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La rinnovazione in appello della istruzione dibattimentale: la Cassazione demolisce i (pochi) approdi sicuri cui era giunta la Legge Orlando

in Giurisprudenza Penale Web, 2017, 11 – ISSN 2499-846X

Cassazione Penale, Sezione II, 12 settembre 2017 (ud. 20 giugno 2017), n. 41571
Presidente Relatore Fiandanese

Segnaliamo ai lettori un ulteriore sviluppo sul tema della rinnovazione della istruzione dibattimentale nel giudizio di appello.

Come avevamo già riferito a luglio, su impulso di alcune pronunce della Corte EDU (fra cui, in particolare, Dan c. Moldavia e, più recentemente, Lorefice c. Italia) il giudizio penale di secondo grado era mutato dapprima per via pretoria, con le Sezioni Unite Dasgupta (n. 27620/16) e Patalano (n. 18620/17), e successivamente con la riforma Orlando, intervenuta a modificare l’art. 603 c.p.p..

Il risultato di questi mutamenti, si era già visto al tempo, è consistito nell’aggiunta di un nuovo caso obbligatorio di rinnovazione dell’istruttoria, attraverso l’introduzione del comma 3 bis alla citata norma, la quale oggi recita:

Art. 603 c.p.p.
1. Quando una parte, nell’atto di appello o nei motivi presentati a norma dell’articolo 585 comma 4, ha chiesto la riassunzione di prove già acquisite nel dibattimento di primo grado o l’assunzione di nuove prove, il giudice se ritiene di non essere in grado di decidere allo stato degli atti, dispone la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale.
2. Se le nuove prove sono sopravvenute o scoperte dopo il giudizio di primo grado, il giudice dispone la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale nei limiti previsti dall’articolo 495 comma 1.
3. La rinnovazione dell’istruzione dibattimentale è disposta di ufficio se il giudice la ritiene assolutamente necessaria.
3-bis. Nel caso di appello del pubblico ministero contro una sentenza di proscioglimento per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa, il giudice dispone la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale.
[…]

In altri termini, quando il giudizio di appello segua ad una assoluzione in primo grado e sia suscitato dall’impugnazione della Procura per motivi in punto di valutazione della prova dichiarativa, il Giudice di seconde cure non può pervenire a sentenza (sia essa di nuova assoluzione o prima condanna) senza nuovamente assumere, in modo orale ed immediato, la prova di cui si chiede la rivalutazione.

La succitata sentenza Dasgupta, con un obiter dictum non massimato (ma ugualmente cogente), aveva anche precisato che “non può condividersi l’orientamento secondo cui anche in caso di riforma della sentenza di condanna in senso assolutorio il giudice di appello, al di là di un dovere di motivazione rafforzata, deve previamente procedere ad una rinnovazione della prova dichiarativa” (para. 8.1.), e ciò sul rilievo che il nostro sistema processuale si presenta asimmetrico nei rapporti fra proscioglimento e condanna: il primo si impone tanto nei casi in cui vi è prova a discarico, tanto quando vi è il dubbio sulla prova a carico, mentre la seconda va pronunciata solo in presenza di prova certa a carico.

Orbene, la Sezione Seconda, con la sentenza indicata in epigrafe ha invece inteso discostarsi dal principio indicato dalle Sezioni Unite e ripreso dal Legislatore, imboccando il sentiero della simmetria, d’appresso descritto.

In un caso nel quale il Giudice di prime cure aveva pronunciato condanna nei confronti dell’imputato, basando la propria valutazione sulle sommarie informazioni rese dalle persone offese e da altri soggetti, la Corte di Appello sovvertiva l’esito del processo pronunciando assoluzione, poiché le prove dichiarative erano ritenute contraddittorie e, dunque, inidonee ad accertare la penale responsabilità dell’imputato.

Tale conclusione traeva il Giudice dell’appello da una mera lettura degli atti al fascicolo del dibattimento, senza rinnovare l’esame di alcuno dei dichiaranti.

Proprio di tale inerzia si doleva il Procuratore generale presso la Corte di Appello, il quale proponeva ricorso per Cassazione, fra l’altro, per la violazione dell’art. 606, lett. b) e c) c.p.p. in relazione agli artt. 192 c.p.p. e 6 della Convenzione EDU, nonché violazione dell’art. 606, lett. e) c.p.p. per motivazione inesistente o manifestamente illogica.

