CONTRIBUTIDIRITTO PENALE

Dichiarazione fraudolenta mediante utilizzo di fatture soggettivamente inesistenti: discrasia tra committente e effettivo beneficiario della prestazione

in Giurisprudenza Penale Web, 2020, 7-8 – ISSN 2499-846X

Cassazione Penale, Sez. III, 1 aprile 2020 (ud. 12 novembre 2019), n. 10916
Presidente Lapalorcia, Relatore Rosi

1. Con la sentenza n. 10916/2020, Sez. III, 12/11/2019, la Cassazione si pone (e risolve) il tema della configurabilità del delitto ex art. 2, D.lgs.vo n. 74/2000 nelle ipotesi in cui esista discrasia soggettiva tra il committente della prestazione di servizi (destinatario e percipiente della prestazione e che come tale compare in fattura come tale) e  l’effettivo beneficiario della prestazione (soggetto che, in questo caso, non coincide con il committente formale e che non figura in fattura). Il caso deciso concerne, nello specifico, operazioni (eminentemente edilizie e di ristrutturazione) ove la fattura spiccata da parte della impresa edile esecutrice era emessa non a carico – ed a debito – dell’effettivo committente – ma nei confronti di un committente solo formale, che nonostante avesse effettivamente saldato il prezzo delle fatture, non era risultato essere l’effettivo beneficiario della prestazione di servizi. Tale distopia soggettiva, a ben vedere, ha natura necessariamente trilatera : l’effettivo beneficiario della prestazione (che non compare nel documento contabile emesso dall’esecutore) è consapevole che non sarà tenuto alla corresponsione del prezzo, nonostante benefici direttamente dell’opera; il committente apparente conosce della propria obbligazione di corrispondere il prezzo, conoscendo altresì che non beneficherà della prestazione; l’esecutore della prestazione conoscerà necessariamente che non al committente apparente dovrà la prestazione, ma a soggetto diverso che non sarà tenuto al corrispettivo.

Si richiedeva di confermare o meno l’impalco accusatorio che ravvedeva – in tale discrasia – integrato il delitto di dichiarazione fraudolenta mediante utilizzo di fatture soggettivamente inesistenti : “E’ punito con la reclusione da quattro a otto anni chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, avvalendosi di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, indica in una delle dichiarazioni relative a dette imposte elementi passivi fittizi; 2. Il fatto si considera commesso avvalendosi di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti quando tali fatture o documenti sono registrati nelle scritture contabili obbligatorie, o sono detenuti a fine di prova nei confronti dell’amministrazione finanziaria”.

Ai sensi dell’art. 1, lett. a) del D. L.vo : “per «fatture o altri documenti per operazioni inesistenti ” si intendono le fatture o gli altri documenti aventi rilievo probatorio analogo in base alle norme tributarie, emessi a fronte di operazioni non realmente effettuate in tutto o in parte o che indicano i corrispettivi o l’imposta sul valore aggiunto in misura superiore a quella reale, ovvero che riferiscono l’operazione a soggetti diversi da quelli effettivi»”; la Sentenza, superando gli assunti difensivi dei ricorrenti, afferma che “le fatture soggettivamente inesistenti sono quelle caratterizzate dalla divergenza tra la rappresentazione documentale e la realtà attinente ad uno dei soggetti che intervengono nell’operazione”: quindi l’inesistenza ricorre ogni qualvolta ci sia un’interposizione fittizia di una qualsiasi delle parti effettive dell’operazione contrattuale.

2. Veniva quindi richiamata la definizione di operazione soggettivamente inesistente contenuta in altro arresto di legittimità : “l’operazione non realmente intercorsa tra i soggetti che figurano quale emittente e percettore della fattura ”, ove “la diversità può riguardare chi abbia emesso il documento ma non abbia in realtà effettuato alcuna prestazione, ovvero il caso in cui essa [la prestazione]sia stata effettuata non in favore di colui che risulta destinatario del documento fiscale : in tal caso la diversità riguarda il destinatario della fattura, che quindi la utilizza pur non essendo committente, né beneficiario di alcuna prestazione, annotando nella contabilità i costi sostenuti ed i crediti d’IVA senza che ciò corrisponda ad una operazione realmente intercorsa tra le parti: il beneficiario reale della prestazione è un altro (Sez. III, n. 10394 del 14/1/2010, Gerotto, Rv. 246327), mentre nel documento è indicato un soggetto che non ha preso parte all’operazione economica. Quando la falsità ha ad oggetto l’indicazione dei soggetti tra i quali è intercorsa l’operazione (“soggetti diversi da quelli effettivi”, cfr. Sez.3, n. 27392 del 27/04/2012, P.M. in proc. Bosco e altro, Rv. 253055), viene integrato il reato di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti”.

