La sentenza di appello nel processo Banca Popolare di Vicenza: ancora in tema di autonomia e indipendenza dell’Organismo di Vigilanza
in Giurisprudenza Penale Web, 2023, 1 – ISSN 2499-846X
Corte di Appello di Venezia, Sez. I penale, 4 gennaio 2023 (ud. 10 ottobre 2022), n. 3348
Presidente dott. Giuliano, Giudici dott.ssa Beccaro – dott. Calabria
Segnaliamo ai lettori, in considerazione dell’interesse mediatico della vicenda, la pronuncia emessa dalla Corte di Appello di Venezia nell’ambito del processo “Banca Popolare di Vicenza” (su cui abbiamo già pubblicato la sentenza di primo grado).
Tra i tanti temi giuridici affrontati, ci limitiamo a evidenziare in questa sede – riservandoci un commento più approfondito nelle prossime settimane – quello relativo ai contenuti del Modello e dei presidi 231 e quello relativo ai poteri, all’autonomia e all’indipendenza dell’Organismo di Vigilanza (oggetto della pronuncia di primo grado, qui commentata da C. Santoriello, Autonomia, indipendenza ed operato dell’Odv: note alla sentenza sul caso Banca Popolare di Vicenza, in Giurisprudenza Penale Web, 2021, 7-8).
Quanto al primo aspetto, la Corte di Appello ha evidenziato la necessità che il Modello 231 sia caratterizzato da prescrizioni che non siano generiche, di portata assolutamente generale o contenenti divieti attinenti a profili marginali rispetto alla esigenza di prevenire i reati ma, al contrario, sia calato nella realtà aziendale nella quale è destinato a trovare attuazione e sia, cioè, composto da vere e proprie “contro-misure di prevenzione” realmente idonee ed efficaci a prevenire i reati che più facilmente possono verificarsi (nel caso di specie, aggiotaggio e ostacolo alla vigilanza).
Quanto al secondo tema, i giudici di appello si sono soffermati sui requisiti in presenza dei quali possa dirsi presente l’indipendenza e l’autonomia dell’Odv (intesa come assenza di subordinazione del controllante al controllato e, in ogni caso, di possibili ragioni di condizionamento), sull’importanza della programmazione dell’attività di verifica dell’organismo (così come risultante dai verbali dell’attività svolta) nonché sulle garanzie di riservatezza delle comunicazioni da inviare all’Odv. Nella vicenda in esame, la Corte ha parlato di istruttoria dibattimentale che ha restituito l’immagine di una “osmosi” di fatto pressoché completa tra l’Odv ed i vertici aziendali, tanto da rendere del tutto impalpabili i margini di autonomia ed effettività dell’attività di controllo svolta da tale organismo.
1. Modello 231 e presidi
La Corte di Appello ha preso le mosse ricordando come, ad avviso del giudice di primo grado, da un lato «nel modello adottato da BPVi, nulla di realmente specifico fosse previsto con riferimento alla prevenzione dei reati di aggiotaggio e di ostacolo alla vigilanza, fin dalla fase di profilazione dei rischi» e, dall’altro, «come il modello non fosse stato attuato e presidiato da un organismo di vigilanza realmente idoneo allo scopo (sotto lo specifico profilo della dotazione di adeguati poteri e, soprattutto, degli indispensabili requisiti di indipendenza)».
Sempre in termini generali, i giudici hanno ricordato come «il modello organizzativo altro non rappresenta che uno strumento di gestione del rischio da commissione di (determinati) reati, ovverosia un dispositivo finalizzato a scongiurare la perpetrazione di attività delittuose poste in essere, come s’è detto, nell’interesse o a vantaggio dell’ente medesimo e, quindi, ad evitare le conseguenze sfavorevoli costituite, per l’ente in questione, dalle relative dalle sanzioni».
