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I principi giuridici enunciati dalla Cassazione nella sentenza che chiude la vicenda Saipem-Algeria.

[a cura di Lorenzo Roccatagliata]

Cass. pen., Sez. VI, Sent. 20 ottobre 2021 (ud. 14 dicembre 2020), n. 37783
Presidente Fidelbo, Relatore Silvestri

Con la sentenza in epigrafe, la Corte di cassazione, Sezione sesta, ha posto fine alla nota vicenda relativa agli appalti ottenuti da Saipem in Algeria – secondo la prospettazione accusatoria – mediante la stipula e la esecuzione di accordi corruttivi a beneficio del Ministro dell’Energia algerino.

La sentenza ha confermato la pronuncia della Corte di appello di Milano, la quale, in riforma della sentenza di condanna di primo grado, aveva assolto tutti gli imputati con formula piena, ritenendo che non fosse stata raggiunta la prova degli elementi costitutivi del reato di corruzione internazionale, vale a dire la stipula di un accordo corruttivo, la ricezione di utilità da parte del pubblico ufficiale, la realizzazione da parte di quest’ultimo di atti contrari ai propri doveri [la sentenza di secondo grado è stata pubblicata in questa Rivista, ivi, e commentata da Luigi Scollo, ivi].

Al di là del merito della vicenda, che può essere efficacemente ricostruito a partire dal testo delle sentenze di secondo e terzo grado, preme in questa sede dar conto dei principi giuridici espressi dalla Cassazione, che riguardano: (i.) la portata dell’obbligo di motivazione del secondo giudice in caso di overturning della sentenza di primo grado, (ii.) la valutazione probatoria della cd. “chiamata in reità o correità” e, naturalmente, (iii.) la struttura e la prova del reato di corruzione.

Di seguito dunque si riportano i brani della sentenza che riguardano tali questioni.

1. la portata dell’obbligo di motivazione del secondo giudice in caso di overturning della sentenza di primo grado.