I ricorrenti – nel caso de quo – avevano tentato di confutare il principio di diritto espresso supra, con altro precedente a mente del quale il delitto ex art. 2 D.Lg.vo “presuppone che uno dei soggetti dell’operazione sia rimasto del tutto estraneo alla stessa, nel senso di non aver assunto, nella realtà, la qualità di committente o cessionario della merce o del servizio ovvero di erogatore o percettore dell’importo della relativa prestazione, mentre, laddove l’operazione sia realmente intercorsa tra i soggetti che figurano quali emittente e percettore della fattura, e tuttavia quest’ultima riguardi operazioni diverse, viene ad integrarsi la diversa fattispecie criminosa della dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici (così Sez. III, n. 3203/09 del 6/11/2008, Cavalli, Rv. 242281)”.

L’orientamento evocato dalla difesa trova suo fondamento in precedenti resi dalle Sezioni Civili della Suprema Corte, secondo cui “nel caso in cui il destinatario della fattura abbia adempiuto al pagamento della prestazione, seppure effettuata in vantaggio o su richiesta di altri, va escluso il carattere fittizio degli elementi passivi indicati nella dichiarazione dei redditi in forza della concretezza di tale esborso, senza che sia rilevante la circostanza che il destinatario delle fatture sia un soggetto diverso dal committente/beneficiario della prestazione.” Nella fattispecie affrontata in sede civile, la Corte esclude irregolarità perché il soggetto che concretamente sopporta il costo dell’operazione è quello che provvede al relativo scomputo dal proprio reddito complessivo ai fini del calcolo della base imponibile, elemento rilevante per le imposte dirette ; restano però valide le regole generali in tema di deduzione dei componenti negativi del reddito (previste dal Testo Unico per le imposte dirette, D.P.R. 917/1986), secondo le quali la concreta deducibilità del costo è, in ogni caso, subordinata alla verifica dei requisiti generali di effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza o determinabilità. Si rileva come la cennata esegesi civile era resa in casi di frodi carosello, di quegli schemi fraudolenti , cioè, in cui la distopia soggettiva attiene all’emittente della fattura e non già al committente della prestazione, come nel caso affrontato in Sentenza.

Ed infatti : “la partecipazione alla frode carosello o la mera consapevolezza della stessa, da parte del cessionario (committente), non determina “ex se” il venire meno dell’ “inerenza” all’attività d’impresa del bene di cui all’operazione soggettivamente inesistente e non ne esclude, pertanto, la deducibilità, dovendosi tenere distinti gli effetti della condotta del contribuente in relazione alla disciplina dell’ IVA e a quella delle imposte dirette, atteso che, nel primo caso, la condotta dolosa o consapevole del cessionario, a cui è parificata l’ignoranza colpevole, impedisce l’insorgenza del diritto alla detrazione per mancato perfezionamento dello scambio, non essendo l’apparente cedente l’effettivo fornitore, mentre, ai fini delle imposte dirette, l’illecito o la mera consapevolezza di esso non incide sulla realtà dell’operazione economica e sul pagamento del corrispettivo in cambio della consegna della merce, per cui il costo dell’operazione, […] può concorrere nella determinazione della base imponibile ai fini delle imposte dirette nella misura in cui il bene o servizio acquistato venga reimpiegato nell’esercizio dell’attività d’impresa e sempre che non venga utilizzato per il compimento di un delitto non colposo” (Cass. Civ., Sez. V, n. 13803 del 18/06/2014, Rv. 631555).

