ARTICOLIDA STRASBURGO

I limiti della protezione dell’art. 10 CEDU quando il giornalista viola il segreto istruttorio

Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Quinta Sezione
Sellami c. Francia, Ric. n. 61470/15, 17 dicembre 2020

Con la sentenza Sellami c. Francia, la Corte europea puntualizza nuovamente, nel solco di una giurisprudenza già consolidata, i limiti all’applicabilità della protezione garantita dall’art. 10 della Convenzione quando un giornalista si renda responsabile del reato di “recel” (letteralmente, “occultamento”, una via di mezzo tra i nostri favoreggiamento reale e ricettazione: per la non corrispondenza perfetta tra gli istituti, si continuerà ad utilizzare il vocabolo francese) in relazione ad informazioni ottenute a seguito di violazione del segreto istruttorio.

La vicenda nasce da un’indagine per plurimi fatti di violenza sessuale e lesioni (in un caso, anche di tentato omicidio) avvenuti a Parigi e nelle vicinanze nel dicembre 2011. Gli inquirenti, attraverso le dichiarazioni di una delle vittime, ricostruivano un identikit del possibile responsabile, che era condiviso esclusivamente tra gli investigatori. Inoltre, il Commissario incaricato della direzione delle indagini invitava espressamente tutti i propri collaboratori a non fornire notizie e dati al ricorrente, giornalista del quotidiano Le Parisien e già autore di un articolo sensazionalistico sui fatti di violenza. Nel gennaio 2011, dopo che la rivista Le Nouveau Détective aveva pubblicato la notizia dell’esistenza di un identikit, il Sellami firmava tre articoli sull’argomento su Le Parisien, pubblicando anche l’identikit del presunto responsabile con grande rilievo. La notizia era successivamente ripresa anche da altri quotidiani (in particolare Le Figaro). Poiché a seguito di ulteriori acquisizioni fotografiche il presunto responsabile non risultava corrispondere all’uomo raffigurato nell’identikit, la cui pubblicazione aveva però provocato molteplici segnalazioni infondate, il giudice istruttore e gli inquirenti decidevano di divulgare una fotografia del presunto responsabile chiedendo ad eventuali testimoni di farsi avanti.

Contemporaneamente, iniziava un procedimento penale a carico del Sellami. Interrogato sul modo in cui avesse ottenuto l’identikit, il giornalista si rifiutava di rispondere invocando il diritto a mantenere la segretezza delle proprie fonti. Veniva quindi processato per avere “sciemment recelé un portrait-robot, qu’il savait provenir d’un délit, en l’espèce, une violation du secret professionnel” e all’esito del giudizio condannato al pagamento di un’ammenda di ottomila euro, sanzione ridotta a tremila euro in appello. La Corte di Cassazione rigettava il successivo ricorso.

Il ricorrente adiva la Corte europea lamentando la violazione dell’art. 10 della Convenzione sotto due diversi profili: per mancanza di prevedibilità, perché il “recel”, delitto comune, non sarebbe applicabile in materia di stampa e sostenendo, inoltre, che le autorità nazionali non avrebbero operato il corretto bilanciamento con la necessità di informare l’opinione pubblica e con gli obblighi professionali dei giornalisti.

La sentenza della Corte, particolarmente schematica e ben esemplificativa dell’approccio alla valutazione delle violazioni convenzionali, conclude all’unanimità per l’assenza di violazione dell’art. 10, con un espresso riferimento al margine di apprezzamento statale nello svolgere il bilanciamento tra i diversi interessi in gioco.

In primo luogo, la Corte evidenzia come il Sellami non fosse stato condannato per avere pubblicato l’identikit, ma per aver occultato un atto ottenuto attraverso la commissione di un reato, la violazione del segreto istruttorio.

Quanto, poi, ai parametri di valutazione delle violazioni, il ragionamento della sentenza si esplicita in questi termini:

A) Quanto alla sussistenza di base legale dell’ingerenza

La Corte richiama propri precedenti in materia (Dupuis e altri c. Francia, n. 1914/02, 7.6.2007; Ressiot e altri c. Francia nn. 15054/07 et 15066/07, 28.6.2012; Hacquemand c. Francia (dec.), n. 17215/06, 30.6.2009) per escludere l’imprevedibilità dell’applicazione del delitto di recel a un giornalista, rigettando così la prima doglianza del ricorrente.

B) Quanto alla sussistenza di uno scopo legittimo dell’ingerenza

La sentenza individua lo scopo legittimo nella necessità di tutelare la riservatezza delle informazioni relative allo svolgimento di un’indagine penale e, più in generale, di garantire l’autorità e l’imparzialità della magistratura. Considerazione significativa, quest’ultima, che ricorda le affermazioni della Corte sui rischi dei processi mediatici di sentenze come Worm c. Austria (n. 22714/93, 29.8.1997).

C) Quanto alla necessità dell’ingerenza in una società democratica

La Corte richiama propri precedenti nei quali ha ritenuto necessario specificare i criteri che dovrebbero guidare le autorità nazionali degli Stati parti della Convenzione nel contemperare gli interessi in gioco e, quindi, nel valutare se sia “necessaria” un’ingerenza nei casi che riguardano la tutela della segretezza delle indagini. Detti criteri sono: i) il modo in cui il ricorrente è venuto in possesso delle informazioni contestate; ii) il contenuto dell’articolo contestato; iii) il contributo dell’articolo contestato ad un dibattito di interesse pubblico; iv) l’influenza dell’articolo contestato sullo svolgimento del procedimento penale e l’eventuale violazione della privacy dell’imputato; v) la proporzionalità della pena comminata. Sulle modalità di acquisizione dell’identikit, la Corte esclude che il giornalista potesse ignorare che il documento fosse protetto dal segreto istruttorio, e ritiene di non dover sovvertire le conclusioni dei tribunali interni in merito alla sussistenza del recel. Quanto al contenuto dell’articolo, al momento della pubblicazione, avvenuta con ampia risonanza, il ricorrente non si era preoccupato di verificare che l’identikit corrispondesse effettivamente al presunto autore dei reati, mentre gli inquirenti aveva già accertato il contrario. La Corte, inoltre, pur concordando che l’indagine sui fatti di violenza rilevasse per l’interesse generale, nel valutare l’approccio sensazionalistico alla notizia e il fatto che il ricorrente non abbia chiarito perché la pubblicazione di un identikit superato potesse contribuire a un dibattito di interesse pubblico, esclude anche la sussistenza del terzo parametro.

Gli effetti sul procedimento penale in corso sono stati significativi e sono avvenuti in un momento particolarmente delicato dell’inchiesta. Molte persone hanno ritenuto che l’identikit provenisse dagli investigatori e quindi hanno contattato gli inquirenti, tanto da obbligare questi ultimi a pubblicare poi una fotografia del sospettato. Interessante il riferimento, da parte della Corte, alla necessità di tutelare il segreto delle indagini sia per evitare rischi di collusione, di scomparsa e alterazione delle prove, ma soprattutto per garantire la presunzione di innocenza dell’imputato, per tutelarne in generale la vita di relazione e, infine, per garantire l’indipendenza della magistratura nella valutazione delle prove e nella decisione finale.

Infine, la sanzione, unicamente pecuniaria e ridotta a tremila euro, viene ritenuta proporzionata, non ritenendo che si possa attribuire a detta sanzione un effetto dissuasivo nell’esercizio della libertà di espressione.