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Il tortuoso percorso della commercializzazione della cannabis light verso le Sezioni Unite

in Giurisprudenza Penale Web, 2019, 3 – ISSN 2499-846X

di Mattia Miglio e Francesco Pesce

Cassazione Penale, Sez. III, 15 febbraio 2019 (ud. 7 dicembre 2018), n. 7166
Presidente Sarno, Relatore Corbetta

A pochi giorni dal deposito delle motivazioni di Cass. 4920/2019 – che, come noto, ha escluso qualsivoglia responsabilità penale in capo al commerciante/rivenditore (oltre che a ogni altro soggetto coinvolto nella filiera agroindustriale protetta dalla l. 242/2016) nelle ipotesi in cui venga dimostrata la provenienza lecita delle infiorescenze di cannabis ed il principio attivo si mantenga entro la soglia dello 0,6% – la Suprema Corte è tornata ad esprimersi in merito alla disciplina dettata dalla l. 242/2016.

Come si vedrà fra un istante, la Terza Sezione ha deciso di adottare una tesi intermedia, prendendo le distanze sia dall’orientamento decisamente restrittivo adottato da Cass. 56737/18 sia dal filone liberale indicato da Cass. 4920/19.

1.1. Scorrendo le motivazioni, si può notare che la pronuncia ha inteso distinguere la figura (e le conseguenti responsabilità) del coltivatore dal commerciante/rivenditore di prodotti a base di canapa.

In tal senso, la sentenza riconosce la liceità della coltivazione “se sono congiuntamente rispettati tre requisiti: a) deve trattarsi di una delle varietà ammesse iscritte nel Catalogo europeo delle varietà delle specie di piante agricole, che si caratterizzano per il basso dosaggio di THC; 2) la percentuale di THC presente nella canapa non deve essere superiore allo 0,2%; 3) la coltivazione deve essere finalizzata alla realizzazione dei prodotti espressamente e tassativamente indicati nell’art. 2, comma 2, l. n. 242 del 2016” (cfr. p. 6).

Diversamente – ossia nell’ipotesi in cui la percentuale di THC oscilli tra lo 0,2% e lo 0,6%  – il coltivatore “non avrà diritto ai finanziamenti europei”; tuttavia, tale intervallo integra una soglia di tolleranza a favore dell’agricoltore, non comportando nei suoi confronti “alcuna responsabilità penale nel caso in cui il THC abbia un effetto drogante, sempre che abbia rispettato le condizioni previste dalla legge” (p. 6).

Analogamente, “è esclusa la responsabilità dell’agricoltore” anche laddove la percentuale di THC superi la percentuale dello 0,6% (che comporta l’effetto drogante), “purché, anche in tale evenienza, abbia rispettato scrupolosamente le disposizioni di legge”, fermo restando che “l’autorità giudiziaria può disporre il sequestro o la distruzione della coltivazione” (p. 6).

Chiara quindi la ratio dell’esenzione di responsabilità in capo all’agricoltore anche nell’ipotesi in cui il livello di THC superi la percentuale dello 0.6%: “non può essere addebitato all’agricoltore un fatto di cui non ha il dominio, non potendo egli né controllare né prevedere che le sementi acquistate, sebbene appartenenti alle varietà aventi un basso contenuto di THC (non superiore allo 0,2%), durante la coltivazione sviluppino una percentuale di principio attivo idoneo a produrre un effetto drogante rilevabile” (pp. 6-7).

1.2. Tuttavia, prosegue Cass. 7166/2019, non tutte le previsioni di esonero di responsabilità previste a favore dell’agricoltore si estendono alla figura del commerciante.

Quest’ultimo rimane indenne da responsabilità – sempre secondo l’impostazione dettata da Cass. 7166/2019 – nella sola ipotesi in cui ricorrano “le condizioni sopra indicate al par. 7” (p. 7), ossia i seguenti “ tre requisiti: a) deve trattarsi di una delle varietà ammesse iscritte nel Catalogo europeo delle varietà delle specie di piante agricole, che si caratterizzano per il basso dosaggio di THC; 2) la percentuale di THC presente nella canapa non deve essere superiore allo 0,2%; 3) la coltivazione deve essere finalizzata alla realizzazione dei prodotti espressamente e tassativamente indicati nell’art. 2, comma 2, l. n. 242 del 2016” (p. 6).

In presenza di queste condizioni, “è lecita […] anche la commercializzazione” (p. 6) dei prodotti a base di canapa.

Al contrario, nelle ipotesi in cui venga oltrepassato il limite dello 0,2% di THC presente nelle piante, la sentenza non estende al commerciante – a differenza di quanto appena descritto in riferimento alla figura dell’agricoltore – ulteriori soglie di tolleranza, “sicché nei confronti del commerciante di prodotti a base di canapa trovano applicazione i principi generali” (p. 7), secondo cui “può configurarsi” nei confronti del commerciante “dal punto di vista oggettivo, il reato di cui all’art. 73, comma 4, d.P.R. n. 309 del 1990” a condizione – e la precisazione ha un’importanza cruciale – che “la percentuale di THC rinvenuta nei prodotti è tale da provocare un effetto stupefacente o psicotropo, e ferma restando l’indagine in ordine all’elemento soggettivo del reato” (p. 7).