Quindi, in relazione alle imposte dirette (IRFEF ed IRES), l’inesistenza soggettiva dell’operazione non inficia il diritto alla deduzione dei costi del soggetto che concretamente li sopporta e non determina, di conseguenza, l’inesistenza dell’operazione ai fini dell’integrazione del delitto previsto dall’art. 2 del D.L.vo; resta salva, ovviamente, la non invocabilità di tale principio esimente in caso di operazioni oggettivamente inesistenti le quali determinano l’illiceità della prestazione per ogni tipologia di tributo (Cass. Civ., Sez. V, n. 33915 del 19/12/2019, Rv. 656602).

Diversamente, secondo la Sentenza, nel caso delle imposte indirette (IVA), la discrasia tra committente ed effettivo beneficiario della prestazione impedisce il diritto alla detrazione – in capo al primo –  di quel tributo, configurandosi in tal caso un’operazione inesistente penalmente rilevante. Argomento valorizzato in Sentenza è che l’imposta deve essere versata a chi ha effettuato prestazioni imponibili (il cedente o prestatore) e non può essere portata in detrazione a fronte di una prestazione non ricevuta (D.P.R. n. 633 del 1972, artt. 17 e 18).

Può esser utile qui qualche rilievo sulla natura dell’imposta in esame: l’ IVA è imposta plurifase non cumulativa sul valore aggiunto (applicata quindi si, ad ogni fase del ciclo produttivo-distributivo, ma solo sulla differenza tra l’imposta sulle operazioni attive e quella sugli acquisti) e soprattutto neutrale; l’ammontare dell’imposta complessivamente versata all’Erario è sempre identico a prescindere dal numero di transazioni intervenute nel processo di produzione e di distribuzione antecedente alla fase di imposizione; la neutralità è assicurata dal corretto funzionamento del binomio “rivalsa-detrazione”.

L’art. 18 del D.P.R. stabilisce che il soggetto che effettua la prestazione dei beni o la cessione di servizi deve addebitare la relativa imposta a titolo di rivalsa al cessionario o committente; quest’ultimo, ha il diritto di detrarre l’imposta che su di lui grava a titolo di rivalsa da quella incamerata sulle operazioni attive: l’imposta, come è noto, potrà essere detratta solo se inerente all’esercizio delle attività d’impresa, arte o professione esercitata dal soggetto passivo (art. 19 D.P.R.).

La Sentenza in commento, inoltre, valorizza l’art. 21, comma 7, D.P.R., che garantisce all’Erario la possibilità di pretendere il tributo indiretto da chi abbia emesso fattura, senza che questi possa contestare il presupposto impositivo nel caso di operazione oggettivamente inesistente (cioè la sussistenza del debito d’IVA) proprio sulla base dell’inesistenza di esso, ossia della “mancata effettuazione” dell’operazione; “tale norma non solo individua il soggetto emittente come debitore d’imposta (per specifica e tassativa fonte normativa, anziché secondo i principi generali a seguito della operazione realmente effettuata) sulla base dell’applicazione del mero principio di cartolarità, ma incide – indirettamente, in combinato disposto con gli artt. 19, comma 1, e 26, comma 3 del cit. D.P.R. – anche sul destinatario (apparente) della fattura medesima, il quale non può esercitare il diritto alla detrazione o alla variazione dell’imposta in totale carenza del presupposto, e cioè dell’effettivo acquisto od importazione di beni e servizi nell’esercizio dell’impresa, arte o professione.”

In sintesi il versamento dell’imposta ad un soggetto diverso da quello effettivo, come contestato nel caso de quo, determinerebbe un recupero indebito dell’IVA.

3. La Sentenza in commento, in fin dei conti, sulla scorta delle cennate argomentazioni, bolla di vetustà l’orientamento dedotto dalla difesa dei ricorrenti e indica diversi arresti esegetici che, a suo giudizio, fanno ritenere superato l’isolato precedente citato dalle difese; tra questi : Cass. Pen., Sez. III, n. 20353 del 17/3/2010, Bizzozzero e altro, Rv. 247110; Cass. Pen., Sez., III., n. 19012 del 11/2/2015, Spinelli e altro, Rv. 263745; Cass. Pen., Sez., III, n. 34534 del 21/4/2017, Matracchi, Rv. 270962; Cass. Pen., Sez. III, n. 49806 del 18/5/2018, Scaletta, Rv. 274744; Cass. Pen., Sez., III, n. 53319 del 28/9/2018, Tarquini, Rv. 275178.

