ARTICOLIDIRITTO PENALE

No alla estradizione verso il Brasile: c’è il pericolo di subire violazione dei diritti fondamentali della persona

Cassazione Penale, Sez. VI, 18 novembre 2013 (ud. 15 ottobre 2013), n. 46212
Presidente Milo, Relatore Conti

Depositata il 18 novembre scorso la pronuncia numero 46212 della sesta sezione penale in tema di estradizione.
Questi i fatti: la Corte di Appello aveva ritenuto sussistenti le condizioni per la estradizione verso la Repubblica del Brasile di un cittadino olandese per l’esecuzione della pena di diciassette anni, sei mesi e un giorno di reclusione pronunciata dal Tribunale Federale di Espirito Santo per il reato di traffico di sostanze stupefacenti. In particolare, osservava la Corte di Appello che non poteva costituire ostacolo ad essa la denunciata condizione strutturale degli stabilimenti carcerari brasiliani come implicante di per sè la sottoposizione dei detenuti a trattamenti crudeli, disumani e degradanti, tale da costituire una violazione dei diritti fondamentali del condannato, perchè, in primo luogo, dalla documentazione prodotta (in particolare quella dal sito Internet di Amnesty International) risultava che la denunciata situazione riguardava episodi occasionali e non aspetti considerabili come connotativi di una generale condizione dei detenuti in Brasile; in secondo luogo, il divieto di estradizione di cui all’art. 705 c.p.p., comma 2, lett.c), per costante giurisprudenza, riguarda ipotesi in cui simili trattamenti derivino da una scelta normativa o di fatto dello Stato richiedente, che non ricorreva nel caso in esame, tanto più che il Ministro della Giustizia di quel Paese aveva in data 15 maggio 2011 adottato una risoluzione per l’adozione di un piano di emergenza finalizzato all’impiego di risorse idonee a risolvere le carenze del trattamento carcerario brasiliano.
Ricorre personalmente per Cassazione l’estradando deducendo la violazione dell’art. 698 c.p.p., comma 1, art. 705 c.p.p., comma 2, lett. c), art. 5, lett. b) del Trattato di estradizione Italia- Brasile firmato a Roma il 17 ottobre 1989, 3 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, e il vizio di motivazione, in punto di mancata considerazione, come dato ostativo alla estradizione verso il Brasile, della cronica, costante e generalizzata violazione dei diritti umani sistematicamente perpetrata nelle carceri di quel Paese, ove vi è una condizione di sovraffollamento spaventoso nell’ambito di edifici fatiscenti e malsani, non sono assicurate le minime condizioni igieniche e di assistenza sanitaria in un contesto di diffusione di malattie infettive quali tubercolosi, affezioni dermatologiche e AIDS, ove i detenuti, spesso costretti a dormire sul pavimento e privi di aria, luce e servizi igienici, sono per di più frequentemente sottoposti ad atti di violenza fisica condotti fino allo stupro o all’uccisione e derubati dei loro averi da parte di bande criminali interne e perfino di guardie carcerarie diffusivamente corrotte e comunque assolutamente inadeguate numericamente a fare fronte alla pandemica violenza regnante negli istituti, ove viene inoltre spesso praticata la tortura, il tutto come attestato da numerosi studi di autorevoli studiosi e dai rapporti annuali di accreditate e affidabili istituzioni non governative quali Amnesty International e Human Rights Watch.
Inoltre – si osserva nel ricorso – è paradossale che la sentenza impugnata adduca come argomento contrario alle deduzioni difensive il fatto che anche l’Italia ha subito una condanna dalla Corte EDU per il sovraffollamento carcerario, poichè la situazione italiana è lontanissima dalla endemica condizione di illegalità e di abbandono in cui versano le prigioni brasiliane.

