Processo Open Arms: la sentenza con cui il Tribunale di Palermo ha assolto il Ministro Matteo Salvini
Tribunale di Palermo, 18 giugno 2025 (ud. 19 dicembre 2024)
Presidente estensore dott. Murgia, Giudici estensori dott. Innocenti – dott.ssa Villa
Segnaliamo ai lettori, in considerazione dell’interesse mediatico e giuridico della vicenda (relativa al cd. caso Open Arms), la sentenza con cui il Tribunale di Palermo ha assolto – con la formula “perché il fatto non sussiste” – il Ministro Matteo Salvini dalla contestazione del reato di cui all’art. 605 comma 1, comma 2 n. 2) e comma 3 c.p., per avere, nella sua qualità di Ministro dell’Interno, privato della libertà personale 147 migranti di varie nazionalità giunti in prossimità delle coste di Lampedusa nella notte tra il 14 ed il 15 agosto 2019.
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Dopo aver sintetizzato l’ipotesi sostenuta dalla pubblica accusa e condivisa dalle parti civili – si legge nella sentenza – “ritiene il Collegio che con riguardo a nessuno dei tre eventi SAR (dell’1, 2 e 9 agosto 2019) fosse sorto, in capo allo Stato italiano, l’obbligo di coordinare le operazioni di search and rescue e di concedere il POS“.
I giudici ricordano come “l’effettività della tutela del bene della vita di chi sia esposto a pericolo in mare e dei diritti delle persone migranti, ribaditi dal recente Patto mondiale per una migrazione sicura, ordinata e regolare (“GCM”) approvato dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 19 dicembre 2018, presuppongono la individuazione di un quadro normativo specifico e di un chiaro progetto di azioni degli Stati, possibilmente condiviso a livello comunitario se non internazionale (oltre che attenzione e sensibilità dei Governi e delle Istituzioni mondiali alla complessità del fenomeno migratorio)”.
Al tempo dei fatti in esame – si legge nella pronuncia – “non sussisteva né una cornice legislativa idonea a regolare ordinatamente i rapporti tra i vari soggetti coinvolti nelle operazioni di salvataggio nel mar Mediterraneo, almeno nel contesto delle operazioni ONG, né una definita, e condivisa, linea progettuale sulla gestione dei flussi migratori: tutto era rimesso a occasionali ‘patti di redistribuzione’ dei migranti tra le nazioni UE, di cui tanto si è parlato nel processo, cui si addiveniva, di volta in volta, su base volontaria, tramite faticose (ed incerte) interlocuzioni diplomatiche dei rappresentanti degli Stati“.
La stessa Raccomandazione espressa dal massimo consesso rappresentativo dell’UE – prosegue la sentenza – “è illuminante nell’evidenziare la precarietà e la inaffidabilità del quadro normativo di riferimento – col quale però il Collegio è oggi chiamato a confrontarsi per giudicare dei gravi reati contestati all’imputato Salvini- nel regolare la (così definita) ‘nuova forma di operazioni di ricerca e soccorso’ di cui si sono fatte carico le ONG. Negli stessi termini, critici rispetto al quadro normativo-istituzionale e propositivi in merito alla possibilità di riorganizzare la materia del soccorso in mare e investire di maggiori, e dirette, competenze gli organismi UE, si esprime la successiva Risoluzione del Parlamento europeo del 13 luglio 2023 sulla necessità di un intervento dell’UE nelle operazioni di ricerca e soccorso nel Mediterraneо”.
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Va inoltre sottolineato – continua il Tribunale – “come sia pacifico che tutti tre gli eventi siano avvenuti in zone SAR non italiane, sicché deve escludersi (e, del resto, ciò non è stato nemmeno ipotizzato dalla pubblica accusa) che una responsabilità potesse derivare all’Italia per i tre eventi in questione in quanto Autorità/Stato responsabile della zona SAR ove si era verificato il salvataggio“.
Indi, “va evidenziato come, dagli atti del procedimento, non risulti in alcun modo, e per alcuno dei tre eventi di search and rescue, che lo Stato italiano avesse mai rivestito il ruolo di Stato di “primo contatto” (agli effetti di cui al punto 6.7 delle Linee guida Imo sul trattamento delle persone salvate in mare). Invero, se nessuno degli interventi di salvataggio si era verificato in zona SAR italiana (il primo, in zona SAR libica e il secondo maltese), il centro di coordinamento italiano, come emerso in dibattimento, non era stato neppure il primo ad essere “contattato”, nei termini previsti dalle linee guida di cui all’allegato della Risoluzione MSC 167(78) dell’anno 2004, considerato che dei due consecutivi interventi di soccorso erano già state previamente investite le Autorità SAR responsabili delle aree ove erano avvenuti i salvataggi, Libia e Malta, nonché l’Autorità spagnola“.
Tanto premesso, ed esclusa pacificamente qualsivoglia responsabilità di tipo “primario”, “reputa il Collegio che lo Stato italiano (IRMCC) non avesse assunto la responsabilità della coordinazione del caso nemmeno come Stato di “primo contatto” e che, invece, di tale responsabilità dovesse ritenersi gravata la Spagna. D’altronde, né Spagna, né Malta, né Libia hanno mai invocato la responsabilità dell’Italia in relazione agli interventi di salvataggio“.
