ARTICOLIDelitti contro la personaDIRITTO PENALEParte speciale

Stalking : sufficiente il dolo generico per integrare il reato – Cass. Pen. 20993/2013

Cassazione Penale, Sez. V, 15 maggio 2013 (ud. 27 novembre 2012), n. 20993
Presidente Zecca, Relatore Guardiano, P. G. Gaeta

Massima

Il delitto di atti persecutori è reato abituale di evento, per la cui sussistenza, sotto il profilo dell’elemento soggettivo, è sufficiente il dolo generico, il quale è integrato dalla volontà di porre in essere le condotte di minaccia e molestia nella consapevolezza della idoneità delle medesime alla produzione di uno degli eventi alternativamente previsti dalla norma incriminatrice.

Il commento

Lo scorso maggio la Cassazione è nuovamente tornata sullo stalking, con una pronuncia che ha avuto riguardo all’elemento psicologico del delitto.
La sentenza n. 20993 del 15 maggio 2013 della Suprema Corte ha riguardato il caso di un uomo condannato, sia dal Tribunale che dalla Corte di Appello, per gli atti persecutori posti in essere nei confronti della donna cui, in precedenza, era legato da una relazione affettiva. Nel corso del processo la difesa dello stalker è stata basata sulla non configurabilità del reato contestato, ex art. 612-bis c.p. per l’assenza, nell’imputato, di un dolo specifico e di uno scopo predeterminato. A seguito del ricorso proposto da quest’ultimo, i Giudici di Legittimità sono, invece, pervenuti ad una decisione di rigetto dell’impugnazione, precisando, a chiare lettere, che l’elemento soggettivo del reato in parola è integrato dal c.d. dolo generico, sicuramente ricorrente nell’uomo.
Per dolo generico s’intende la mera volontà di porre in essere le condotte di minaccia o di molestia, con la consapevolezza dell’idoneità delle medesime a produrre nella vittima, uno dei seguenti eventi : o un grave e perdurante stato di turbamento emotivo, o un fondato timore per l’incolumità propria, di un prossimo congiunto o di una persona legata alla vittima da una relazione affettiva, ovvero, ancora, la costrizione ad alterare le abitudini di vita della medesima vittima.
Per la Cassazione, dunque, non occorre che lo stalker si rappresenti anticipatamente il risultato finale del danno arrecato alla vittima, essendo sufficiente che sia consapevole della serie di attacchi e di aggressioni che, in maniera perdurante, pone in essere nei confronti della persona offesa. Volontà e consapevolezza che – per la Corte – risultano dimostrate proprio dalle modalità ripetute ed ossessive della condotta persecutoria realizzata e dalle conseguenze che ne sono derivate sulla vita della persona offesa. Nella specie, in particolare, la condotta dell’uomo era consistita in una pesante interferenza nella vita privata della donna, in quanto, con assillante insistenza ed ossessiva ripetitività, effettuava telefonate frequentissime, massicci invii di sms, appostamenti, pedinamenti, scenate di gelosia, ne impediva le frequentazioni sociali e si intrometteva, sin’anche, nel privato di persone vicine alla vittima. Condotte, queste, perpetrate nel tempo, senza soluzione di continuità, costringendo la donna a stravolgere le sue abitudini di vita: per sfuggire alla persecuzione, era stata costretta a utilizzare percorsi diversi da quelli usuali per gli spostamenti, si asteneva dal compiere attività che solitamente compiva, staccava gli apparecchi telefonici negli orari notturni.
A proposito del reato di stalking, l’art. 612-bis c.p. dispone che: «Salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione da sei mesi a quattro anni chiunque, con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita. La pena è aumentata se il fatto è commesso dal coniuge legalmente separato o divorziato o da persona che sia stata legata da relazione affettiva alla persona offesa. La pena è aumentata fino alla metà se il fatto è commesso a danno di un minore, di una donna in stato di gravidanza o di una persona con disabilità di cui all’articolo 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, ovvero con armi o da persona travisata. Il delitto è punito a querela della persona offesa. Il termine per la proposizione della querela è di sei mesi. Si procede tuttavia d’ufficio se il fatto è commesso nei confronti di un minore o di una persona con disabilità di cui all’articolo 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, nonché quando il fatto è connesso con altro delitto per il quale si deve procedere d’ufficio».
L’orientamento della Suprema Corte, peraltro conforme a suoi precedenti,  è senz’altro volto a garantire quelle libertà di cui la Costituzione parla e di cui la Corte di Cassazione si fa difenditrice, nella sua funzione nomofilattica delle leggi.
I principi espressi dagli artt. 2, 3, 13, 14, 15, 16, 17, 18, 19, 21, 24, 25, 29, 30 e 32 della Costituzione, rappresentano le basi di un ordinamento democratico in cui i diritti inviolabili o personalissimi sono riconosciuti a tutti, senza eccezione, in cui la dignità di ogni singolo rappresenta un valore di scambio extra commercium, uno Stato dove la libertà personale è inviolabile così come pure inviolabili sono il domicilio e la corrispondenza; dove a tutti è consentito di circolare e soggiornare liberamente ed ai cittadini è riconosciuto il diritto di riunirsi e di associarsi pacificamente, senza armi e per scopi non vietati dalla legge penale; dove è consentito professare la propria fede religiosa e manifestare liberamente il proprio pensiero; dove tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e dove nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge. Uno Stato, infine, dove la famiglia è tutelata come valore sacro e dove i figli sono custoditi come sua necessaria e logica conseguenza e dove il diritto alle cure mediche appartiene a tutti, non per ultimi i poveri ed i meno abbienti.
