ARTICOLIDIRITTO PENALEIN PRIMO PIANO

Aiuto al suicidio: la richiesta di archiviazione della Procura di Milano nei confronti di Marco Cappato (casi di Elena e Romano)

[a cura di Guido Stampanoni Bassi]

Procura della Repubblica presso il Tribunale di Milano, richiesta di archiviazione, 15 settembre 2023
Dott.ssa Tiziana Siciliano – Dott. Luca Gaglio

Segnaliamo, in considerazione dell’interesse mediatico delle vicende, la richiesta di archiviazione presentata dalla Procura di Milano nel procedimento che vede coinvolto Marco Cappato per aver accompagnato due persone (la Sig.ra Elena e il Sig. Romano) in una clinica svizzera a praticare il suicidio assistito.

Dopo una ricostruzione delle vicende, la Procura si è soffermata sull’inquadramento giuridico dei fatti – qualificati all’interno della fattispecie di cui all’art. 580 c.p. – sulla sussistenza della giurisdizione italiana e sulla applicabilità, ai casi di specie, dei criteri affermati dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 242/2019 nella vicenda Dj Fabo.

Quanto a quest’ultimo aspetto, la Procura ha precisato di aver incaricato diversi esperti di esperire più consulenze tecniche, essendo «i requisiti individuati dalla Consulta in prevalenza di carattere squisitamente tecnico, nello specifico medico, essendo soltanto la scienza medica in grado di chiarire se le persone offese fossero affette da patologia incurabili (requisito sub A), se tale patologia fosse fonte di sofferenze fisiche o psicologiche intollerabili (requisito sub B), se il soggetto fosse tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale (requisito sub C)». Al contrario, «restano appannaggio del giudice la valutazione circa la componente soggettiva dell’intollerabilità dei dolori nonché la valutazione di integrità della capacità di intendere e di volere nonché la volontarietà dell’atto suicidario».

Tra i vari criteri, i Pubblici Ministeri si sono soffermati, in particolare, su quello sub C) – ossia il fatto che il malato fosse tenuto in vita a mezzo di “trattamenti di sostegno vitale” – il quale assume rilievo nei casi di specie considerato il fatto che, sebbene le due persone offese fossero affette da patologie gravissime ed altamente invalidanti, «le loro funzioni vitali si esplicavano autonomamente».

Per questo motivo – si legge nella richiesta di archiviazione – «gli scriventi hanno ritenuto necessario delineare con la minore approssimazione possibile la nozione di “trattamenti di sostegno vitale”, al fine di meglio comprendere quali situazioni – e dunque quali condotte – possano dirsi ricomprese nel dictum della Corte.  In secondo luogo, si è ritenuto necessario accertare se – e nel caso quando – le due persone offese di cui al presente procedimento sarebbero state sottoposte a trattamenti di sostegno vitale». In caso affermativo – si prosegue – «la domanda che sarebbe doveroso porsi, e se del caso porre alla Corte delle leggi, è se sia necessario attendere quel momento, quella condizione, ossia l’intervenuta dipendenza dalle “macchine”, da molti aborrita – certamente dai sig.ri Elena e Romano come attestato dalle persone informate sui fatti e dalla documentazione clinica – in quanto percepita come non dignitosa, per poter accedere al c.d. suicidio assistito; ovvero se, all’opposto, la necessità dell’attesa di tale condizione non porti ad un’intollerabile disparità di trattamento tra chi, lucido, cosciente, affetto da una malattia certamente inguaribile ed afflitto da sofferenze intollerabili, non possa adire al fine vita, rispetto a chi invece possa liberamente compiere tale scelta, unicamente per il fatto di dipendere da un trattamento di sostegno vitale».

E’ stato così interpellato dalla Procura il Professor Luciano Gattinoni, luminare di fama mondiale nel campo della rianimazione, il quale ha allegato all’elaborato consulenziale, a sostegno delle relative conclusioni, un documento frutto di un consensus tra i maggiori esponenti della medicina d’urgenza nel panorama europeo.

