve essere condotta sulla base di un esame, non analitico, ma sintetico che tenga conto dell’impressione d’insieme e della specifica categoria cui il prodotto è destinato (in questi termini anche sez V n. 46833 del 27/10/2004 non mass.)“.

Come citare il contributo in una bibliografia:
M. Miglio – P. A. Rossetti, La tutela penale del merchandising delle società calcistiche, in Giurisprudenza Penale, 2019, 7-8