Altro precedente citato in Sentenza a confutazione dell’arresto civilistico è quello secondo cui: “l’intero meccanismo dell’Iva poggia sul presupposto che il tributo sia versato a chi ha eseguito prestazioni imponibili (che a sua volta potrà compensarla con l’ IVA corrisposta per l’acquisto di beni e di servizi) mentre il versamento dell’ IVA a un soggetto non operativo apre la strada al recupero indebito dell’imposta stessa, trova riscontro anche nella giurisprudenza comunitaria. La Corte di giustizia (sentenze n. 78/2003, cause C- 78/02 e C- 79/02, e n. 566/2009, causa C-566/07) ha sottolineato che l’avvenuta fatturazione di un’operazione con applicazione dell’ IVA mediante addebito alla controparte non è elemento assorbente per stabilire che il tributo resti definitivamente dovuto, in quanto tale effetto discende dalla ricorrenza delle condizioni oggettive e soggettive per l’applicazione dell’imposta medesima, rispetto alle quali l’addebito, isolatamente considerato, “non ha che una valenza indicativa del comportamento tenuto dal soggetto passivo”. [In sintesi ] si può stabilire che l’imposta si applica sulle operazioni che oggettivamente e soggettivamente sono comprese nella sfera di applicazione del tributo; di qui nasce l’obbligo della rivalsa (cioè dell’addebito), in mancanza del quale non può sorgere nella controparte il potere di esercitare la detrazione. Per la realizzazione dello schema attuativo dell’IVA nel suo complesso l’addebito è necessario ma non sufficiente. La soggezione di un’operazione ad IVA , peraltro, non dipende dall’addebito (altrimenti basterebbe ometterlo – o effettuarlo – per condurre l’operazione stessa fuori dal – o rispettivamente dentro il – campo applicativo dell’imposta) ma esclusivamente dalla ricorrenza delle condizioni normative (desunte da direttive comunitarie e legislazione interna) che riguardano gli elementi oggettivo e soggettivo. Pertanto, non è possibile assegnare all’avvenuto addebito dell’imposta un’efficacia sostitutiva della ricorrenza delle condizioni normative, né l’esercizio della rivalsa costituisce prova certa dell’appartenenza dell’operazione al campo di applicazione dell’Iva, ma, al più, semplicemente un elemento indiziario che denota la convinzione delle parti in buona fede di dover ricondurre lo schema contrattuale della cessione o della prestazione all’interno di quel campo. In conclusione, non v’è perfetta simmetria tra pagamento dell’ IVA e diritto al rimborso. Pertanto esporre dati fittizi anche solo soggettivamente significa creare premesse per un rimborso al quale per il principio dianzi esposto non si ha diritto” (Cass. Pen., Sez. III, del 11/2/2015, n. 19012).

A maggior sostegno alle ragioni d’Accusa, la Sentenza ha rilevato che nel caso oggetto del suo esame le fatture oltre ad essere soggettivamente inesistenti, erano anche in parte oggettivamente inesistenti: qualunque discrasia tra le indicazioni fattuali contenute nel documento e l’operazione effettuata configura una inesistenza soggettiva, ed infatti le fatture attestavano falsamente che i lavori erano stati svolti presso immobili delle società di capitali, destinatarie dei documenti fiscali, mentre erano stati eseguiti presso gli immobili di proprietà personale di uno degli imputati (B.D.) e del coniuge, con conseguente divergenza dalla realtà del luogo della prestazione e della causale, ossia dell’oggetto degli interventi di ristrutturazione : “[…] nel processo è risultato provato che le operazioni fatturate alle società intercorsero in realtà tra soggetti diversi e con causali, modalità, oggetti e luoghi diversi da quelli indicati nelle fatture, le quali di conseguenza sono “false” sotto il profilo sia oggettivo che soggettivo, per cui le stesse non possono costituire per il contribuente, sotto il profilo del diritto tributario, titolo ai fini del diritto alla detrazione dell’IVA e alla deduzione dei costi”.

Dunque, sulla scorta di tale ragionamento la Cote giunge a ritenere entrambe le imposte indetraibili ed indeducibili.

Altra argomentazione difensiva afferiva alla derubricazione del fatto contestato nella fattispecie prevista dall’art. 3 del Decreto legislativo “Dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici”,  poiché, nel caso de quo, la fatture sarebbero da ricondursi nell’alveo  delle operazioni “simulate oggettivamente o soggettivamente ”.

