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Revirement della Cassazione: il falso valutativo integra la fattispecie di false comunicazioni sociali – Cass. Pen. 890/2016

A cura di Lorenzo Roccatagliata e Lorenzo Nicolò Meazza

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Cassazione Penale, Sez. V, 12 gennaio 2016 (ud. 12 novembre 2015), n. 890
Presidente Nappi, Relatore Bruno

In principio fu la nota sentenza Crespi (Cass. pen., n. 33774/2015) a fornire la prima interpretazione della novella sulle false comunicazioni sociali intervenuta con la legge n. 69 del 2015, ritenendo che l’espunzione dal testo dell’art. 2621 cod. civ. delle parole “ancorché oggetto di valutazioni” costituisse di fatto un’abrogazione del falso valutativo in bilancio, il quale doveva pertanto considerarsi penalmente irrilevante.

Sul punto avevamo già segnalato la pubblicazione della relazione ad opera dell’Ufficio del Massimario della Corte di Cassazione.

Nel novembre 2015 la Cassazione, con la sentenza che oggi ci occupa, operò un altrettanto noto revirement, sostenendo che “nell’art. 2621 c.c. il riferimento ai ‘fatti materiali’ quali possibili oggetti di una falsa rappresentazione della realtà non vale a escludere la rilevanza penale degli enunciati valutativi, che sono anch’essi predicabili di falsità quando violino criteri di valutazione predeterminati o esibiti in una comunicazione sociale. Infatti, quando intervengono in contesti che implicano l’accettazione di parametri di valutazione normativamente determinati o, comunque, tecnicamente indiscussi, gli enunciati valutativi sono idonei ad assolvere una funzione informativa e possono dirsi veri o falsi”.

Il 12 gennaio 2016 sono state depositate le motivazioni di tale sentenza (n. 890/2016), che contribuiscono ad alimentare un vero e proprio contrasto giurisprudenziale e spianano la via ad un intervento delle Sezioni Unite.

La vicenda

Il pronunciamento in analisi riguarda il fallimento di una Società a responsabilità limitata, fallita nel 2006, il cui amministratore unico, al fine di ingannare il pubblico ed ottenere per la società un ingiusto profitto, nei bilanci degli esercizi dal 2002 al 2005 indicava fatti non corrispondenti al vero.

Tra i fatti oggetto delle false comunicazioni, vi era una quantità molto rilevante di crediti c.d. “incagliati”, ossia esposizioni creditizie di fatto inesigibili. Ora, a fronte dell’incontestabile realtà dei crediti, la società aveva proceduto all’indicazione in bilancio di un improbabile valore di realizzo ed aveva omesso di effettuare una tempestiva svalutazione, con l’effetto di generare una artificiosa rappresentazione sulla situazione economica, patrimoniale e finanziaria della società, mediante mendace esposizione di fatti materiali rilevanti non rispondenti al vero.

In altre parole, nel caso di specie non era in discussione tanto la veridicità di un fatto materiale (l’esposizione creditizia), quanto la falsa rappresentazione del suo valore di realizzo, ovverosia la valutazione di tale fatto che la società aveva esposto nelle scritture contabili.

Sul punto, la difesa ha sollevato l’inosservanza od erronea applicazione dell’art. 2621, facendo leva sulla ricordata sentenza Crespi, sostenendo che a seguito della novella del 2015 sarebbe ad oggi penalmente irrilevante l’errato apprezzamento del valore di realizzo di un credito effettivo.

Per tutta risposta, la Suprema Corte si è radicalmente discostata dall’orientamento precedentemente assunto, affermando che al contrario il falso valutativo è tuttora previsto dalla norma, e di conseguenza rigettando il motivo di ricorso.

Le motivazioni

La Suprema Corte ha basato il provvedimento in analisi su motivazioni complesse ed articolate, che si vanno di seguito ad esporre sinteticamente.

In prima battuta, i giudici hanno operato un’interpretazione letterale delle parole espunte dal testo della norma. La locuzione “ancorché oggetto di valutazioni” -nota il collegio- è una proposizione concessiva e pertanto “ha finalità ancillare, meramente esplicativa e chiarificatrice del nucleo sostanziale della proposizione principale”. Una funzione insomma non certo additiva, ma prettamente esegetica, a tal punto che la sua elisione nulla aggiunge e nulla toglie al senso semantico della norma. In sostanza, “l’intervento in punta di penna del legislatore ha inteso ‘alleggerire’ il precipitato normativo, espungendo una precisazione reputata mera superfetazione linguistica”.