La Procura ha ulteriormente premesso come «la Corte costituzionale abbia fatto riferimento ad un concetto che non ha definizione giuridica espressa, non sussistendo nell’ordinamento una nozione legislativa di “trattamento di sostegno vitale”» e che, non a caso, «in giurisprudenza si sono già registrati casi di interpretazione assai lata del concetto, fino al punto di includervi “qualsiasi trattamento sanitario interrompendo il quale si verificherebbe la morte del malato anche in maniera non rapida” (Corte d’Assise di Massa, sentenza 27.7.2020, n. 1, $15.2)».

La consulenza tecnica conferita da questi Pubblici Ministeri – si legge nella richiesta di archiviazione – «fornisce una definizione di “supporto vitale” ed individua i casi in cui tale trattamento non è necessario in quanto futile e/o espressivo di accanimento terapeutico; il citato consensus internazionale dei massimi esperti di medicina d’urgenza, infatti, considera come “supporto vitale” solo quegli interventi non curativi necessari al mantenimento in vita del paziente la cui eliminazione porterebbe alla morte del paziente in un tempo relativamente breve (quale è il caso dei presidi di alimentazione e idratazione artificiali) nonché le forme di supporto vitale che si traducono nella sostituzione artificiale di alcune funzioni organiche (ventilazione meccanica; supporto per gli scambi gassosi; supporto alle funzioni renali, cardiache o epatiche). Il consulente, infatti, afferma che per supporto vitale si intende l’insieme di tecniche (in continua evoluzione) che vicariano funzioni d’organo compromesse. In loro assenza, la vita non può essere mantenuta».

In modo schematico, quindi, «si potrebbe dire che ai fini della scienza medica sono “trattamenti di supporto vitale” quegli interventi che: a) non hanno funzione curativa, ma di sostituzione transitoria o permanente di una funzione d’organo compromessa, allo scopo di mantenere in vita il paziente; b) si trovano in rapporto diretto con il mantenimento in vita del paziente stesso, nel senso che la sospensione del trattamento determina necessariamente la morte del paziente in un tempo più o meno lungo. Essi sono praticati e praticabili solamente per guadagnare tempo in presenza di una condizione potenzialmente reversibile o per mantenere in vita un paziente affetto da una patologia irreversibile. Al contrario, tali interventi non sono praticati né praticabili quando, sulla base di una considerazione squisitamente medica, si appalesino inutili, futili e come tali qualificabili come “accanimento terapeutico” ai sensi dell’art. 2, comma 2, legge n. 219/2017».

Tale ipotesi, a detta del consulente, «ricorre quando il corpo del paziente sia ancora in grado di funzionare autonomamente, senza bisogno di aiuti esterni, oppure, all’opposto, si sia in presenza di condizioni pre-terminali in cui la riduzione delle funzioni d’organo è la normale circostanza che precede il decesso. In queste ipotesi, da un punto di vista medico, tali interventi non vengono normalmente neanche attivati; è possibile, poi, che si verifichi un terzo scenario: a seguito dell’attivazione del trattamento di supporto vitale, le condizioni del paziente evolvono in modo da rendere evidente una prognosi sfavorevole, ragione per cui il mantenimento del trattamento si trasforma – da strumento terapeutico volto a consentire un ripristino di funzionalità compromesse – in una forma di accanimento che prolunga l’ultima agonia».

Proprio questi limiti di utilità dei trattamenti di supporto vitale – che si traducono in limiti alla praticabilità degli stessi, alla luce dell’art. 2, comma 2, legge 219/2017 – «inducono il consulente a concludere che “il supporto vitale non è un passo obbligato fra la vita e la morte”, principio su cui “larghissima parte della comunità medica, clinica e scientifica è concorde».

Come evidenziato dalla consulenza del professor Gattinoni, dunque, «le persone offese al cui suicidio l’odierno indagato ha contribuito causalmente non erano e non avrebbero potuto essere sottoposte a trattamenti di supporto vitale senza che ciò sfociasse in una forma di accanimento terapeutico – contrario, si noti, all’art. 2 della legge n. 219/2017. Entrambi, però, erano soggetti in condizioni di patologie irreversibili, fonte di sofferenza fisica e psichica, destinata ad esitare in un tempo più o meno breve nella morte, rispetto alla quale gli eventuali trattamenti medici avrebbero potuto porsi unicamente come rallentamento e non anche come impedimento».

