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Lo stato di diritto vince a Strasburgo: la Corte EDU condanna la Romania per la rimozione anticipata della procuratrice capo Kövesi dal suo incarico.

in Giurisprudenza Penale Web, 2020, 5 – ISSN 2499-846X

Corte EDU, Sezione Quarta, Kövesi c. Romania, 5 maggio 2020
Ricorso n. 3594/19

La vicenda giudiziaria che ha coinvolto l’attuale Procuratrice capo europea Laura Codruța Kövesi, prima persona a ricoprire questo incarico nella storia dell’EPPO (si vedano sul punto i contributi di Lorenzo Roccatagliata e Andra Venegoni), ha permesso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di ribadire due fondamentali principi di uno stato democratico e di diritto, quali il libero accesso alla giustizia e la libertà di espressione.

Invero, con la sentenza in epigrafe la Corte ha condannato la Romania per violazione degli articoli 6 e 10 della Convenzione, lanciando un forte messaggio di censura nei confronti dell’intervento politico nell’amministrazione della giustizia. 

I fatti in breve.

Nel 2013 la ricorrente, cittadina rumena, era stata nominata Procuratrice Capo della Direzione Nazionale Anticorruzione (DNA), dipartimento della procura collegato alla Suprema Corte di Cassazione e Giustizia rumena e specializzato nell’investigazione di casi di corruzione di media ed elevata gravità. Nel corso del suo mandato la procuratrice riceveva numerosi encomi per le sue capacità di gestione dell’ufficio ed i risultati raggiunti, sia a livello nazionale che internazionale. Il suo incarico, della durata di tre anni, a fronte di un parere positivo del dell’organo di governo della magistratura rumeno (CSM), veniva rinnovato su proposta del Ministero della Giustizia nel 2016, dovendo quindi protrarsi sino al 16 maggio 2019.

Sempre nel 2016 si tenevano le elezioni politiche in Romania, ad esito delle quali veniva formato un nuovo governo. Nel 2017 il governo iniziava alcune riforme della giustizia penale, emanando – in particolare – un provvedimento d’urgenza che depenalizzava alcune fattispecie di reato di corruzione e prevedeva riduzioni di pena per altre. Tali emendamenti suscitavano forti reazioni critiche, sia nel paese che nell’ambito della comunità internazionale. Anche la DNA si esprimeva in merito e rilasciava alcuni comunicati stampa, con i quali censurava il modus operandi del governo e metteva in dubbio la legittimità del suo operato. Nel frattempo, la ricorrente veniva sottoposta ad un’ispezione condotta dal CSM su richiesta del Ministero della Giustizia, all’esito della quale veniva ritenuta idonea alla prosecuzione del suo incarico, ricevendo un riscontro positivo in ogni ambito di valutazione. 

Successivamente, il Ministro della Giustizia annunciava la pianificazione di una profonda riforma del sistema giudiziario e disponeva la costituzione di un’apposita commissione parlamentare. Le leggi di riforma conseguentemente emanate esacerbavano il clima di protesta, alimentato in Romania da pareri negativi del CSM, richieste di revoca da parte di 4000 magistrati, dimostrazioni negli uffici giudiziari, interrogazioni e dichiarazioni da parte della minoranza parlamentare. 

A febbraio 2018 il Ministro della Giustizia inviava al CSM una relazione sull’attività di gestione del DNA, che includeva la proposta di rimuovere la ricorrente dal suo incarico di procuratrice capo. Le conclusioni del report, comunicava il Ministero, erano basate su prove raccolte nel corso dell’anno precedente e sull’analisi di decisioni, fatti e azioni specifiche, incluse le dichiarazioni pubbliche rese dalla procuratrice capo della DNA. Venivano addotte diverse ragioni a giustificazione della proposta, tra le quali asserite violazioni delle disposizioni costituzionali da parte della DNA, superamento dei limiti di competenza, illeciti disciplinari e mancanza di capacità manageriali in capo alla ricorrente. 

La procuratrice veniva chiamata a comparire in giudizio di fronte al CSM, il quale, ad esito del procedimento, riteneva non fondate le accuse mosse dal Ministero e decideva di non accogliere la proposta di rimozione dall’incarico dallo stesso avanzata. Il Presidente della Romania, appreso il giudizio del CSM, decideva di non dare esecuzione alla proposta di rimozione. 