Ne deriva che «un modello organizzativo adeguato – la sussistenza del quale vale, unitamente alle altre condizioni, ad escludere la “colpa di organizzazione” (e, quindi, la responsabilità dell’ente, ex art. 6, co. 1 lett. a), D. l.vo 231/01) – deve essere caratterizzato dall’adozione e dalla conseguente attuazione di contro-misure di “prevenzione” idonee ed efficaci, contro misure che, per essere ritenute tali, non solo devono rispondere ai parametri astrattamente delineati ex artt. 6, 7 D.L.vo citato, ma devono poi essere adeguate alla concreta situazione di riferimento».
Ciò premesso, la Corte ha ritenuto che, nel caso in esame, il modello risultasse «caratterizzato da prescrizioni per lo più generiche e, quindi, manifestasse gravi lacune tanto sotto il versante dell’idoneità quanto sotto quello dell’efficacia».
Dopo il richiamo alla disciplina di settore e la individuazione della aree di rischio – si legge nella decisione – «il modello in esame contiene indicazioni di portata assolutamente generale per prevenire la commissione dei delitti in questione, in larga parte risolvendosi nella previsione della adozione di un’organizzazione interna basata sui criteri di ripartizione di competenze e segregazione funzionale in ordine a specifiche attività, nonché di cura di adempimenti formali, ovvero nell’impartire divieti attinenti a profili marginali rispetto all’esigenza di prevenire i reati in esame».
Più nel dettaglio, dall’analisi delle previsioni contenute in detto modello emerge, con specifico riferimento al rischio di commissione dei delitti di aggiotaggio e ostacolo alla vigilanza, «l’assenza di previsioni puntuali riferibili, oltre che alle modalità di predisposizione dei bilanci (segnatamente, in relazione al computo dei requisiti patrimoniali anche ai fini del patrimonio di vigilanza) e di erogazione del credito, a profili essenziali dell’operatività della banca, sempre in relazione al pericolo di commissione dei suddetti delitti».
Si tratterebbe, segnatamente, dei seguenti profili: «a) meccanismi di controllo delle operazioni di collocamento delle azioni dell’istituto, azioni il cui valore – va ribadito – era affidato alla autodeterminazione da parte della banca; b) impieghi ai quali erano destinati i finanziamenti concessi dall’istituto medesimo rispetto alla collocazione delle azioni (a mero titolo di esempio: non era contemplata la diretta verifica delle operazioni di finanziamento; né erano disciplinate interlocuzioni con la clientela finanziata, neppure in relazione agli aumenti di capitale); c) flusso di informazioni interne (sempre a titolo meramente esemplificativo: manca la previsione di report periodici provenienti dai settori più a rischio in relazione alle fattispecie in esame; né constano presidi organizzativi tali da assicurare che all’OdV potessero giungere segnalazioni con modalità tali da assicurare garanzie reali di riservatezza); d) flusso di informazioni esterne».
Quanto a quest’ultimo aspetto, la Corte ha ricordato come «il delitto di aggiotaggio sia stato efficacemente definito un “delitto di comunicazione“» e che, pertanto, «è proprio su tale versante che il modello – e, quindi, il controllo – avrebbe dovuto mostrare la propria adeguatezza. Con specifico riferimento al delitto di aggiotaggio informativo, invero, la predisposizione di un effettivo presidio avrebbe reso indispensabile l’attribuzione all’OdV di poteri di verifica preventiva circa la fondatezza delle notizie destinate ad essere diffuse al mercato».
Diversamente – prosegue la pronuncia – «nel modello adottato da BPVi nessuna efficace verifica risulta prevista sul fronte delle comunicazioni “esterne” (ivi compresi i comunicati stampa) ad opera di un organismo di vigilanza interno che fosse effettivamente munito (come si dirà meglio più oltre) di reali requisiti di autonomia».