Le Sezioni unite della Corte hanno evidenziato come l’obbligo della motivazione rinforzata si imponga per il giudice di appello tutte le volte in cui ritiene di ribaltare la decisione del giudice di primo grado, sia assolutoria che di condanna (…)
Il tema è allora cosa debba intendersi per ‘motivazione rinforzata’.
Si nota correttamente che una motivazione rafforzata è quella che abbia una ‘forza persuasiva superiore’, in grado cioè di conferire alla ‘nuova’ decisione la maggior solidità possibile (…).
Il giudice deve costruire un impianto giustificatorio più robusto, più solido in relazione alle questioni che in quella materia ed in relazione al caso concreto di cui si occupa sono decisive per la correttezza logica e per la legittimità dell’accertamento penale (…).
Mentre infatti la cd. doppia decisione conforme porta in sé una valenza rassicurante sull’aspettativa che il processo si sia davvero avvicinato alla verità, l’esistenza di decisioni radicalmente difformi trasmette un messaggio asimmetrico perché lascia sullo sfondo un insoluto quesito decisivo, quello che attiene alla individuazione della decisione giuridicamente corretta tra le due difformi (…).
Questo spiega l’esigenza che il giudice di appello, nel riformare una sentenza – di assoluzione o di condanna-, adotti una ‘motivazione rafforzata’ (…).
Assolvere l’obbligo di motivazione rafforzata significa: a) dimostrare di avere compiuto un’analisi stringente, approfondita, piena del provvedimento impugnato; b) spiegare, anche in ragione dei motivi di impugnazione e del perimetro cognitivo devoluto, perché non si è condiviso il decísum; c) chiarire quali sono le ragioni fondanti – a livello logico e probatorio – la nuova decisione assunta.
Nel riformare una sentenza è necessario dimostrare di aver esaminato tutti gli elementi acquisiti, di avere studiato la motivazione della sentenza di primo grado, di avere compiuto, sulla base del devoluto, un confronto argomentativo serrato con essa al fine di evidenziarne le criticità (…) per poi procedere a formare una nuova struttura motivazionale che non si limiti ad inserire in quella argomentativa del primo giudice mere notazioni critiche di dissenso, in una sorta di ideale montaggio di valutazioni ed argomentazioni fra loro dissonanti, ma riesami il materiale probatorio vagliato dal giudice di primo grado, consideri quello eventualmente sfuggito alla sua delibazione e quello ulteriormente acquisito, per dare, riguardo alle parti della prima sentenza non condivise, una nuova e compiuta struttura motivazionale che dia ragione delle difformi conclusioni (…).
Il giudice d’appello deve delineare le linee portanti del proprio, alternativo ragionamento probatorio e confutare specificamente i più rilevanti argomenti della motivazione della prima sentenza, dando conto delle ragioni della relativa incompletezza o incoerenza, tali da giustificare la riforma del provvedimento (…).
il ribaltamento dello statuto decisorio in sede di gravame deve fondarsi non su una critica tra giudici posizionati ‘orizzontalmente’ rispetto allo stesso materiale di prova, ma nella diversa prospettiva dell’accertamento di un ‘errore’ di giudizio che il giudice dell’impugnazione ritiene che il giudice di primo grado abbia commesso alla luce delle circostanze dedotte dagli appellanti ed in funzione dello specifico tema devoluto.
Ad una plausibile ricostruzione del primo giudice, non può, come detto, sostituirsi semplicemente un altrettanto plausibile – ma diversa — ricostruzione operata in sede di impugnazione; la sentenza di appello deve necessariamente misurarsi con le ragioni addotte a sostegno del decisum dal primo giudice e porre criticamente in evidenza gli elementi, in ipotesi, sottovalutati o trascurati, e quelli che, al contrario, risultino inconferenti o, peggio, in contraddizione, con la ricostruzione di fatti e della responsabilità poste a base della sentenza appellata.
(…) l’obbligo di motivazione rafforzata assume un contenuto argomentativo diverso e contorni specifici a seconda che il giudice di appello, in riforma della sentenza di primo grado, condanni o assolva.
Il tema attiene al rapporto tra motivazione rafforzata e principio dell’oltre ogni ragionevole dubbio.
Mentre infatti per pronunciare nel giudizio di appello una sentenza di condanna a fronte di una pronuncia assolutoria in cui sia emerso un dubbio ragionevole, è necessario rimuovere il dubbio con un ragionamento che ne dimostri l’infondatezza ovvero l’inesistenza, nel caso, come quello di specie, di sentenza di assoluzione che riformi una precedente sentenza di condanna, nonostante l’obbligo di motivazione rafforzata, è in realtà sufficiente argomentare in positivo, nel senso che è necessario e sufficiente rappresentare l’esistenza del dubbio ragionevole.
Se per emettere una sentenza di condanna è necessaria la certezza della colpevolezza, la motivazione della sentenza del giudice d’appello che riformi, come nel caso di specie, una sentenza di condanna deve essere rafforzata sulla plausibilità di un ragionamento volto non già a far venire meno ogni ragionevole dubbio bensì a sollevarne uno (…).
È possibile allora indicare alcuni parametri di riferimento a cui il giudice di appello deve attenersi nel caso in cui decida, a fronte di una sentenza di condanna, di pronunciare una sentenza di assoluzione.
Il giudice, per assolvere in tal caso l’obbligo di motivazione rafforzata, deve:
a) dimostrare di avere compiuto un’analisi stringente, approfondita, piena, del provvedimento impugnato;
b) spiegare, anche in ragione dei motivi di impugnazione e del perimetro devoluto, perché non si è condiviso il decisum contestato;
c) chiarire quali sono le ragioni fondanti – a livello logico e probatorio – la nuova decisione assunta;
d) argomentare sul perché sussista un dubbio ragionevole originato dalla plausibilità processuale di una ricostruzione alternativa del fatto rispetto a quella recepita dal giudice di primo grado”.

2. la valutazione probatoria della cd. “chiamata in reità o correità”.

