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Suicidio assistito di una signora 89enne malata di Parkinson: la richiesta di archiviazione della Procura di Bologna nei confronti di Marco Cappato, Felicetta Maltese e Virginia Fiume

[a cura di Guido Stampanoni Bassi]

Procura della Repubblica di Bologna, richiesta di archiviazione, 13 febbraio 2013
Procuratore Dott. Giuseppe Amato

Segnaliamo, in considerazione dell’interesse mediatico della vicenda, la richiesta di archiviazione presentata dalla Procura di Bologna nei confronti di Marco Cappato, Felicetta Maltese e Virginia Fiume, tutti indagati per il reato di cui agli articoli 110, 580 c.p. – a seguito di autodenuncia presentata in Bologna il 9 febbraio 2023 – relativamente al suicidio assistito di una una signora 89enne malata di Parkinson.

La Procura di Bologna, dopo aver richiamato la nota pronuncia della Corte Costituzionale nel caso Dj Fabo, ha osservato come «la vicenda di cui qui ci si occupa non sia immediatamente “risolvibile” evocando i principi della sentenza della Corte costituzionale, per l’assorbente pacifico rilievo della mancanza del requisito consistente nell’essere tenuti in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, giacché la signora era affetta da una patologia irreversibile – il Parkinson– che, però, non implicava l’utilizzo di mezzi di trattamento di sostegno vitale, essendo il mantenimento in vita, pur nelle acclarate, ingravescenti condizioni, non condizionato da tali metodiche».

Ciò premesso, la Procura si è soffermata proprio sul requisito secondo cui il paziente deve essere “tenuto in vita da mezzi artificiali di supporto vitale“, richiamando le considerazioni sviluppate dalla Corte di assise di Massa del 27 luglio 2020 nel caso Davide Trentini, nel quale si era «esclusa la sussistenza tanto di condotte di rafforzamento o istigazione morale che di agevolazione materiale, pur in un contesto in cui certamente mancava il requisito di cui sopra, posto che il paziente era affetto da grave patologia irreversibile (sclerosi multipla) che gli provocava dolori insopportabili e non lenibili, il cui parziale rimedio era la somministrazione di farmaci antidolorifici a dosaggi sempre maggiori, con rischio per la sua vita, ma non era invece dipendente da trattamenti medici necessari per la sopravvivenza, come l’idratazione, l’alimentazione artificiale, l’emotrasfusione».

Tale sentenza – si legge nella richiesta di archiviazione – «ha offerto sul punto una interpretazione ampia del concetto di “mezzi artificiali di sostegno vitale”, andando al di là della precipua situazione di Fabiano Antoniani, la cui vicenda ha costituito l’oggetto del giudizio di costituzionalità: secondo tale convincente lettura, la nozione di “trattamento di sostegno vitale” deve essere intesa in modo [più] estensivo, come comprensiva anche di quei trattamenti di tipo farmacologico, interrotti i quali si verificherebbe la morte del malato anche se in maniera non rapida, così da farvi rientrare – in modo qui calzante – quei trattamenti farmacologici la cui riduzione potrebbe determinare un peggioramento delle condizioni e portare poi alla morte».

Conforto illuminante di tale lettura – prosegue la Procura di Bologna – «può trarsi anche dalla sentenza della Corte di assise di Genova del 28 aprile 2021, che ha confermato quella sopra citata della Corte di assise di Massa, laddove si è tra l’altro affermato che il lapidario divieto di aiutare taluno a procurarsi la morte, contenuto nella norma [l’articolo 580 c.p.], in un periodo storico risalente in cui lo scopo unico era tutelare ad ogni costo la vita intesa come bene sociale, va coniugato col diritto ad una vita dignitosa e col diritto al rifiuto di trattamenti terapeutici a fronte di una malattia che abbia esito certamente infausto, a conclusione di un percorso altrettanto certo di dolore acutissimo e senza fine; ciò che ha portato la Corte di secondo grado a ritenere che legittima era l’aspirazione alla conclusione della vita, lecito era il suicidio assistito, poiché frutto dell’autodeterminazione del malato a congedarsi da una esistenza che non era più in grado di apprezzare, divenuta esclusivamente indicibile sofferenza».

Ad avviso della Procura, «questa lettura sembra convincente e doverosa, non solo perché tiene conto che i principi dettati dalla Corte costituzionale “scontano” la specificità del caso concreto, ma anche per consentire di applicare questi principi in modo costituzionalmente orientato, senza ingiustificate disparità di trattamento. Diversamente, al di là della vicenda de qua, ne deriverebbero una arbitrarietà applicativa e un pregiudizio lesivo del principio di eguaglianza in tutti i casi di pazienti affetti da patologie gravissime che non implichino necessariamente la dipendenza da una macchina, come nel caso dei pazienti oncologici e/o dei pazienti affetti da patologie degenerative».

Nella fattispecie in esame – si conclude – «vi è lo spazio per una doverosa applicazione estensiva dei principi della Corte costituzionale, che, a stretto rigore, non passa attraverso una interpretazione “analogica” della causa di giustificazione, bensì attraverso una rilettura [in modo costituzionalmente orientato] di una decisione i cui esiti applicativi meritano di essere estesi anche a casi diversi, ma assimilabili, rispetto a quello oggetto del giudizio di costituzionalità: ciò impone una soluzione liberatoria e una richiesta di archiviazione risultando le condotte di ausilio prestate dalle persone che si sono autodenunciate tali da non costituire reato».

Diversamente – si precisa da ultimo – «essendo la questione empiricamente rilevante, dovrebbe porsi una questione di costituzionalità dell’articolo 580 c.p., per contrasto con gli articoli 2 e 3 della Costituzione, laddove si ritenesse ancora di rilievo penale la condotta di aiuto al suicidio intendendo la condizione dell’essere “tenuto in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale” come impeditiva dal ricomprendervi anche la somministrazione di farmaci non immediatamente “salvavita”».

Redazione Giurisprudenza Penale

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