In altre parole, la Corte di appello, avendo espresso un giudizio delle prove dichiarative opposto rispetto a quanto ritenuto in primo grado, aveva l’obbligo di rinnovare l’istruzione ed escutere nuovamente i dichiaranti.

Prima di vedere la decisione ed il ragionamento della Suprema Corte su questo motivo di ricorso, valga brevemente ragionare sullo stato dell’arte, sinora raggiunto in tema di rinnovazione dell’istruttoria in appello, per applicarlo al caso di specie.

Come si è visto, la Corte di Strasburgo prima, la Cassazione poi, il Legislatore infine, hanno imposto al Giudice del merito di secondo grado un (unico) nuovo caso di rinnovazione obbligatoria: quello nel quale si voglia sovvertire una assoluzione sulla base di sole o prevalenti prove dichiarative. Si tratta di una ipotesi estremamente precisa, che, a sommesso parere di chi scrive, non si presta ad alcuna possibile interpretazione estensiva.

Fuori del suddetto caso, la rinnovazione in appello è obbligatoria a mente del solo comma 2, qualora sopravvengano o si scoprano nuove prove, per il resto rimanendo operazione lasciata alla mera discrezione del Giudice, in ossequio ai commi 1 e 3.

E se ciò corrisponde a realtà, il motivo di ricorso sollevato dalla Procura generale non poteva vedere esito altro che il rigetto: non versando in ipotesi di rinnovazione obbligatoria, il Giudice di seconde cure aveva esercitato una discrezionalità concessagli dalla legge ed aveva, così, evitato di rinnovare gli esami dei testi decisivi. Una decisione conforme alla legge e alla migliore giurisprudenza, che, come visto, insisteva proprio sulla inapplicabilità a questi casi dell’obbligo di rinnovazione.

Nessuna inosservanza o erronea applicazione della legge penale, né di norme processuali poste a pena di nullità, inutilizzabilità, inammissibilità o decadenza.

Invece, l’esito cui la Corte di Cassazione ha inteso pervenire è stato del tutto opposto: un annullamento con rinvio, perché il Giudice di appello svolga nuova valutazione all’esito della rinnovazione dell’esame dei testi decisivi.

Vediamo brevemente le ragioni di tale approdo, nuovo ed inconciliabile coi precedenti.

Innanzitutto, la sentenza in epigrafe segnala un orientamento contrario alle citate Sezioni Unite Dasgupta, orientamento che in tali termini si esprime sul tema: “Se è vero che il principio tratto dalla richiamata sentenza Cedu è quello che laddove la prova essenziale consista in una o più prove orali che il primo giudice abbia ritenuto, dopo averle personalmente raccolte, non attendibili, il giudice di appello per disporre condanna non può procedere ad un diverso apprezzamento della medesima prova sulla sola base della lettura dei verbali ma è tenuto, salvo possibili casi particolari, a raccogliere nuovamente la prova innanzi a sé per poter operare una adeguata valutazione di attendibilità, è pur vero che tale principio, espressione dell’immediatezza del processo, deve trovare applicazione anche in casi in cui il diverso giudizio di attendibilità ha portato ad un giudizio di assoluzione in secondo grado, a maggior ragione a fronte della presenza di una parte privata, costituita parte civile, rispetto alla quale si assiste ad una sempre maggior tutela nell’ambito delle decisioni della Corte Europea”.

In secondo luogo, la citata sentenza argomenta come il sistema processuale italiano sarebbe improntato al canone della simmetria fra le parti rispetto al giudice, e come ciò solo costituirebbe la realizzazione di un processo effettivamente equo.

A riprova di ciò, il Giudice di legittimità fornisce copiosi elementi di matrice costituzionale e processualpenalistica, ricordando il principio di legalità delle pene, che rende doverosa la repressione delle condotte violatrici della legge penale, nonché il principio di eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge (in particolare, alla legge penale), che non può essere salvaguardata se non attraverso l’obbligatorietà dell’azione penale e l’indipendenza del pubblico ministero rispetto ad ogni altro potere.

Il Giudice di legittimità giunge, così, a sottolineare la funzione del potere di impugnazione del pubblico ministero, che è quella di assicurare la corretta applicazione della legge penale nel caso concreto e – tramite quest’ultima – l’effettiva attuazione dei principi di legalità e di eguaglianza.

