ARTICOLIDIRITTO PENALE

La Cassazione torna a pronunciarsi sulla natura della confisca di somme di denaro, in attesa delle motivazioni delle Sezioni Unite.

[a cura di Lorenzo Roccatagliata]

Cass. pen., Sez. III, Sent. 17 maggio 2021 (ud. 8 aprile 2021), n. 19163
Presidente Sarno, Relatore Galterio

In attesa del deposito delle motivazioni della sentenza delle Sezioni Unite, con la quale è stato enunciato il seguente principio di diritto “qualora il profitto derivante dal reato sia costituito da denaro, la confisca viene eseguita, in ragione della natura del bene, mediante l’ablazione del denaro comunque rinvenuto nel patrimonio del soggetto fino alla concorrenza del valore del profitto medesimo e deve essere qualificata come confisca diretta e non per equivalente” (in questa Rivista, ivi), merita segnalare la sentenza in epigrafe, con cui la Corte di cassazione, Sezione terza, pochi giorni prima della decisione delle Sezioni Unite, ha espresso posizioni che allo stato sembrerebbero in parte contrastanti.

In premessa, la Corte ha ricordato che “allorquando l’oggetto della misura cautelare reale sia il danaro, ovverosia un bene per sua natura fungibile destinato a confondersi con le consistenze di uguale natura facenti già parte del patrimonio del destinatario, il nesso di strumentalità intercorrente tra la res attinta dal vincolo ed il reato si modula diversamente a seconda che si tratti di sequestro preventivo finalizzato alla confisca diretta ovvero alla confisca per equivalente. Mentre nel primo caso la misura è diretta a colpire il bene che rappresenta il beneficio derivato al suo autore dal compimento dell’illecito, ovverosia il prezzo o il profitto, nel caso della confisca per equivalente, operante solo allorquando non sia possibile disporre quella diretta, l’agente viene privato di beni nella sua disponibilità economica che, senza alcuna pertinenzialità, con il delitto abbiano un valore pari al prezzo o al profitto dell’illecito”.

Il Collegio ha poi rilevato che “al fine di mantenere inalterata, quando si tratti di denaro, la ontologica differenza tra i due istituti, l’uno avente funzione prettamente cautelare, volta cioè ad impedire la protrazione degli effetti dell’illecito, e l’altro invece sanzionatoria, occorre tuttavia che nel caso del sequestro finalizzato alla confisca diretta il danaro colpito dalla misura sia configurabile come ‘profitto accrescitivo’, ovverosia che abbia ad oggetto somme già in possesso del destinatario vuoi materialmente, vuoi confluite sui conti correnti o sui depositi bancari allo stesso riconducibili al momento della commissione del reato o comunque del suo accertamento, essendo la relazione di strumentalità considerata in tal caso sussistente per effetto della naturale confusione del profitto derivante dal reato, collimante nei reati tributari con il ‘risparmio di spesa’ determinato dalla violazione dell’obbligo fiscale, con le altre disponibilità economiche del reo”.

Secondo i giudici, infatti, “diversamente opinando, ovverosia prescindendo dal tempo della maturazione del credito e quindi ammettendo che il vincolo reale possa estendersi anche ad importi di danaro indistintamente accreditati sui conti o confluiti nei depositi bancari dell’autore del reato anche successivamente alla commissione del reato, si perverrebbe invece a confondere la confisca diretta in quella per equivalente, finendosi con l’includere tra i beni confiscabili in via diretta somme del tutto sganciate, dal punto di vista logico e cronologico, dal profitto derivato dall’illecito”.

Da ciò consegue, secondo la Corte, “che se è sempre legittimo il sequestro preventivo finalizzato alla confisca diretta, senza che sia necessaria la dimostrazione del nesso di derivazione delle somme di danaro presenti sui conti correnti o sui depositi bancari riconducibili all’indagato al momento della commissione del delitto, invece per le somme di valore corrispondente entrate a far parte del suo patrimonio in un momento successivo occorre dimostrare che esse siano in qualche modo collegabili al reato e dunque ad esso legate da un rapporto di derivazione anche indiretta”.

Ha concluso il Collegio affermando che “la natura fungibile del denaro non è sufficiente in questi casi a qualificare di per sé come ‘profitto’ l’oggetto del sequestro, essendo necessario anche provare che la disponibilità della somma successivamente sequestrata costituisca essa stessa risparmio di spesa conseguito con il mancato versamento dell’imposta o che si tratti di liquidità rimasta nella disponibilità del contribuente”.

In tema è opportuno richiamare la precedente conforme Cass. n. 7434/21, nonché Cass. n. 7201/21, commentata in questa Rivista da Filippo Lombardi, la quale ha suscitato l’intervento delle Sezioni Unite evocato in apertura.

Redazione Giurisprudenza Penale

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