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Caso Gisèle Pelicot (cd. “stupri di Mazan”): la sentenza di secondo grado nei confronti dell’unico imputato appellante

Cour d’Assises d’Appel du département du Gard, Nîmes, 9.10.2025

Segnaliamo ai lettori, con riferimento al caso di Gisèle Pelicot – la donna drogata dal marito e fatta violentare, per anni, da altri uomini (cd. “stupdi di Mazan”) – la sentenza pronunciata, in appello, nei confronti dell’unico imputato che aveva impugnato la sentenza di primo grado.

La Corte di Assise di Appello di Nîmes ha condannato l’imputato a 10 anni di reclusione (in primo grado la condanna era stata di 9 anni) ritenendo provata la consapevolezza dello stato di sedazione della vittima (i cui effetti «non potevano sfuggire all’imputato») e giudicando non credibile la tesi di partecipare ad un rapporto «consenziente e precedentemente concordato».

L’imputato – i legge nella sentenza – avrebbe ammesso, seppur dopo un certo lasso di tempo (circa mezz’ora secondo lui, circa due ore secondo il marito), di essersi sorpreso per l’inerzia della vittima – a fronte della quale il marito gli avrebbe riferito che «la moglie aveva preso troppi medicinali e faceva finta di dormire…» – e di essersene andato dopo aver compiuto comunque diversi atti sessuali sulla vittima (dallo stesso definita come «morta»).

Nemmeno è stato ritenuto credibile l’argomento, sollevato dai difensori dell’imputato, secondo cui sarebbe stato manipolato dal marito della vittima: se, da un lato, quest’ultimo è stato descritto dagli esperti come «un individuo pericoloso, persuasivo, dominatore, psicopatico e con profili perversi fuori dalla norma», dall’altro, «nulla è stato dimostrato a sostegno di pressioni o minacce esercitate dal marito, né è stato dimostrato che quest’ultimo abbia obbligato l’imputato a proseguire nelle sue azioni una volta constatato che la vittima era inerte».

In conclusione, l’imputato avrebbe dimostrato l’intenzione di persistere nella propria azione violenta «sostenendo di aver ricevuto un “consenso per procura”, benché non spettasse a lui deciderlo» («affirmant avoir obtenu un consentement par procuration alors même que ce n’était pas à lui de le décider»).

Quanto alla pena, la Corte ha valorizzato – oltre alla gravità dei fatti e al rischio di malattie per la vittima – l’atteggiamento dell’imputato in udienza, il quale non avrebbe manifestato alcuna empatia verso la vittima, negandole tale status (e, anzi, attribuendolo a sé stesso)

Redazione Giurisprudenza Penale

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