Alta moda e agevolazione colposa del caporalato: ancora un caso di amministrazione giudiziaria da parte del Tribunale di Milano
Tribunale di Milano, Sezione Autonoma Misure di Prevenzione, decreto, 8 luglio 2025
Presidente dott.ssa Paola Pendino, Estensore dott.ssa Giulia Cucciniello
1. Segnaliamo ai lettori, in tema di misure di prevenzione, il decreto con cui il Tribunale di Milano, in un recente caso di cronaca relativo al settore dell’alta moda, è tornato sui profili della cd. agevolazione colposa ai fini della applicazione della misura della amministrazione giudiziaria ex art. 34 D.Lvo 159/2011.
Il decreto segue diversi analoghi provvedimenti – anche questi emessi nei confronti di aziende operanti nel settore dell’alta moda – emessi nei mesi di gennaio 2024, aprile 2024 e giugno 2024.
Anche in questo caso, i giudici hanno preso le mosse ricordando come, «sul piano del profilo soggettivo richiesto per l’applicazione della misura di prevenzione ex art 34 è stato ritenuto proprio da questo Tribunale (T Milano, 23.06.2016, Nolostand spa) che il soggetto terzo (nel caso concreto una persona giuridica, la cui manifestazione agevolatrice deve ovviamente essere letta alla luce dei comportamenti posti in essere dalle persone fisiche dotate di potere di decisione, rappresentanza e controllo) debba porre in essere una condotta censurabile quantomeno su un piano di rimproverabilità “colposa”, quindi negligente, imprudente o imperita, senza che ovviamente la manifestazione attinga il profilo della consapevolezza piena della relazione di agevolazione».
Secondo il Tribunale, «la necessità di individuare un perimetro di censurabilità del comportamento del terzo agevolatore – perimetro che necessariamente deve rimanere nell’ambito del rimprovero colposo sconfinandosi, in ipotesi di condotte dolosamente orientate a favorire l’espansione della economia illegale, in fattispecie di natura concorsuali o comunque di favoreggiamento all’attività criminale – risiede in una lettura costituzionalmente orientata del presupposto applicativo della misura di prevenzione la quale tende a comprimere comunque il fondamentale diritto alla libertà di impresa costituzionalmente garantito, e ciò con particolare riferimento alla decisione della Corte costituzionale che con la sentenza del 29.11.1995, n. 487 aveva, in tema di valutazione dell’istituto allora denominato sospensione temporanea, evidenziato come non si potesse comprimere il libero esercizio dell’attività imprenditoriale in presenza di un regime di “sostanziale incolpevolezza”».
2. Ciò premesso – osserva il Tribunale citando la richiesta della Procura – «è di tutta evidenza che il brand di moda, nel momento in cui si avvale di soggetti che sono dediti ad un pesante sfruttamento lavorativo integra la condotta agevolatoria di cui all’art. 34 D.L.vo 159/2011».
E il problema per il brand di moda – continua la richiesta del PM – «pare porsi soprattutto sotto un profilo organizzativo: si tratta infatti di rimuovere quelle “situazioni tossiche” che hanno creato l’humus favorevole perché una filiera produttiva ampiamente rinomata sul mercato si trasformasse in un ambiente ad elevato tasso di illegalità, non potendosi certo pensare che il quadro delineato possa essere spiegato “facendo esclusivamente riferimento alla personalità perverso di singole persone” (Braithwaite). E nemmeno si può ragionevolmente pensare che il problema possa essere risolto solo rimuovendo le figure apicali del committente, senza nulla mutare del sistema organizzativo; inalterata l’organizzazione, “i nuovi venuti” si troverebbero nelle medesime condizioni dei loro predecessori e il sistema illecito sarebbe destinato a perpetuarsi. In altri termini ad una logica disposizionale, centrata sulla colpa della persona, è necessario sostituire (o comunque affiancare) una logica situazionale, che attribuisce rilevanza al contesto, che è fattore non certo indifferente nella genesi delle condotte umane. Quel che infatti emerge dalla attività investigativa è che nella società vi era è una sorta di cultura di impresa, cioè un insieme di regole, un modo di gestire e di condurre l’azienda, un contesto ambientale intessuto di convenzioni anche tacite, radicate all’interno della struttura della persona giuridica, che hanno di fatto favorito la perpetuazione degli illeciti».
