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La bancarotta fraudolenta per operazioni dolose può essere commessa mediante condotta omissiva.

[a cura di Lorenzo Roccatagliata]

Cass. pen., Sez. V, Sent. 9 giugno 2021 (ud. 18 febbraio 2021), n. 22765
Presidente Vessicchelli, Relatore Belmonte

Con la sentenza in epigrafe, la Corte di cassazione, Sezione quinta, si è pronunciata in merito alla fattispecie di bancarotta fraudolenta impropria commessa mediante operazioni dolose (articolo 223, comma 2, n. 2, Legge fallimentare).

Merita preliminarmente segnalare che lo spunto più interessante della sentenza riguarda la possibilità, ammessa dalla Corte, che l’operazione dolosa abbia carattere omissivo e consista nell’omesso versamento delle imposte dovute dalla società.

Su un piano generale, la Corte ha anzitutto rilevato che “l’art. 223 comma secondo n. 2 L.f. configura una ipotesi di bancarotta fraudolenta impropria della quale possono rispondere amministratori, direttori generali, sindaci e liquidatori delle società fallite, che abbiano cagionato con dolo o per effetto di operazioni dolose il fallimento della società. A differenza dalla bancarotta fraudolenta patrimoniale e documentale (…), che postulano il compimento di atti di distrazione o dissipazione di beni societari, tali da creare pericolo per le ragioni creditorie, a prescindere dalla circostanza che abbiano prodotto il fallimento, essendo sufficiente che questo sia avvenuto, nella bancarotta impropria cagionata da operazioni dolose, le condotte dolose, che non necessariamente costituiscono distrazione o dissipazione di attività, devono porsi in nesso eziologico con il fallimento”.

Secondo i Giudici di legittimità, “si tratta di reato a forma libera, integrato da condotta attiva o omissiva, costituente inosservanza dei doveri rispettivamente imposti ai soggetti indicati dalla legge, nel quale il fallimento è evento di danno, e si ritiene che la fattispecie si realizza non solo quando la situazione di dissesto trovi la sua causa nelle condotte o operazioni dolose ma anche quando esse abbiano aggravato la situazione di dissesto che costituisce il presupposto oggettivo della dichiarazione di fallimento”.

Più in dettaglio, “poiché l’amministratore ha un obbligo di fedeltà nei confronti della società, ogni violazione di questo integra, sussistendone le altre condizioni, un’operazione dolosa ai sensi dell’art. 223 co. 2 n. 2 L.f., che può, pertanto, consistere nel compimento di qualunque atto intrinsecamente pericoloso per la salute economica e finanziaria della impresa e, quindi, anche in una condotta omissiva produttiva di un depauperamento non giustificabile in termini di interesse per l’impresa”.

Difatti, si è affermato, “la ‘operazione’ è termine semanticamente più ampio della ‘azione’, intesa come mera condotta attiva, e ricomprende l’insieme delle condotte, attive od omissive, coordinate alla realizzazione di un piano; sicché, può ben essere integrata dalla violazione – deliberata, sistematica e protratta nel tempo – dei doveri degli amministratori concernenti il versamento degli obblighi contributivi e previdenziali, con prevedibile aumento dell’esposizione debitoria della società”.

La Corte si è poi soffermata sulla distinzione tra la fattispecie in analisi e quella, anch’essa prevista dall’art. 223, comma 2, n. 2, L.f., di bancarotta fraudolenta per aver cagionato con dolo il fallimento della società.

Secondo il Collegio “le due fattispecie contemplate dal secondo comma dell’art. 223 L.f., che, dal punto di vista oggettivo, non presentano sostanziali differenze, sotto il profilo soggettivo, vanno tenute distinte. Secondo la testuale previsione normativa di cui al comma secondo dell’art. 223 L.f., la causazione del fallimento deve essersi verificata con dolo o per effetto di operazioni dolose, incentrandosi la differenza tra tali due fattispecie – che contemplano entrambe una condotta dei soggetti qualificati che ha determinato il dissesto da cui è scaturito il fallimento – sull’elemento soggettivo, nel senso che la locuzione ‘con dolo’ va intesa con riferimento alla definizione di cui all’art. 43 cod. pen., per cui il fallimento deve essere previsto e voluto dall’agente come conseguenza della sua azione od omissione; la giurisprudenza è orientata, cioè, a ritenere che detta espressione si riferisca ai soli casi in cui il fallimento della società sia stato l’obiettivo avuto di mira dall’agente (dolo diretto)”. Si tratta, dunque, di una fattispecie a dolo diretto di evento.

Viceversa, “nel fallimento conseguente a operazioni dolose, esso è solo l’effetto, dal punto di vista della causalità materiale, di una condotta volontaria, ma non intenzionalmente diretta a produrre il dissesto fallimentare, anche se il soggetto attivo dell’operazione ha accettato il rischio che esso si verifichi. (…) Si afferma, infatti, che non è necessaria la volontà diretta a provocare il dissesto, essendo sufficiente la consapevolezza di porre in essere un’operazione che, concretandosi in un abuso o in un’infedeltà nell’esercizio della carica ricoperta o in un atto intrinsecamente pericoloso per la salute economico finanziaria della società, determini l’astratta prevedibilità della decozione”. Si tratta, dunque, di una fattispecie a dolo generico.

Redazione Giurisprudenza Penale

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