La Sentenza censurava tale assunto ribandendo l’esistenza di un rapporto di specialità tra gli artt. 2 e 3 del Decreto Legislativo, in cui il discrimen non risiede nella natura dell’operazione bensì nel modo in cui essa viene documentata [1] . In ragione della particolare efficacia probatoria della fattura, le condotte di falsificazione aventi ad oggetto quest’ultima sono connotate da una maggiore decettività, e dunque appare giustificata – coerentemente con il sistema codicistico dei delitti di falso che calmiera i massimi edittali in base alla tipologia di documento oggetto di falsificazione – la maggior gravità del reato previsto dall’art. 2 del Decreto Legislativo.  La Sentenza approva la sussunzione – operata nei primi due gradi di giudizio – del contegno degli imputati sotto la fattispecie di tal ultimo delitto, in quanto oggetto la immutatio veri aveva avuto ad oggetto le fatture, indipendentemente dalla qualificazione delle operazioni in esse rappresentate.

4. Infine, la Sentenza si esprime anche sul dolo specifico che sorregge la fattispecie in esame , intento di “di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto” ; questo è comprensivo “anche del fine di conseguire un indebito rimborso o il riconoscimento di un inesistente credito d’imposta”. “Il ricorrente, avendo predisposto il sistema di pagamento, a carico delle società alla stessa riferibili, dei lavori di ristrutturazione di numerosi beni soprattutto immobili, di proprietà personale, con conseguente falsa fatturazione di detti lavori, rende evidente che la stessa non voleva solo addebitare i costi di ristrutturazione alle società riferibili alla B. (risparmiando esborsi dal patrimonio finanziario personale), ma aveva dato incarico di predisporre le basi documentali per costruire inesistenti crediti IVA e costi deducibili a vantaggio di tali società, mediante l’annotazione delle fatture nelle contabilità, ciò che ha inciso concretamente nella veridicità della dichiarazione fiscale e nei saldi d’IVA, da corrispondere, rectius, da non corrispondere all’Erario”. “Le sentenze di merito hanno stabilito che il meccanismo fraudolento era concertato per consentire la deducibilità dell’ IVA e dei costi sostenuti alle società del gruppo B., accumulando un fittizio credito IVA, a fronte di lavori effettuati su committenza di una persona fisica e su beni personali della stessa, rispetto ai quali l’ IVA da corrispondere era invece un costo integrale per le finanze private e non avrebbe potuto costituire un credito da poter portare in compensazione, né i costi sostenuti avrebbero potuto essere dedotti quali elementi passivi nella dichiarazione dei redditi della persona fisica”.

In ordine alla censura difensiva secondo cui lo scopo del meccanismo fraudolento di fatturazione mirasse unicamente a porre a carico delle società spese personali della ricorrente, la Corte osservava “il dolo specifico costituito dal fine di evadere le imposte, che concorre ad integrare il reato di cui all’art. 2 del D.Lgs. n. citato, sussiste anche quando ad esso si affianchi una distinta ed autonoma finalità extra evasiva”.

La Cassazione non si sofferma, come pur sarebbe stato legittimo attendersi, sull’accertamento della sussistenza dell’elemento psicologico del dolo specifico di evadere le imposte o di conseguire un indebito rimborso o credito d’imposta ; sembra, invero, che ne venga presunta l’esistenza in virtù di un risparmio d’imposta o di un indebito rimborso conseguito ex post. La Sentenza, sotto tale profilo, ha mancato, di fatto, l’occasione per pronunciarsi quantomeno sui criteri relativi accertamento dell’elemento psicologico richiesto dal delitto in questione.


[1] Rapella G. “La Cassazione in tema di reati tributari dichiarativi : la nozione di operazioni soggettivamente inesistenti e il regime della (in)deducibilità di costi e spese inerenti al reato ” in Sistemapenale.it

Come citare il contributo in una bibliografia:
C. Zaccagnini, Dichiarazione fraudolenta mediante utilizzo di fatture soggettivamente inesistenti: discrasia tra committente e effettivo beneficiario della prestazione, in Giurisprudenza Penale Web, 2020, 7-8