Nel corso delle indagini, infatti, «si è disvelata una prassi illecita così radicata e collaudata, da poter essere considerata inserita in una più ampia politica d’impresa diretta all’aumento del business. Le condotte investigate non paiono frutto di iniziative estemporanee ed isolate di singoli, ma di una illecita politica di impresa. Si dà vita, così, ad un processo di decoupling organizzativo (letteralmente: “disaccoppiamento”), in forza del quale, in parallelo alla struttura formale dell’organizzazione volta a rispettare le regole istituzionali (codici etici, modelli organizzativi, che però hanno una funzione meramente cosmetica), si sviluppa un’altra struttura, “informale”, volta a seguire le regole dell’efficienza e del risultato. In questo modo, la costante e sistematica violazione delle regole genera la normalizzazione della devianza, in un contesto dove le irregolarità e le pratiche illecite vengono accettate ed in qualche modo promosse, in quanto considerate normali».
La richiesta proseguiva evidenziando come, «in sintesi, il dato d’esperienza diretta (G.A. Operation spa, Manufactures Dior srl, Alviero Martini spa, Valentino bag’s Lab) sulle attività di controllo delle filiera produttive indica invece che la completa esternalizzazione dei processi di produzione industriale è finalizzato esclusivamente all’abbattimento dei costi da lavoro dipendente e, conseguenzialmente, anche delle responsabilità penali ed amministrative da parte del D.L. circa la sicurezza dei lavoratori (vista medica preventiva e periodica, cicli informativi e formativi; certificazioni di sicurezza anche in ordine alla nuova patente a punti aziendale; acquisto e consegna DPI, ecc..) oltre a quella sui luoghi di lavoro deputati alla produzione (DVR – normativa antincendio e piani evacuazione – normativo rischio chimico – smaltimento rifiuti – direttive macchine – DPC -ecc…). Il tutto nella logica del massimo profitto al minor costo di produzione».
3. Dopo aver riepilogato i profili di diritto e gli elementi emersi in merito allo sfruttamento dei lavoratori, il Tribunale ha evidenziato come tale meccanismo sia stato «colposamente alimentato dalla società, che non ha verificato la reale capacità imprenditoriale delle società appaltatrici e sub-appaltatrici, alle quali affidare la produzione e non ha nel corso degli anni eseguito efficaci ispezioni o audit per appurare in concreto l’operatività della catena produttiva e le effettive condizioni lavorative e gli ambienti di lavoro» e i cui «modelli organizzativi e gestionali, almeno allo stato, si sono nel concreto rivelati inadeguati».
A differenti considerazioni – prosegue il Tribunale – «non possono indurre né gli audit svolti, controlli che in verità, appaiono più formali che sostanziali in relazione alla concreta verifica della capacità produttiva delle aziende né la risoluzione del contratto di appalto che la società ha comunicato alla controparte in data 21 magio 2025, trattandosi di iniziativa assunta intempestivamente e solo dopo il controllo effettuato in data 13 maggio 2025 , che ha portato all’arresto del titolare di fatto».
In definitiva, «i controlli e le iniziative, anche da ultimo, assunti dalla società, almeno allo stato, sembrano più formali che sostanziali, avuto riguardo alla tipologia ed alle tempistiche degli stessi».