Ad aprile 2018 il Ministero della Giustizia proponeva ricorso avanti alla Corte Costituzionale per risolvere i conflitti sorti tra il Ministero stesso ed il Presidente e tra questi ed il Governo. Il Ministero sosteneva in particolare che il Presidente non avesse alcun diritto di veto nel procedimento di nomina e rimozione del procuratore capo e che fosse quindi obbligato a firmare la proposta di rimozione avanzata dal Ministero. 

La Corte Costituzionale dichiarava la sua competenza in materia e nel merito affermava che né il Presidente né la Corte stessa avevano il potere di verificare le ragioni avanzate del Ministero con la proposta di rimozione. Di conseguenza, ordinava al Presidente di firmare il decreto di rimozione della procuratrice Laura Codruța Kövesi dal suo incarico. Il 9 luglio 2018 il Presidente firmava quindi il decreto n. 526/2018 con il quale la ricorrente veniva rimossa dal ruolo di procuratrice capo del DNA con otto mesi di anticipo rispetto alla scadenza naturale del mandato.

Il giudizio avanti alla Corte EDU.

1. Sulla violazione dell’art. 6 – Diritto a un equo processo.

La ricorrente adiva la Corte lamentando la violazione dell’art. 6 della Convenzione in quanto le era stato negato l’accesso ad un’autorità giudiziaria per la difesa dei propri diritti in relazione alla rimozione disciplinare dall’incarico di procuratrice capo del DNA. Nello specifico, lamentava che il diritto di contestare il decreto presidenziale di rimozione, pur se previsto dalla legge, era stato di fatto limitato con la sentenza della Corte Costituzionale del 2018 e per tale motivo non avrebbe potuto proporre impugnazione avanti al tribunale amministrativo, come invece sosteneva il Governo rumeno. 

a. Sull’esistenza del diritto.
La Corte si è in primo luogo interrogata sull’esistenza del diritto in questione, valutando cioè se la ricorrente fosse effettivamente titolare di un diritto o se si trattasse di una mera aspirazione ad ottenere un vantaggio o privilegio che le autorità competenti avevano la discrezionalità di garantirle o rifiutarle senza onere di motivazione. Rilevando che la legge rumena disciplina le condizioni di impiego della ricorrente e prevede  che le decisioni riguardanti la carriera ed i diritti dei giudici e dei procuratori sono soggette ad appello  avanti alla sezione amministrativa della Suprema Corte di Cassazione e Giustizia, la Corte ha concluso che sussisteva il diritto della ricorrente di svolgere il suo incarico sino alla fine del suo mandato e, in caso di rimozione anticipata, di ricorrere per la revisione giudiziale della decisione.
La Corte ha specificato che, sebbene l’accesso alle funzioni svolte dalla ricorrente costituisce in principio un privilegio oggetto della discrezionalità delle autorità competente e non suscettibile di esecuzione forzata, ciò non vale rispetto alla conclusione di tale rapporto lavorativo. Inoltre, la decisione di rimozione ha avuto un effetto decisivo sulla situazione personale e professionale della ricorrente, impedendole di portare avanti specifiche mansioni nel DNA.
Alla luce di tali osservazioni, la Corte ha concluso che la ricorrente era legittimata a reclamare un proprio diritto previsto dalla legislazione nazionale, segnatamente il diritto a non essere rimossa dalle proprie funzioni al di fuori dei casi specificatamente previsti dalla legge. 