L’art. 192 cod. proc. pen. indica le modalità di valutazione di quella prova che viene generalmente indicata come ‘chiamata in correità’ o ‘chiamata in reità’.
Con il primo sintagma si fa riferimento alla dichiarazione resa da un coimputato e caratterizzata da un contenuto autoaccusatorio ed etero-accusatorio; il dichiarante, in pratica, riconosce di aver svolto un ruolo nel reato di cui riferisce, ma non si limita a raccontare soltanto quanto da lui posto in essere ma indica elementi di responsabilità anche di altri.
Con il secondo, invece, si qualificano quelle propalazioni di un soggetto che accusi un terzo, pur non essendo con lui coimputato, ma rivestendo un ruolo non di semplice testimone ma di coimputato in altro processo che si trovi in un rapporto qualificato di interferenza – di connessione o di collegamento probatorio – con quello che vede coinvolto il terzo medesimo.
Entrambe le forme dichiarative ricevono un’unica regolamentazione e, quindi, tendenzialmente il riconoscimento di identico valore probatorio.
La giurisprudenza maggioritaria della Corte, pur nel formale rispetto dell’indicazione legislativa, è, nei fatti, giunta da tempo ad individuare una differente valenza dimostrativa delle due forme di chiamata, quando afferma che le regole da utilizzare, ai fini della formulazione del giudizio di attendibilità, variano a seconda che il propalante riferisca vicende riguardanti solo terze persone, accusate di fatti costituenti reato, ovvero ammetta la sua partecipazione agli stessi fatti.
Secondo la Corte, infatti, l’assenza di ogni momento confessorio in pregiudizio del chiamante richiede necessari approfondimenti, estremamente più rigorosi, così da penetrare in ogni aspetto della dichiarazione, dalla sua causale all’efficacia rappresentativa della dichiarazione stessa (…).
Risulta invero ormai compiutamente delineata nella giurisprudenza di legittimità, in tema d’interpretazione del canone di valutazione probatoria fissato dall’art. 192, comma 3, cod. proc. pen., l’operazione logica conclusiva di verifica giudiziale della chiamata in correità, alla stregua della quale essa, perché possa assurgere al rango di prova pienamente valida a carico del chiamato ed essere posta a fondamento di un’affermazione di responsabilità, necessita, oltre che del positivo apprezzamento in ordine alla sua intrinseca attendibilità, anche di riscontri esterni, i quali debbono avere carattere ‘individualizzante’ per il profilo dell’inerenza soggettiva al fatto, cioè riferirsi ad ulteriori, specifiche, circostanze, strettamente e concretamente ricolleganti in modo diretto il chiamato al fatto di cui deve rispondere, non essendo lecito l’estendersi congetturale della valutazione nei confronti del chiamato sulla base di non consentite inferenze totalizzanti.
Con il lineare corollario che le accuse introdotte mediante dichiarazioni de relato, aventi ad oggetto la rappresentazione di fatti noti al dichiarante non per conoscenza diretta ma perché appresi da terzi, in tanto possono integrare una valida prova di responsabilità in quanto, oltre che intrinsecamente affidabili con riferimento alle persone del dichiarante e delle fonti primarie, siano sorrette da convergenti e individualizzanti riscontri esterni, in relazione al fatto che forma oggetto dell’accusa ed alla specifica condotta criminosa dell’incolpato, essendo necessario, per la natura indiretta dell’accusa, un più rigoroso e approfondito controllo del contenuto narrativo della stessa e della sua efficacia dimostrativa”.

3. la struttura e la prova del reato di corruzione.

Il reato di corruzione, nelle sue varie ipotesi, integra un reato a forma libera, plurisoggettivo, a concorso necessario, di natura bilaterale, fondato sul ‘pactum sceleris’ tra privato e pubblico ufficiale (o incaricato di pubblico servizio).
Si tratta di un illecito che si sostanzia in condotte convergenti, tra loro in reciproca saldatura e completamento, idonee ad esprimere, nella loro fisiologica interazione, un unico delitto.
Da ciò consegue che il reato si configura e si manifesta, in termini di responsabilità, solo se entrambe le condotte, del funzionario e del privato, in connessione indissolubile, sussistano probatoriamente e la perfezione dell’illecito avviene alternativamente con l’accettazione della promessa o con il ricevimento effettivo dell’utilità (…).
Ciò che deve essere processualmente accertato è se il pubblico ufficiale abbia accettato una utilità, se quella utilità sia collegata all’esercizio della sua funzione, al compimento di quale atto quella utilità sia collegata, se quell’atto sia o meno conforme ai doveri di ufficio.
In particolare, deve essere accertato il nesso tra l’utilità e l’atto da compiere o compiuto da parte del pubblico ufficiale, e se il compimento dell’atto sia stato la causa della prestazione e dell’accettazione da parte del pubblico ufficiale della utilità.
Costituisce infatti principio più volte ribadito nella giurisprudenza di legittimità, e che il Collegio condivide, quello secondo cui, ai fini dell’accertamento del reato di corruzione propria, nell’ipotesi in cui risulti provata la dazione di denaro o di altra utilità in favore del pubblico ufficiale, è necessario dimostrare che il compimento dell’atto contrario ai doveri di ufficio sia stato la causa della prestazione dell’utilità e della sua accettazione da parte del pubblico ufficiale, non essendo sufficiente a tal fine la mera circostanza dell’avvenuta dazione (…).
In linea con il dettato dell’art. 319 cod. pen., è infatti necessario dimostrare non solo la dazione indebita dal privato al pubblico ufficiale (o all’incaricato di pubblico servizio), bensì anche la finalizzazione di tale erogazione all’impegno di un futuro comportamento contrario ai doveri di ufficio ovvero alla remunerazione di un già attuato comportamento contrario ai doveri di ufficio da parte del soggetto munito di qualifica pubblicistica.
La prova della dazione indebita di una utilità in favore del pubblico ufficiale, quindi, ben può costituire un indizio, sul piano logico, ma non anche, da solo, la prova della finalizzazione della stessa al comportamento antidoveroso del pubblico ufficiale: è pertanto necessario valutare tale elemento unitamente alle altre circostanze di fatto acquisite al processo, in applicazione della previsione di cui all’art. 192, comma 2, cod. proc. pen., secondo cui ‘l’esistenza di un fatto non può essere desunta da indizi a meno che questi siano gravi, precisi e concordanti’.
Queste conclusioni sono tanto più evidenti quando la dazione dell’utilità sia asseritamente corrisposta ad un terzo”.

Redazione Giurisprudenza Penale

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