La Corte ha ritenuto il ricorso fondato.
In primo luogo si osserva come più volte sia stato espresso il principio secondo cui la condizione ostativa alla estradizione collegata alla violazione dei diritti fondamentali deve derivare da una scelta normativa o solo di fatto dello Stato richiedente, e non da mere iniziative estemporanee da parte di apparati pubblici agenti a titolo personale ed estemporaneo (ex plurimis, Sez. 6, n. 21985 del 24/05/2006, Radnef, Rv. 234767; Sez. 6, n. 10106 del 27/10/2005, dep. 2006, Aradi, Rv. 233856; Sez. 6, n. 26900 del 26/04/2004, Martinez, Rv. 229172; Sez. 6, n. 3702 del 18/11/1998, dep. 1999, Frederik, Rv.212256).
In applicazione di questo principio, si è ad esempio in un caso negata l’estradizione verso la Repubblica della Turchia in presenza di un documentato e generalizzato impiego da parte delle forze di polizia di sistematici atti di violenza fisica o comunque di maltrattamenti nei confronti dei detenuti, evidentemente sul presupposto che ciò fosse tollerato dalle autorità di quel Paese (v. Sez. 6, n. 32685 del 08/07/2010, Seven, Rv. 248002).
Anche a livello sovranazionale, la Corte EDU si è più volte pronunciata in relazione alla analoga previsione dell’art. 3 Cost., da cui si è ricavato che è fatto divieto a uno Stato aderente alla Convenzione Europea dei Diritti Umani di disporre la estradizione o la espulsione di individui esposti al rischio di subire nel Paese di destinazione simili trattamenti (sent. 11/01/2007, Salah Sheekh c. Paesi Bassi) con la precisazione che il divieto sussiste anche qualora tali condotte siano poste in essere da privati, qualora il Paese di destinazione le tolleri, non avendo posto in essere misure adeguate allo scopo di prevenirle (sent. da ultimo cit.; nonchè, fra le altre, sent. 02/05/1997, D. c. Regno Unito).
Naturalmente, poichè in gran parte dei casi non ricorre, per intuibile ragioni, una previsione a livello normativo che possa autorizzare o addirittura imporre in un determinato Paese simili trattamenti contrari ai diritti umani, è appunto a una situazione di fatto, che non sia episodica, ma sia apprezzabilmente consolidata, conosciuta e tollerata dagli organi dello Stato di destinazione, cui occorre fare riferimento per verificare se sussista un impedimento alla estradizione.

Nel caso di specie – osserva la Corte –  risulta dai rapporti di varie fonti non governative, quali Amnesty International e Human Rights Watch, che la situazione delle carceri brasiliane è da tempo endemicamente caratterizzata, soprattutto in alcuni distretti statali – tra i quali quello di Espirito Santo, che interessa specificamente la presente procedura – dalla pratica della violenza e della sopraffazione nei confronti dei detenuti ad opera sia di bande criminali interne, conosciute e tollerate dalle autorità carcerarie, sia degli stessi agenti di custodia; il tutto nell’ambito di una condizione strutturale di fatiscenza e inadeguatezza degli edifici carcerari che è causa di vistose condizioni di sovraffollamento e di carenze igieniche sanitarie, tali da favorire la propagazione di gravi malattie infettive.
Incomprensibile, del resto, il rilievo espresso dalla Corte di Appello secondo cui anche l’Italia è stata “sanzionata per la situazione in cui si trovano le carceri nel nostro paese”: a prescindere, infatti, dalle evidenti diversità tra le due situazioni, non si capisce in che modo la pur deprecabile realtà carceraria italiana possa condizionare l’autorità giudiziaria nella valutazione ad essa imposta dalle norme interne e convenzionali circa il presupposto del rispetto dei diritti umani ai fini della decisione in tema di estradizione.

In conclusione, questa la massima resa nota dalla Corte di Cassazione: ai fini dell’estradizione per l’estero, la “scelta di fatto” dello Stato richiedente – da cui deriva il pericolo per l’estradando di patire la violazione dei diritti fondamentali della persona e che impone al giudice italiano di pronunciarsi negativamente sull’istanza – può consistere anche nel contegno delle Autorità di non approntare misure idonee ad assicurare ai detenuti le condizione necessarie a salvaguardare le minime esigenze di rispetto della dignità umana pur conoscendo ufficialmente lo stato di degrado in cui versano le strutture carcerarie.

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Redazione Giurisprudenza Penale

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