Nel corpo della pronuncia in analisi, si chiarisce inoltre la diversa funzione del giudizio di appello rispetto a quello di primo grado, laddove la previsione di un secondo grado di giurisdizione di merito troverebbe la sua giustificazione proprio nell’opportunità di una verifica piena della correttezza delle valutazioni del giudice di primo grado, che non avrebbe senso dunque presupporre esatte, equivalendo ciò a negare la ragione stessa dell’istituto dell’appello.

In buona sostanza, il nostro sistema processuale avrebbe disegnato la figura del Pubblico Ministero quale portatrice di una prospettiva di legalità (anche in favore dello stesso imputato) e la pluralità dei gradi di giurisdizione quale esigenza di giustizia che tende alla “certezza” della decisione in vista del raggiungimento della verità processuale e per l’attuazione del principio di legalità.

Ed allora, a parere del Supremo Collegio, non si vedrebbe perché la regola di rinnovazione delle prove dichiarative dovrebbe applicarsi nell’ipotesi di ribaltamento in appello della assoluzione in primo grado e non nel caso inverso, visto che le esigenze di “percezione” del giudice di appello dovrebbero valere non a senso unico, ma anche nell’ipotesi in cui non condivida la decisione del giudice di primo grado di avere ritenuto attendibile il teste utilizzato in chiave di accusa. In altre parole, affermare che il giudice di appello, riformando la decisione di primo grado, può assolvere ex actis, ma non può condannare ex actis, significherebbe adottare uno statuto probatorio del tutto privo di base logico – sistematica.

Per ritenere diversamente, prova la Corte a ragionare a contrario, occorrerebbe dimostrare che l’assoluzione in primo grado rappresenti di per sé una decisione di forza superiore rispetto all’esito opposto e che solo essa, per questo esclusivo motivo, meriti un più affidabile standard probatorio in caso di integrale riforma in appello; né vale a spiegare una diversità di metodo in relazione all’esito decisorio del primo giudice la riconduzione del canone del ragionevole dubbio alla presunzione di innocenza, perché questa vale “sino alla condanna definitiva”, cioè fino a quando non è completato il percorso che consente di raggiungere la verità processuale e fino a quando il sistema processuale non ha esaurito tutti i sistemi di controllo della legalità della decisione.

A sostegno di questa posizione, la Corte cita anche alcuni passi delle sentenze CEDU, secondo cui “Se una Corte d’Appello è chiamata esaminare un caso in fatto e in diritto e a compiere una valutazione completa della questione della colpevolezza o dell’innocenza del ricorrente, essa non può, per una questione di equo processo, determinare correttamente tali questioni senza una valutazione diretta delle prove” (ex multis Dan c. Moldavia, para. 30).

Conclude la Corte enunciando un nuovo principio di diritto, che invoca una nuova e diversa interpretazione dell’art. 603 cp.p. e che recita: “l’art. 603, comma 3, cod. proc. pen. in applicazione dell’art. 6 CEDU deve essere interpretato nel senso che il giudice di appello per pronunciare sentenza di assoluzione in riforma della condanna del primo giudice deve previamente rinnovare la prova testimoniale della persona offesa, allorché, costituendo prova decisiva, intenda valutarne diversamente la attendibilità, a meno che tale prova risulti travisata per omissione, invenzione o falsificazione”.

In sintesi, il nostro processo penale ha e deve avere natura simmetrica, ed il potere/dovere di accertamento del Giudice di seconde cure non può essere variamente inteso a seconda dell’esito dei giudizi di primo e di secondo grado. In ogni caso nel quale desideri procedere ad overturning della decisione assunta dal Giudice di primo grado sulla base di una opposta valutazione della prova dichiarativa, il Giudice del secondo grado deve rinnovare quella prova, diversamente incorrendo in violazione legge.

Tale pronuncia ha subito suscitato una nuova rimessione, nell’ambito di una diversa causa, della questione alle Sezioni Unite. Ciò, nonostante essa fosse stata, nel bene o nel male, già risolta dalle stesse Sezioni Unite, prima, e dal Legislatore, poi.

***

Per concludere, la sentenza in epigrafe presta il fianco a numerose e decisive critiche, di seguito rapidamente illustrate.