Valori di così elevato rango, richiedevano e richiedono tutt’ora un organo di controllo che si può identificare nella Suprema Corte di Cassazione e nella Corte Costituzionale, unici giudici  in Italia, le cui pronunce sono autorevoli al punto da suggerire un modus agendi al Parlamento o al Consiglio dei Ministri, nell’attuazione di una politica più rispondente ai bisogni dei cittadini.
In effetti, il reato di atti persecutori è caratterizzato da una particolare riprovevolezza, in quanto lo stalker è perfettamente conscio del fastidio che arrecherà alla vittima con il suo comportamento, ma ciò nonostante lo pone in essere, mostrando disprezzo per la quotidianità di lei e per tutti i valori sanciti dalla Costituzione. Davvero non si possono trovare scuse nel fatto di chi sentendosi ripudiato, fa del ripudio un’arma, una condotta sistematica con la quale fa vivere nella paura la sua vittima.
Da condividere il giudizio della Corte sull’elemento psicologico del reato: è di certo un comportamento che presenta le caratteristiche del dolo, sebbene lo si possa diversamente qualificare in funzione del comportamento attuato.
Per la letteratura penalistica il dolo generico è quel particolare fattore psicologico in base al quale chi agisce non è perfettamente sicuro di ciò che accadrà, ma ciò nonostante pone in essere ugualmente la condotta delittuosa, per cui alla base quanto meno c’è un errore di valutazione dell’agente che non causerebbe nulla se tale rimanesse – un proposito inattuato – ma così non è dal momento che il reo quando si rende conto di sbagliare, persevera nell’illecito, anche con maggiore veemenza.
La punibilità degli atti persecutori, rappresenta allo stato dell’arte un problema serio, perché la sua valutazione dipende inscindibilmente dal danno causato alla vittima e dal modo col quale questa l’ha percepito. Non è escluso che una diversa valutazione – lontana questa volta dal paradigma del dolo generico – sarà possibile se un reato del genere fosse commesso nei confronti di una persona la quale avesse, in conseguenza dell’illecito, problemi così gravi da menomarne le sue capacità affettive, quasi che la vittima avesse una repulsione violenta verso il panorama maschile, in conseguenza delle violenza subite. Se così fosse si tratterebbe a tutti gli effetti di un danno biologico od esistenziale, cui competerebbe ad opera del giudice diversa e più stringente valutazione.
Infatti, il continuo invio di sms, l’appostarsi con l’auto sotto casa della vittima, il pedinarla, prima di essere percepite come vere e proprie violenze sono tutte indebite intromissioni nella sfera di lei che altro non fanno che infastidire la vittima al punto da costringerla a mutare le proprie abitudini.
E’ quindi caratterizzato dalla suitas il comportamento dello stalker ed è diversamente valutabile, essendo possibile allo stesso tempo la configurazione, di un dolo alternativo, di un dolo diretto o di un dolo eventuale, ma anche di una colpa cosciente o di una semplice negligenza, imprudenza, imperizia.
Giova ricordare che : « il delitto è doloso o secondo l’intenzione, quando l’evento dannoso o pericoloso che è il risultato  dell’azione o dell’omissione e da cui la legge fa dipendere l’esistenza del delitto è dall’agente preveduto e voluto come conseguenza della propria a azione od omissione » (cit. art. 43 co. 1, c.p.).
Nell’ambito del genus dolo, il dolo intenzionale o di proposito o d’impeto, rappresenta la carica psichica più intensa che si verifica quando l’agente non solo si rappresenta il delitto che intende commettere, ma agisce anche nel senso di favorirne la sua causazione: c’è quindi non solo conoscenza e volontà di commettere un delitto, ma anche conoscenza e volontà dei mezzi per attuarlo.
Noto è anche il dolo alternativo, che si verifica quando l’agente, nel commettere il delitto si raffigura l’evento accettando, alternativamente, l’uno o l’altro degli epiloghi previsti.
Il dolo diretto rappresenta poi un’antitesi rispetto al dolo alternativo, in quanto qui l’agente si raffigura e persegue il suo proposito delittuoso, senza preoccuparsi minimamente delle conseguenze dipese dalla sua condotta.
Più discusso è il dolo eventuale e l’accostamento che in dottrina si fa rispetto alla figura della colpa cosciente. Nel dolo eventuale, l’agente si raffigura un certo evento ed agisce nonostante il pericolo che esso si verifichi, laddove nella colpa cosciente c’è una ragionevole probabilità d’impedirlo – nonostante la rappresentazione – dovuta o particolari capacità dell’agente o a sue conoscenze superiori alla norma.
Secondo la dottrina tradizionale (Antolisei) la colpa cosciente ricorre quando l’agente ha previsto l’evento antigiuridico ma non lo ha voluto, perché sorretto dalla “fiducia” che esso non si sarebbe verificato. Altra dottrina (Bettiol) ritiene, invece, che la colpa cosciente sia caratterizzata dalla “speranza” che l’evento previsto non si verifichi. Altri ancora (Delitala) ritengono, infine, necessaria la convinzione dell’agente che l’evento, malgrado la previsione, non si verificherà.
Bisogna tenere presente che, quando si parla di dolo è necessario, ai fini di una giusta composizione della fattispecie,  non solo che l’agente abbia voluto l’evento, avendo di esso una certa rappresentazione, ma anche che abbia conosciuto tutti gli elementi caratterizzanti il tipo di delitto che intendeva commettere, così da permettere una gradazione dell’elemento psichico ed una diversa commisurazione della pena.