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La sentenza passa poi ad analizzare la rilevanza delle “raccomandazioni” alla cooperazione ed alla solidarietà tra gli Stati – ricavabile dalle convenzioni internazionali ed in modo particolare dalla Risoluzione MSC 167(78) – le quali “consentirebbero di affermare l’esistenza di un principio immanente per il quale tutti gli stati contraenti avrebbero il dovere di cooperare tra loro per fare modo che (a prescindere dalle specifiche responsabilità dello Stato competente per la zona SAR e dello Stato di primo contatto), non solo venga sicuramente prestata assistenza ai sopravvissuti, ma venga altresì loro assicurato lo sbarco prima possibile, comunque in tempi ragionevoli“.
Il suddetto principio di solidarietà – si legge nella sentenza – “per quanto sicuramente apprezzabile in chiave umanitaria, non risulta adeguatamente traslato nelle disposizioni delle convenzioni internazionali, non ricavandosi dalle stesse precisi obblighi di cooperazione tra gli stati, quanto piuttosto mere esortazioni a raggiungere un sistema di cooperazione di coordinazione che possa garantire il salvataggio delle persone pericolo in mare e mettere i capitani delle navi in condizioni di assicurarlo, sgravandoli prima possibile del carico”.
E’ agevole, in tal senso, “rilevare che in pressoché tutte le disposizioni su riportate, nelle quali viene evocata l’esigenza di una cooperazione tra gli Stati viene fatto un ampio uso del condizionale (“…dovrebbe integrare il corrispondente obbligo dei Governi…” “ogni RCC dovrebbe avere piani operativi…. Tali piani dovrebbero coprire incidenti anche fuori della propria regione SAR ” ; “.il primo RCC contattato dovrebbe iniziare immediatamente gli sforzi…. per trasferire il caso all’RCC responsabile”; “i Governi e I’RCC responsabile dovrebbero fare ogni sforzo per ridurre al minimo il tempo in cui i sopravvissuti rimangono a bordo della nave che presta assistenza”; “Le autorità statali competenti dovrebbero fare ogni sforzo per accelerare le disposizioni per sbarcare i sopravvissuti dalla nave; tuttavia il capitano deve comprendere che in alcuni casi il coordinamento necessario potrebbe comportare ritardi inevitabili”; “i Governi dovrebbero cooperare tra loro per fornire luoghi di sicurezza idonei… “).
Ed al di là del dato pacificamente noto “per il quale il condizionale è un “modo” (del verbo) impiegato nell’uso comune per esprimere incertezza, giova osservare che tale utilizzo nella convenzione SAR, nel relativo Allegato e nei successivi emendamenti non è stato affatto casuale“.
Se, da un lato, “va evidenziato che è ben comprensibile che in sede di Convenzioni internazionali si profili la necessità di percorrere la strada della “raccomandazione” piuttosto che quella dell’individuazione e dell’imposizione di specifici obblighi giuridici“, dall’altro, “da tale opzione discende pressoché inevitabilmente la rinuncia a dotare la disposizione esplicitata nella “raccomandazione” della cogenza tipica dell’obbligo giuridico, dalla inosservanza del quale poter far derivare, nei congrui casi, anche conseguenze penali“.
In altri termini, “per il Collegio, se, con riguardo al mancato rispetto di tali “raccomandazioni”, può ancora astrattamente ipotizzarsi la configurabilità di profili di responsabilità internazionale in senso lato per lo Stato “inottemperante, non pare possibile argomentare che, dall’omessa osservanza di tali raccomandazioni possano derivare per gli organi attraverso i quali lo Stato esprime la propria condotta (organi, di regola, del potere esecutivo, ma anche di quello legislativo o giudiziario), conseguenze giuridiche (addirittura penali) alla stessa stregua del mancato rispetto di ben definiti obblighi giuridici“. Ne consegue che “non pare dubitabile che la vaghezza connaturata nella disposizione “raccomandatoria” e la sua scarsa cogenza (od attenuata “vincolatività” che dir si voglia) contrastino radicalmente coi principi di certezza del diritto e di tassatività propri del nostro ordinamento penale“.
In proposito, “merita appena di ricordare come il suddetto principio di tassatività imponga al legislatore l’obbligo di formulare le norme penali (in specie, quelle che incidono sulla punibilità del reo) utilizzando espressioni sufficientemente precise, in modo che sia possibile conoscere con esattezza ciò che è penalmente lecito e ciò che è penalmente sanzionato, circoscrivendo entro limiti ben definiti l’attività interpretativa. Detto principio è pacificamente annoverato tra i corollari del principio di legalità, poiché la funzione di garanzia che quest’ultimo esprime risulterebbe frustrata se, pur riservando al potere legislativo l’adozione di norme penali, si consentisse di confezionare fattispecie incriminatrici così vaghe, imprecise ed incerte da lasciare ampio margine discrezionale in sede applicativa, che rischierebbe di sfociare nell’arbitrio“.