1. La pronuncia si fonda invero su una interpretazione contra legem. L’intervento della riforma Orlando, almeno su questo specifico punto, appare precisissimo, e non dà adito ad interpretazioni più o meno razionali o estensive: il Legislatore ha stabilito che il Giudice dell’appello è libero di decidere se rinnovare la prova, essendo a ciò obbligato solo nel caso di overturning sfavorevole all’imputato. Non può non concordarsi con la Suprema Corte: il potere di giurisdizione è e deve essere indipendente da qualunque altro potere. Ma deve sottostare alla legge, specie laddove quest’ultima offra chiarezza di applicazione. Ciò, ritiene chi scrive, in questo caso non è stato fatto; e questa pronuncia contribuisce a consolidare la prassi, recentemente invalsa, dell’interprete di non sottostare, o piuttosto di sostituirsi, alla legge, la quale appare quanto mai deviata rispetto al sistema costituzionale di organizzazione dei poteri pubblici.

2. A sostegno del citato principio di diritto, la Cassazione invoca la giurisprudenza EDU che, in effetti, sembra offrire qualche spiraglio alla simmetria del processo penale, quando dice che il giudice di merito, chiamato a compiere una valutazione completa sulla colpevolezza o l’innocenza dell’imputato, non può prescindere da una valutazione diretta delle prove. Tuttavia, la citazione è inconferente: non si dimentichi che la Corte EDU non è Giudice del diritto, non essendo chiamata a valutare la conformità del diritto interno alla Convenzione, ma è Giudice del fatto, dovendo verificare caso per caso se le circostanze di fatto abbiano condotto ad una violazione di alcuno dei diritti umani sanciti dalla Convenzione. E dunque, quale sarebbe il diritto umano violato nel caso di assoluzione in appello fondata sulla mera lettura del fascicolo del dibattimento? All’evidenza, nessuno. E, infatti, la Corte EDU non si è mai pronunciata su un caso di overturning favorevole, perché nessuno se ne è mai doluto. L’interpretazione proposta dalla Sezione Seconda, allora, non è più conforme alla Convenzione di quella offerta dalle Sezioni Unite e dal Legislatore.

3. La sentenza si pone in aperto contrasto con altra pronuncia, recentissima e ben più autorevole, resa dal massimo consesso di legittimità. Discostarsi da quanto affermato dalle Sezioni Unite equivale a violare il fondamentale principio di nomofilachia, che fonda il senso stesso della composizione a Sezioni Unite e che garantisce la certezza del diritto. Non che il Giudice non rimanga libero di pronunciarsi contro il precedente, ma ciò può fare qualora la legge consenta una interpretazione difforme, ovvero quando il precedente risulti datato o altrimenti non più conforme all’evoluzione dell’ordinamento giuridico. Nulla di tutto ciò è accaduto nel caso di specie, date la chiarezza e la prossimità temporale della sentenza Dasgupta e della riforma Orlando. Di qui, l’assoluta inopportunità di una pronuncia successiva difforme.

4. È del tutto opinabile che un processo possa dirsi equo, solo ove garantisca una perfetta simmetria delle posizioni processuali. E tanto ciò è vero, che il nostro sistema processuale è tutt’altro che simmetrico, ma si conforma anzi alla massima asimmetria, traducendo nella legge processuale il noto brocardo in dubio pro reo. Qualora il giudice voglia assolvere è solo necessario il dubbio sulla colpevolezza, qualora voglia condannare, invece, occorre una prova granitica a carico. Ecco perché non serve, al Giudice dell’appello che voglia assolvere, rinnovare la prova, ed ecco perché, viceversa, vi è obbligato quel Giudice che voglia condannare.

5. Da questa, come da altre pronunce pare doversi trarre che la giurisprudenza nazionale intenda pian piano rendere del tutto orale anche il giudizio d’appello. Iniziativa senz’altro apprezzabile, che permetterebbe una valutazione ancora più certa sulla responsabilità penale. Almeno due, però, le censure sul punto. Primo, una simile operazione spetterebbe solo al Legislatore, o al più al Giudice delle Leggi, pena una manifesta violazione delle regole costituzionali sul riparto dei poteri pubblici. Secondo, la coperta è corta: o si fanno processi certi o si fanno processi brevi, e non è il caso di ricordare la serie interminabile di condanne subite dal nostro paese per la clamorosa lentezza dei nostri giudizi. Opportuno allora soffermarsi, e rinnovare la prova, solo nei casi che potrebbero andare a detrimento dell’imputato, come del resto impone la stessa riforma Orlando. Negli altri, almeno in questi, che il giudizio proceda spedito!

Come citare il contributo in una bibliografia:
L. Roccatagliata, La rinnovazione in appello della istruzione dibattimentale: la Cassazione demolisce i (pochi) approdi sicuri cui era giunta la Legge Orlando, in Giurisprudenza Penale Web, 2017, 11