Effetto psicotropo che il consulente del P.M. ha ritenuto sussistente nel caso di specie dal momento che le infiorescenze sequestrate avevano un tenore superiore allo 0,5%, ossia al valore indicato come psicotropo dalla tossicologia forense (valore indicato anche nella Circolare del Ministero dell’Interno del 31 luglio 2018, nel paragrafo c) recante titolo “Le infiorescenze della canapa con tenore superiore allo 0,5% rientrano nella nozione di sostanze stupefacenti“, pp. 7-9).

1.3. Tutto ciò premesso, la soluzione adottata da Cass. 7166/2019 impone alcune riflessioni.

Per le ragioni anzidette, la sentenza riconosce la liceità delle attività commerciali indicando tuttavia la soglia massima di 0,2%, discostandosi così da Cass. 4920/2019, la quale, si è visto, innalzava tale limite allo 0,6%, il cui valore esimente viene qui invece circoscritto al solo coltivatore.

Sennonché, questa discrasia tra la soglia consentita all’agricoltore e il valore più basso consentito al commerciante lascia spazio a un evidente dubbio: come si deve comportare il coltivatore nell’ipotesi in cui la soglia del raccolto oscilli nell’intervallo compreso tra lo 0,2% e lo 0,6%?

Al contempo, la sentenza si focalizza sull’idoneità della sostanza ricavata a produrre un effetto psicotropo: un’idoneità, come si è detto, che la stessa giurisprudenza della Corte di Cassazione fissa nello 0,5%, ossia in un valore limite solitamente utilizzato nelle valutazioni concernenti il DPR 309/90 ma che non viene mai menzionato all’interno della l. n. 242/2016, la quale fa riferimento – come si è  detto – ai limiti dello 0,2% e/o dello 0,6%.

1.3.1. Giunti a questo punto, proviamo a fare qualche considerazione conclusiva.

All’interno della Suprema Corte di Cassazione si possono ad oggi rinvenire tre distinti orientamenti che pare opportuno qui sintetizzare per ragioni di chiarezza:

  1. Cass. Sez. VI, 27 novembre 2018 (ud.) – 17 dicembre 2018 (dep.), n. 56737: La legge 2 dicembre 2016, n. 242, che stabilisce la liceità della coltivazione della cannabis sativa L per finalità espresse e tassative, non si riferisce anche alla commercializzazione dei prodotti di tale coltivazione – costituiti dalle inflorescenze (Marijuana) e dalla resina (Hashish) – e, pertanto, le condotte di detenzione illecita e cessione di tali derivati continuano ad essere sottoposte alla disciplina del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, sempre che dette sostanze presentino un effetto drogante rilevabile;
  2. Cass. Sez. VI, 29 novembre 2018 (ud.) – 31 dicembre 2019 (dep.), n. 4920: Dalla liceità della coltivazione della cannabis sativa L., alla stregua della legge 2 dicembre 2016, n. 242, discende, quale corollario logico-giuridico, la liceità della commercializzazione al dettaglio dei relativi prodotti contenenti un principio attivo THC inferiore allo 0.6 %, che pertanto non possono più essere considerati sostanza stupefacente soggetta alla disciplina del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, al pari di altre varietà vegetali che non rientrano tra quelle inserite nelle tabelle allegate al predetto D.P.R.;
  3. Cass. Sez. III, 7 dicembre 2018 (ud.) – 15 febbraio 2019 (dep.), n. 7166: E’ consentita la commercializzazione dei prodotti della coltivazione della canapa in presenza dei seguenti tre requisiti: 1) deve trattarsi di una delle varietà ammesse iscritte nel Catalogo europeo delle varietà delle specie di piante agricole, che si caratterizzano per il basso dosaggio di THC; 2) la percentuale di THC presente nella canapa non deve essere superiore allo 0,2%; 3) la coltivazione deve essere finalizzata alla realizzazione dei prodotti espressamente e tassativamente indicati nell’art. 2, comma 2, l. n. 242 del 2016, fermo restando che, per la sussistenza del reato di cui all’art. 73, comma 4 del D.P.R. 309/1990, occorre verificare l’idoneità della percentuale di THC a produrre un effetto drogante rilevabile.

Per queste ragioni, l’attuale quadro giurisprudenziale non sembra oggi in grado di definire con chiarezza la piena liceità delle attività di commercializzazione delle attività sostenute e promosse dalla l. 242/2016.

D’altro canto, se anche si volesse (ragionando per assurdo e quindi in via ipotetica ed assolutamente teorica) prescindere dalle indicazioni dettate da Cass. 56737/2018 e considerare (sempre in astratto si badi) lecita l’attività di commercializzazione delle attività commerciali dei prodotti a base di canapa, resterebbe comunque ancora aperta la questione riguardante la puntuale indicazione della soglia al di sopra della quale la canapa industriale potrà essere individuata come sostanza stupefacente: la soglia dello 0,2% o dello 0,6%?

Oppure il limite dello 0,5%, in ossequio alla giurisprudenza sviluppata sulla scorta del D.P.R. 309/1990, nonostante Cass. 4920/2019 abbia considerato la l. 242/2016 un microsettore normativo autonomo avente carattere derogatorio rispetto al D.P.R. 309/1990?

Stante le attuali incertezze, pertanto, risulta quindi opportuno un intervento chiarificatore da parte delle Sezioni Unite, le quali sono state di recente investite della questione dalla Quarta sezione.

Come citare il contributo in una bibliografia:
M. Miglio – F. Pesce, Il tortuoso percorso della commercializzazione della cannabis light verso le Sezioni Unite, in Giurisprudenza Penale Web, 2019, 3