b. Sulla natura civile del diritto.
Secondo i principi consolidati dalla giurisprudenza di Strasburgo, le controversie insorte tra lo Stato ed i suoi dipendenti ricadono nell’ambito dell’art. 6 della Convenzione, ad eccezioni dei casi in cui si verifichino cumulativamente due condizioni (cd. test di Eskelinen): 1. la legge nazionale esclude espressamente l’accesso all’autorità giudiziaria per la categoria di personale in questione; 2. tale esclusione è giustificata da motivi oggettivi nell’interesse dello Stato.
Nel caso di specie, doveva ritenersi non verificata la condizione sub 1. in quanto, come peraltro indicato dallo stesso Governo, la legislazione nazionale prevedeva il diritto per la ricorrente di contestare la decisione di rimozione avanti al tribunale amministrativo. Pur essendo questa circostanza assorbente nel determinare l’applicabilità dell’art. 6 della Convenzione nel suo ramo civilistico, la Corte ha ritenuto utile procedere con la seconda verifica prevista dal test.
Sull’esistenza di motivi oggettivi nell’interesse dello Stato per l’esclusione della ricorrente dalla facoltà di impugnare la propria rimozione dall’incarico, la Corte ha affermato che l’assenza di qualsivoglia controllo giudiziario della legalità della decisione di rimozione non può dirsi nell’interesse dello Stato. I membri di grado più elevato dell’apparato giudiziario devono godere, così come gli altri cittadini, di protezione dall’arbitrarietà del potere esecutivo e solo la sorveglianza da parte di un organo giudiziario su tali decisioni di rimozione può rendere effettivo tale diritto. La Corte ha pertanto ritenuto ammissibile l’applicazione dell’art. 6 CEDU al caso di specie. 

c. Nel merito.
La ricorrente lamentava la disponibilità nell’ordinamento interno di rimedi effettivi per contestare la decisione di rimozione. Infatti, ella non avrebbe potuto impugnare la relazione del Ministero della Giustizia contenente la proposta di rimozione, in quanto tale documento era un atto meramente preliminare e privo di efficacia in sé. L’unico atto impugnabile sarebbe stato il decreto presidenziale del 2018, tuttavia la precedente sentenza della Corte Costituzionale aveva espressamente limitato lo scrutinio dei tribunali amministrativi al profilo di legittimità formale del decreto. Tale vincolo non avrebbe consentito di espletare l’accertamento giudiziario sull’aspetto fondamentale delle sue doglianze, e cioè che il procedimento disciplinare era scaturito dal contenuto di alcune sue dichiarazioni rese in pubblico. 
La procuratrice asseriva inoltre che nel corso dell’intero procedimento che aveva portato alla sua rimozione, non era mai stata interpellata, né aveva avuto l’opportunità di presentare memorie difensive, ciononostante aveva subito un forte pregiudizio dal decreto presidenziale emanato al termine.
La Corte ha accolto le argomentazioni della ricorrente, ritenendo che la limitazione dello scrutinio giudiziale delle autorità amministrative alla mera legittimità formale del decreto presidenziale rendeva tale rimedio di estensione non “sufficiente” ai sensi dell’art. 6 CEDU. Con la sentenza della Corte Costituzionale, lo Stato rumeno aveva di fatto compromesso il diritto di accesso all’autorità giudiziaria in capo alla ricorrente, violando pertanto le disposizioni dell’art. 6 CEDU.

2. Sulla violazione dell’articolo 10 – Libertà di espressione.

La ricorrente contestava di essere stata sollevata dall’incarico di procuratrice capo del DNA in ragione delle dichiarazioni rese pubblico nella propria veste professionale, riguardanti gli interventi di riforma del sistema giudiziario attuati dal Governo. Invocava pertanto l’applicazione dell’art. 10 della Convenzione, che tutela la libertà di espressione. 

a. Nel merito: le doglianze della ricorrente.
Secondo quanto argomentato dalla ricorrente, il Ministro della Giustizia aveva valutato nella relazione, dal suo personale punto di vista, le capacità manageriali della procuratrice sulla base delle opinioni da lei pubblicamente espresse. Riteneva inoltre che tali opinioni erano state espresse in conformità con l’obbligo giuridico in capo al procuratore di fornire al pubblico informazioni di interesse generale.
In aggiunta a ciò, contestava il fatto che le disposizioni legali sulle quali era stata fondata la sua rimozione difettavano dei requisiti di prevedibilità e chiarezza. Invero, la Legge n. 303/2004 menzionava come ragioni per la rimozione l’esercizio inappropriato di mansioni gestorie relativi al “comportamento” e alla “comunicazione”, ma non chiariva se questi termini comprendessero o meno l’espressione di opinioni in pubblico.
Infine, la ricorrente sosteneva che la violazione della sua libertà di espressione non aveva perseguito uno scopo legittimo, in quanto le accuse mosse dal Ministro, di aver danneggiato con le sue dichiarazioni l’immagine pubblica della Romania, erano smentite dalle relazioni di organizzazioni internazionali e dai numerosi premi e riconoscimenti che la procuratrice aveva ricevuto in relazione ai propri meriti professionali. 