Il sistema descritto – che, secondo i giudici, «ha, all’evidenza, l’obbiettivo dell’abbattimento dei costi e della massimizzazione dei profitti (con l’aumento massimo della produttività da realizzare in tempi rapidi) attraverso l’elusione delle norme penali e giuslavoristiche» – è stato «perpetrato nel tempo e la condotta agevolatoria appare connessa in modo strutturale ed endemico all’organizzazione della produzione da parte della società nonché funzionale a realizzare una massimizzazione dei profitti, anche a costo di instaurare colposamente stabili rapporti con soggetti dediti allo sfruttamento dei lavoratori e si presenta come condotta stabile e perdurante nel tempo, integrando appieno il presupposto indicato dalla norma».
In altre parole – si legge nel decreto – «la società non ha effettivamente controllato la catena produttiva, verificando la reale capacità imprenditoriale delle società con le quali stipulare i contratti di fornitura e le concrete modalità di produzione dalle stesse adottate, omettendo di assumere tempestive ed adeguate iniziative di reale verifica della filiera dei sub-appalti, sino alla rescissione dei legami commerciali (come si è detto la rescissione appare intempestiva), con ciò realizzandosi, quantomeno sul piano di rimprovero colposo determinato dall’inerzia della società, quella condotta agevolatrice richiesta dalla fattispecie ex art. 34 D.Lvo 159/2011 per l’applicazione della misura di prevenzione dell’amministrazione giudiziaria».
Tutto ciò – si precisa – «non vuol dire che la società abbia la piena consapevolezza delle condizioni in cui versavano i lavoratori presso gli opifici cinesi, ma certamente la società per colpa non ha messo a punto una struttura organizzativa adeguata ad impedire il sorgere e consolidarsi di rapporti commerciali (attraverso la catena dei sub-appalti) con soggetti operanti in regime di sfruttamento dei lavoratori».
Il Tribunale passa poi a segnalare come l’operatività della catena produttiva fosse proseguita «nonostante i provvedimenti di amministrazione giudiziaria adottati dal Tribunale di Milano nei confronti di altri brand della moda cd di Lusso quali Alviero Martini, Dior, Armani, Valentino e la risonanza mediatica avuta dagli stessi» e nonostante, lo scorso mese di maggio, «fosse stato siglato un protocollo di intesa redatto in sede collettiva con la partecipazione delle associazioni sindacali e datoriali più rappresentative a livello nazionale volto a garantire per il rispetto della legalità nei contratti di appalto nell’ambito della filiera produttiva del mondo della moda».
4. In conclusione, «osserva il Tribunale, che nel caso in esame, avuto riguardo allo specifico settore dei rapporti con le società fornitrici – procedendosi nei confronti di un’impresa pienamente operativa, rappresentativa dei cd. brand della moda di lusso ed avente rilevanti dimensioni, in applicazione del principio guida di proporzionalità, può modularsi la misura in modo sì da assicurare il controllo da parte del Tribunale sugli organi gestori – per esempio per sostituire i componenti della governance e degli organi di controllo, ove necessario, e per adeguare i presidi di controllo interno -, ma lasciando il normale esercizio di impresa in capo agli organi di amministrazione societaria».
In particolare, «l’intervento dell’amministratore, ove possibile d’intesa con gli organi amministrativi della società, dovrà essere finalizzato, secondo le attività specificatamente riportate nella parte dispositiva, ad analizzare i rapporti con le imprese fornitrici in corso in modo da evitare che la filiera produttiva si articoli attraverso appalti e sub appalti con realtà imprenditoriali che adottino le illecite condizioni di sfruttamento dei lavoratori di cui all’art. 603 bis c.p. ed a rimuovere, ove necessario, i rapporti contrattuali tuttora in essere con soggetti direttamente o indirettamente collegati a tali realtà imprenditoriali; ad adottare un modello organizzativo previsto dal D. Lvo 231/2001 idoneo per prevenire fattispecie di reato di cui all’art. 603 bis c.p.; ancora a rafforzare i presidi di controllo interno e quelli relativi alle verifiche reputazionali dei fornitori dell’azienda».