Con specifico riferimento alla materia dei rapporti con le autorità di vigilanza (e, più in generale, con l’esterno), la Corte ha evidenziato come, «a parte il generico riferimento ai doveri di collaborazione e di trasparenza nei confronti degli esponenti di dette autorità, le uniche disposizioni puntuali che è dato rinvenire nel modello attengono al divieto di effettuare/ricevere regali ed omaggi. Per contro, non solo non risulta contemplata possibilità alcuna di espressione di una sorta di “dissenting opinion” sul “prodotto finito” tale da “mettere in allarme i destinatari”, siano essi le autorità di vigilanza, ovvero il pubblico; ma – ed è quel che più rileva in questa sede – neppure consta che tali comunicazioni venissero previamente comunicate all’ODV per una preliminare valutazione o, comunque, per l’opportuna conoscenza». Né – è stato pure convenientemente evidenziato dal tribunale – «erano previsti controlli a sorpresa nei confronti delle attività aziendali sensibili».
2. Poteri e indipendenza dell’Organismo di Vigilanza
Il modello in esame – prosegue la sentenza – «introduceva un organismo di vigilanza privo di autonomia effettiva rispetto alla direzione societaria, donde un ulteriore, decisivo profilo di inadeguatezza di tale strumento organizzativo». Nello specifico, «la direzione dell’ODV era affidata, al “Responsabile pro tempore della Direzione Internal Audit”, affiancato da “due soggetti esterni che non abbiano alcun rapporto di lavoro dipendente con il Gruppo Banca Popolare di Vicenza” (nel caso di specie, due avvocati). Era previsto, inoltre, che il Presidente di tale organismo non rivestisse “cariche sociali nelle società del Gruppo medesimo”».
Nel richiamare la pronuncia di primo grado, i giudici hanno ricordato come «tanto il presidente che i due ulteriori componenti dell’organismo erano soggetti privi della necessaria indipendenza:
– il primo, in quanto dipendente gerarchicamente dal d.g. e funzionalmente dal Cda, ovverosia proprio dai “poteri” che avrebbe dovuto controllare;
– i secondi, in quanto soggetti che avevano ricevuto retribuzioni da società riconducibili a BPVi, con conseguente sussistenza di elementi oggettivamente tali da minarne l’autonomia di giudizio».
Significativa di tale legame tra OdV e vertici aziendali – continua la Corte – «è la circostanza (convenientemente richiamata dal primo) costituita dal fatto che la relazione sulle attività svolte dall’ODV era effettuata, in sede di CdA, proprio dal direttore generale. Ebbene, anche su tali convincenti argomentazioni l’atto di appello ha omesso ogni specifica, reale considerazione critica, essendosi limitato a ribadire, all’uopo richiamandosi alle previsioni contenute nel modello, tanto l’autonomia dell’organismo di vigilanza quanto la disponibilità, in capo a tale soggetto, di adeguati poteri».
Per contro – si evidenzia – si tratta di un «profilo di essenziale rilievo, solo a considerare l’assoluta centralità rivestita da un OdV dotato di effettivi, penetranti poteri e, soprattutto, assistito da un effettivo statuto di autonomia (necessariamente intesa come assenza di subordinazione del controllante al controllato e, comunque, di ragioni di condizionamento) perché possa affermarsi l’idoneità del modello organizzativo».
Ulteriore conferma dell’inadeguatezza con riferimento all’effettiva indipendenza ed ai poteri dell’OdV, del resto, «la si ricava, sul piano logico, per un verso, dalla durata della condotta illecita (come visto protrattasi per alcuni anni) e dal numero elevato dei soggetti coinvolti; e, per altro verso, dalla condotta tenuta dal componente del collegio: sebbene a conoscenza del fenomeno del capitale finanziato sin dal 2012, costui aveva sostanzialmente ignorato tale circostanza, non facendola mai oggetto di verifica, ovvero di approfondimento, ovvero ancora anche di semplice discussione all’interno dell’OdV. È stato lo stesso, del resto, a descrivere l’attività svolta dell’OdV in termini sostanzialmente minimali, soggiungendo di non avere riferito in tal senso, neppure nel corso dell’ispezione del 2015, in quanto intimidito e condizionato dal d.g.».
In effetti – come aveva osservato già il primo giudice – «i verbali delle riunioni dell’OdV non sono che la plastica espressione di un organismo che interpretava il proprio ruolo in modo meramente formale, posto che non offrono la benché minima contezza di alcuna programmazione di attività di verifica, né evidenziano che fossero state rilevate criticità, neppure in relazione ai casi più eclatanti».