b. La decisione della Corte: sussistenza dell’ingerenza ed illegittimità dello scopo perseguito.
La Corte ha accertato che la maggior parte delle motivazioni formulate dal Ministro nella relazione che proponeva la rimozione della procuratrice facevano riferimento alle opinioni che la ricorrente aveva espresso nell’ambito delle sue funzioni professionali in varie occasioni. In particolare, le sue dichiarazioni sulle riforme giudiziarie erano state elencate tra i motivi della proposta e commentante estensivamente in dodici pagine della relazione. Le rimanenti motivazioni addotte erano state esaminate e considerate infondate dal CSM.
Di conseguenza, secondo i giudici di Strasburgo poteva dirsi sussistente un nesso causale tra l’esercizio del diritto di espressione della ricorrente e la rimozione anticipata dal suo mandato. Le ragioni alla base di tale decisione erano connesse al diritto di espressione della procuratrice, che include ila libertà di comunicare opinioni ed informazioni. Di conseguenza, lo Stato ha esercitato un’ingerenza illegittima sulla libertà della ricorrente di esercitare il proprio diritto ex art. 10 della Convenzione.
Accertata l’ingerenza, la Corte ha indagato la giustificazione della stessa, ossia se, come sostenuto dal Governo, la rimozione della procuratrice avesse perseguito il legittimo scopo di preservare lo stato di dritto e l’immagine della Romania nel panorama internazionale. Muovendo dall’analisi degli elementi del caso, i giudici hanno concluso che non era stata fornita alcuna prova del fatto che la misura impugnata avesse raggiunto lo scopo di proteggere la rule of law o altri fini legittimi. Al contrario, questa era stata una conseguenza dell’esercizio del diritto di espressione da parte della ricorrente, la quale rivestiva il rango più elevato del settore giudiziario anticorruzione. 

c. La minaccia allo stato democratico.
Sebbene l’accertamento della mancanza di un fine legittimo dell’ingerenza poteva da solo portare all’accertamento della violazione, la Corte ha ritenuto importante verificare se l’intervento statale fosse necessario in una società democratica. Secondo i giudici europei, questo caso si distingue da precedenti in quanto le dichiarazioni ed opinioni espresse in pubblico dalla procuratrice non contenevano attacchi contro altri membri del giudizio, né critiche riguardo alla gestione dei processi pendenti. Al contrario, la procuratrice aveva espresso opinioni e critiche sulle riforme legislative impattanti sul sistema giudiziario, in relazione a questioni relative al funzionamento del sistema e alla competenza della procura sulle indagini relative a crimini di corruzione, senza mai oltrepassare i limiti della critica dal punto di vista strettamente professionale.
La posizione e le dichiarazioni della ricorrente, continua la Corte, pretendevano un alto livello di protezione della sua libertà di espressione, nonché uno stretto scrutinio di ogni interferenza sulla stessa, con corrispondente devoluzione di un ristretto margine di apprezzamento alle autorità dello Stato. La rimozione anticipata dal suo prestigioso incarico mal si concilia con la natura della funzione giudiziaria quale branca indipendente del potere statale, nonché con il principio di indipendenza della procura che, come sostenuto dal Consiglio d’Europea e da altre istituzioni internazionali, è elemento chiave del mantenimento dell’indipendenza giudiziaria. La misura sanzionatoria imposta alla ricorrente ha al contrario osteggiato il perseguimento di tale obiettivo, causando inoltre il preoccupante effetto di scoraggiare la partecipazione di altri giudici e procuratori al dibattito pubblico sulle riforme giudiziarie ed in generale sull’indipendenza della magistratura.

Infine, si nota che la ricorrente non ha presentato domanda di equa soddisfazione per il ristoro dei danni morali connessi alle suddette violazioni.

Come citare il contributo in una bibliografia:
S. Carrer, Lo stato di diritto vince a Strasburgo: la Corte EDU condanna la Romania per la rimozione anticipata della procuratrice capo Kövesi dal suo incarico, in Giurisprudenza Penale Web, 2020, 5