In altri termini, «in entrambi i casi (peraltro unicamente ipotizzabili), il supporto vitale, in accordo con quanto precedentemente discusso, sarebbe pienamente rientrato nella categoria di futilità, configurandosi unicamente come accanimento terapeutico. Non avrebbe infatti avuto altro effetto che prolungare l’agonia in una malattia irreversibile, non curabile, senza possibilità di recupero; una volta divenuta necessaria la sottoposizione a trattamenti di sostegno vitale, sia Romano, sia Elena avrebbero rifiutato di sottoporvisi, com’era loro diritto fare, e sarebbero deceduti in un lasso di tempo non brevissimo, in una condizione da essi stessi non ritenuta dignitosa e causativa di ulteriori sofferenze ai rispettivi familiari».

Alla luce di tutto ciò, la Procura ha concluso ritenendo che «l’unica definizione possibile di “trattamenti di sostegno vitale” coerente con l’argomentazione fornita dalla Corte Costituzionale e con i principi posti dalla Carta sia quella che qualifica come tale “ciascun trattamento sanitario, di qualunque tipo, avente finalità terapeutica diretta al rallentamento di una patologia comunque irreversibile o di surrogazione di funzioni d’organo compromesse, la cui sospensione o la cui mancata attivazione porti con alta probabilità alla morte del paziente per via della patologia in atto in modo più rapido di quello che si avrebbe ove fossero mantenuti o praticati».

***

In conclusione, secondo la Procura di Milano «una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 580 c.p., alla luce del disposto degli artt. 2 e 32 della Carta, della sentenza n. 242 / 2019 Corte Cost. e del dettato della legge n. 219/2017, impone di ritenere che rientrino nell’ambito di non punibilità delineato dalla Corte anche i casi in cui – in presenza di tutti gli ulteriori requisiti – il paziente non sia tenuto in vita per mezzo di trattamenti di sostegno vitale, in quanto egli stesso rifiuti trattamenti che – si – rallenterebbero il processo patologico e ritarderebbero la morte senza poterla impedire, ma sarebbero futili o espressivi di accanimento terapeutico secondo la scienza medica, non dignitosi secondo la percezione del malato, e forieri di ulteriori sofferenze per coloro che lo accudiscono».

Anche in tali casi, «dovrebbe ritenersi che il soggetto che – come Marco Cappato nei casi in esame – agevoli il suicidio di una persona affetta da malattia irreversibile e che provochi estrema sofferenza, che coscientemente e lucidamente abbia deciso di porre fine alla propria vita, e che rifiuti di sottoporsi a trattamenti di sostegno vitale futili, esercitando un diritto garantitogli dall’art. 32 Cost. e dalla legge n. 219/2007, non violi il bene giuridico protetto dall’art, 580 c.p., ma anzi consenta il concreto esercizio del diritto all’autodeterminazione così come sopra delineato e positivamente presidiato, nei casi in cui il titolare del diritto non sia in grado di esercitarlo autonomamente».

Marco Cappato – conclude la richiesta di archiviazione – «ha aiutato a suicidarsi due soggetti, entrambi affetti da patologie irreversibili e destinate ad esitare con certezza nella morte degli stessi in tempo relativamente breve, fonte per loro di sofferenze psicologiche e fisiche insopportabili. Entrambi i soggetti, poi, erano capaci di intendere e di volere. È certo, inoltre, che il suicidio assistito delle persone offese sia avvenuto nel rispetto di procedure equivalenti a quelle di cui alla legge 219/2017, in conformità alla legge del luogo ove il suicidio si è verificato».

Da ultimo, in subordine, la Procura ha evidenziato come, «qualora il Giudice non ritenesse possibile accogliere l’interpretazione proposta – per cui alla sottoposizione a trattamenti di sostegno vitale debba assimilarsi il rifiuto di sottoporvisi qualora gli stessi siano futili, espressivi di accanimento terapeutico e forieri di ulteriori sofferenze per il malato e coloro che lo accudiscono -, l’unica strada praticabile rimarrebbe quella di rimettere nuovamente gli atti alla Corte costituzionale perché si pronunci sul contrasto – rilevante e non manifestamente infondato – tra il requisito sub C inteso in senso restrittivo e il parametro di cui all’art. 3 Cost.».

Redazione Giurisprudenza Penale

Per qualsiasi informazione: redazione@giurisprudenzapenale.com