È, pertanto, “chiara la ratio del principio in esame che, imponendo la descrizione chiara e precisa degli elementi costitutivi della fattispecie incriminatrice, impedisce, da un lato, che vengano a crearsi spazi di eccessiva discrezionalità giudiziaria e, dall’altro, che i precetti penali risultino incomprensibili o ambigui per i consociati”. Tale evenienza, infatti, “impedirebbe alla legge penale di produrre il proprio effetto deterrente e non consentirebbe di muovere un rimprovero al reo, qualora non fosse stato messo in condizione di comprendere il precetto penale violato“.
Del resto, “come affermato dalla Corte costituzionale (nella sent. 364/1988), lo stesso dovere dei consociati di osservare la legge, sancito dall’art. 54, comma 1, Cost., risulterebbe inesigibile se le disposizioni dettate dal legislatore presentassero un grado di incertezza e ambiguità tale da impedire loro di comprenderne il significato e di orientare, di conseguenza, il proprio comportamento. In tal senso, davvero non può dubitarsi che il principio di tassatività presenti un sicuro fondamento costituzionale nell’art. 25 comma 2 Cost., garantendo che la ratio della riserva di legge e del principio di irretroattività non vengano frustrati“.
Invero, “la possibilità per il legislatore di disciplinare in maniera vaga o ambigua i comportamenti penalmente rilevanti renderebbe meramente formale il monopolio legislativo in materia penale, richiedendo un intervento giurisprudenziale per eliminare le incertezze e i dubbi circa la portata precettiva di siffatte disposizioni penali“. Allo stesso tempo, “il giudice penale sarebbe in condizione di interpretare con ampi margini di scelta la disposizione incriminatrice e farvi rientrare comportamenti che il privato potrebbe non aver considerato come penalmente rilevanti, in spregio al diritto di autodeterminazione dei consociati e di necessaria colpevolezza, che costituiscono la ratio del divieto di retroazione delle norme penali di sfavore”.
Né può sottacersi come “assai rilevanti si prospettino le conseguenze della violazione del principio di tassatività con riferimento alla posizione dell’imputato, il quale sarebbe posto nell’impossibilità di apprestare la propria difesa a fronte di una contestazione che assumesse tratti vaghi e imprecisi, mutuandoli dalla norma incriminatrice di riferimento (dovendosi senz’altro convenire che, in assenza di elementi costitutivi chiari e precisi, l’imputato non potrebbe elaborare una strategia difensiva puntuale e ne risulterebbe frustrato il suo diritto inviolabile di difesa, di cui all’art. 24 Cost.)“.
In tal senso, “dovendosi per il Collegio escludere che le disposizioni caratterizzate dall’uso del condizionale (“l’RCC dovrebbe”, i “Governi dovrebbero”, ecc.) possano esprimere con sicurezza l’intenzione del legislatore di esigere come obbligatorio quel dato comportamento e di punirne con sanzioni penali la sua inosservanza e possano, dunque, considerarsi conformi ai principi di legalità e di tassatività dianzi cennati“.
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Nella fattispecie, come già più volte cennato, “entrambi i reati attribuiti al Salvini muovono sostanzialmente dall’addebito relativo al mancato adempimento del dovere di esitare positivamente quale atto del suo ufficio (che per ragioni di ordine e sicurezza pubblica di igiene e sanità doveva essere compiuto senza ritardo) le richieste di POS inoltrate al Gabinetto del Ministero dell’Interno“. Già si è visto come, “a tutto voler concedere sull’Italia (recisamente esclusa la sua responsabilità quale responsabile della zona SAR e di Stato “primo contatto”) avrebbe potuto gravare (solo) la responsabilità di non avere ottemperato alla “raccomandazione” a cooperare ed ad intervenire, in definitiva, in sostituzione degli Stati primariamente responsabili. Ed ammesso che allo Stato italiano potesse in astratto derivarne qualche responsabilità di tipo politico/internazionale in base alla quale potesse essere invitato, in un consesso di pari, a spiegare le ragioni del suo agito ed a renderne conto (evenienza comunque non verificatasi), residua fatto che sullo Stato italiano sicuramente non gravava uno specifico obbligo giuridico e tampoco che tale obbligo gravasse sull’organo deputato ad ottemperare alla suddetta “raccomandazione”, vale a dire sul Ministro dell’Interno“.
In definitiva, “per il Collegio, deve escludersi – tenuto conto della vaghezza del precetto (evincibile solo attraverso l’articolata combinazione delle finalità perseguite dalle convenzioni SOLAS e SAR come rimodulate dalle RISOLUZIONI MSC 153(78) e MSC 155(78) con gli inviti alla collaborazione talora anche con riguardo ad incidenti verificatisi al di fuori delle zone SAR di propria competenza) e della scarsa cogenza della disposizione (di tipo raccomandatorio) – che la concessione del POS costituisse per l’Italia e, di riflesso, per l’allora ministro dell’interno Salvini, un “obbligo giuridico” il cui mancato rispetto potesse integrare gli estremi del rifiuto di atti di ufficio oltre che i presupposti per la realizzazione del reato di sequestro di persona“.