A ciò si deve aggiungere – come prima anticipato – il profilo critico legato alla assenza di una concreta garanzia di riservatezza delle comunicazioni da inviare all’OdV: «a tale organismo non risulta giunta alcuna segnalazione in ordine a questioni problematiche e rilevanti ai fini in esame e, questo, nonostante le numerose lamentele dei dipendenti per le continue pressioni sulla rete per la negoziazione di azioni, pressioni delle quali persino i sindacati si erano occupati».
Ciò premesso, la Corte passa poi ad esaminare la situazione successiva alle attribuzioni delle funzioni di vigilanza al Collegio Sindacale (con assunzione formale della carica in data 12.5.2014) evidenziando, tuttavia, come «la situazione, sotto tale profilo, non sia affatto migliorata». Ad avviso del giudice di secondo grado, «tale organismo difettava anch’esso di reale indipendenza, in quanto costituito secondo logiche di cooptazione e composto da sindaci alcuni dei quali avevano importanti interessenze con il presidente. D’altronde, uno dei sindaci – il quale, di lì a poco, avrebbe assunto le funzioni di presidente dell’OdV – aveva bensì partecipato all’assemblea dei soci del 26.4.2014, assemblea in occasione della quale un socio aveva denunziato il fenomeno delle operazioni correlate; nondimeno, una volta assunta la direzione dell’OdV, non aveva ritenuto di avviare, in proposito, alcuna attività di serio approfondimento, analogamente, del resto, alla condotta che avrebbe tenuto successivamente alla seduta del Cda del 4.11.2014 nel quale si era discusso un articolo del “Il Sole 24 Ore”».
In conclusione – si legge nella sentenza – «l’istruttoria dibattimentale ha restituito l’immagine di una “osmosi” di fatto pressoché completa tra l’OdV ed i vertici aziendali, tanto da rendere del tutto impalpabili i margini di autonomia ed effettività dell’attività di controllo svolta da tale organismo».
Secondo i giudici, la riprova di detta inadeguatezza la si ricava anche «dalla semplice constatazione che la commissione dei reati non ha affatto richiesto alcuna condotta elusiva e fraudolenta del modello in esame: molto più semplicemente, detto modello non ha rappresentato ostacolo di sorta per la consumazione delle condotte di aggiotaggio e di ostacolo alla vigilanza (in particolare, per quanto concerne le comunicazioni al mercato ed alla vigilanza), tanto che gli autori delle condotte delittuose non si sono minimamente dovuti preoccupare di “aggirarlo” e, questo, proprio perché il modello in questione costituiva un presidio non solo del tutto formale ma anche radicalmente “fuori fuoco” rispetto alle condotte sub iudice».
Da ultimo, nessun rilievo è stato attribuito al fatto che il modello adottato dall’istituto di credito vicentino abbia seguito lo schema predisposto dall’ABI. A tale riguardo, infatti, i giudici hanno ricordato come la giurisprudenza di legittimità abbia precisato, «con argomenti del tutto persuasivi, come nessun rinvio per relationem a schemi predisposti dalle associazioni di categoria (e ancor meno, quindi, a presunte “best practices“, nella specie, peraltro, neppure evocate) possa ritenersi operato dalla previsione ex art. 6, co. 3 D. L.vo cit., là dove pure è previsto che i modelli di organizzazione possano (e non debbano) essere adottati sulla scorta di codici di comportamento redatti dalle associazioni rappresentative del settore, spettando al giudice – il quale, beninteso, non potrà fare leva su personali convincimenti, ovvero su soggettive opinioni – la verifica dell’adeguatezza del modello, una volta doverosamente “calato nella realtà aziendale nella quale è destinato a trovare attuazione“».
Come citare il contributo in una bibliografia:
G. Stampanoni Bassi, La sentenza di appello nel processo Banca Popolare di Vicenza: ancora in tema di autonomia e indipendenza dell’Organismo di Vigilanza, in Giurisprudenza Penale Web, 2023, 1