In secondo luogo, la Corte ha analizzato il testo dell’art. 2621 c.c. sotto il profilo della interpretazione logico-sistematica, concentrando lo sforzo esegetico sulle tre parole “fatti”, “materiali”, “rilevanti”. Questi tre concetti non possono essere intesi nel significato comune, ma al contrario devono essere interpretati nelle loro accezioni più tecniche. In particolare, il fatto sarebbe ogni “dato informativo della realtà che i bilanci e le altre comunicazioni, obbligatorie per legge, sono destinati a proiettare all’esterno”. Peraltro, l’aggettivo materiale andrebbe inteso come sinonimo di “essenziale”, nel senso che “nella redazione del bilancio devono trovare ingresso (..) solo dati informativi essenziali ai fini dell’informazione, restandone al di fuori tutti i profili marginali e secondari”. Infatti, il lemma materiale dovrebbe slegarsi dal senso comune dato dal dizionario italiano, per riconnettersi “al concetto tecnico di materialità (o materiality) che da tempo gli economisti anglo-americani hanno adottato come criterio fondamentale di redazione dei bilanci di esercizi ed anche delle revisioni”. Infine, il termine rilevante deve essere apprezzato da un lato in rapporto alla funzione precipua dell’informazione, in modo che essa non sia fuorviante, e dall’altro lato con riferimento ad un approccio selettivo, per lasciar fuori dalle scritture contabili tutti gli aspetti privi di ragionevole rilievo.

Sulla scorta di questa duplice interpretazione, la Corte è così approdata alla prima conclusione che nella locuzione “fatti materiali rilevanti” possono senz’altro rientrarvi le valutazioni, poiché -ha ragionato la Corte- “il bilancio -principale strumento di informazione- si compone, per la stragrande maggioranza, di enunciati estimativi o valutativi, frutto di operazione concettuale consistente nell’assegnazione a determinate componenti (positive o negative) di un valore espresso in grandezza numerica”.

Accertato quanto sopra, il Supremo Collegio ha ritenuto di soffermarsi su un punto ulteriore e controverso, relativo alla possibilità o meno che le valutazioni siano vere o false. Infatti, vi è chi sostiene che una valutazione, poiché intrinsecamente opinabile, possa soltanto essere corretta o scorretta, e non anche vera o falsa. Orbene, la Corte, richiamando i contributi di dottrina e giurisprudenza sul falso ideologico -di cui ha rilevato l’affinità concettuale con le false valutazioni in bilancio-, ha sposato l’orientamento secondo cui le valutazioni che si basino su parametri normativamente determinati o tecnicamente indiscussi possono non solo configurarsi come errate, ma possono rientrare altresì nella categoria della falsità. In conclusione dunque “può dirsi falso (..) l’enunciato valutativo che contraddica criteri di valutazione indiscussi o indiscutibili e sia fondato su premesse contenenti false attestazioni”.

Le conclusioni cui perviene il Supremo Collegio sono dunque chiare: da un lato la nuova formulazione della norma che punisce le false comunicazioni sociali include tuttora il falso valutativo, dall’altro lato le valutazioni stesse possono essere false ove si basino su parametri oggettivi ed indiscussi.

Le prime reazioni

Alcuni primissimi interpreti, però, hanno fatto notare la fragilità dell’impianto motivazionale di tale pronuncia la quale, rispetto alla sentenza Crespi, sembra dettata più dall’intenzione di “salvare” la riforma sulle false comunicazioni sociali -che avrebbe portato all’impunità delle condotte che nell’esperienza comune sono le più ricorrenti, ossia proprio i falsi valutativi-, rispetto al rigore cui si dovrebbe attenere il Giudice penale. E questo anche muovendo proprio dalla mens del legislatore, cui l’organo giudicante deve attenersi ai sensi dell’art. 12 delle preleggi. Dai lavori preparatori alla legge n. 69 del 2015 risulterebbe, infatti, una chiara -seppur certamente censurabile- intenzione del legislatore nell’escludere i falsi valutativi, dal momento che questi, nelle prime redazioni, sarebbero stati considerati nella norma sia nella loro versione pre-riforma, che con l’utilizzo del più ampio termine di “informazioni” (rispetto a “fatti materiali”), idoneo a ricomprendere ogni tipo di valutazione. La successiva espunzione dei falsi valutativi, pertanto, al pari della chiarezza letterale della norma -altro vincolo all’interpretazione dettato dal sopracitato art. 12-, risulterebbe l’unica interpretazione conciliabile con i principi del nostro ordinamento.

Un’altra censura che si potrebbe muovere riguarda, infine, i “criteri di valutazione indiscussi o indiscutibili” sui quali sarebbe fondata la falsa valutazione. Nel caso in oggetto, basato su crediti “incagliati”, tali indici di valutazione potrebbero considerarsi “indiscussi o indiscutibili”, ma nell’id quod plerumque accidit, -pensiamo, per esempio, al valore di un marchio, oppure a quello di avviamento di un’attività-, l’assenza di tali canoni così certi, porterebbe a un’indeterminatezza non tollerabile nell’ambito penalistico.

Giunti a tal punto, non resta che aspettare l’ormai probabile soluzione del conflitto ad opera delle Sezioni Unite.