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Caso Impagnatiello (omicidio di Giulia Tramontano): le motivazioni della Corte di Assise di Appello di Milano

Corte di Assise di Appello di Milano, Sez. I, 4 agosto 2025 (ud. 25 giugno 2025), n. 18
Presidente dott.ssa Caputo, Relatore dott.ssa Anelli

Segnaliamo ai lettori, in considerazione dell’interesse mediatico e giuridico della vicenda, il deposito della sentenza con cui la Corte di Assise di Appello, in parziale riforma della sentenza di primo grado (confermata nel trattamento sanzionatorio con l’esclusione della aggravante della “premeditazione”), ha condannato all’ergastolo Alessandro Impagnatiello per l’omicidio di Giulia Tramontano.

Gran parte della sentenza è dedicata alla circostanza aggravante della cd. “premeditazione”, di cui all’art. 577 comma 1 n. 3 cod. pen., riconosciuta dai giudici di primo grado ed esclusa da quelli di appello.

I rilievi critici mossi nell’atto di appello – si legge nella sentenza – “sono in massima parte condivisibili, cosicché, sia pure per ragioni e con motivazioni parzialmente diverse da quelle dedotte dall’appellante difesa (comunque precise e pertinenti), il gravame, sul punto, deve trovare accoglimento”.

Ad avviso dei giudici di appello, “la circostanza aggravante della premeditazione non solo non è stata provata, ma è stata anzi contraddetta da efficaci riscontri che ne smentiscono l’integrazione, sia in fatto che in diritto, tanto che l’insistenza sulla sua configurabilità tecnico-giuridica obbliga ad evidenti forzature ricostruttive oltreché a petizioni di principio in astratto anche puntuali ma subito dopo contraddette dalla concreta applicazione dei principi nozionistici al fatto, con citazioni di massime giurisprudenziali palesemente eccentriche ed inappropriate alla casistica in disamina”.

In punto di diritto, la Corte di Assise ha ricordato che “principi nomofilattici consolidati insegnano che la prova della volontà di commissione di un omicidio doloso — e la premeditazione, come si sa, ne è la declinazione più intensa — è prevalentemente affidata, in mancanza di confessione, alla ricerca delle concrete circostanze che abbiano connotato l’azione (di cui deve essere verificata l’oggettiva idoneità a cagionare l’evento in base ad elementi di sicuro valore sintomatico, valutati sia singolarmente sia nella loro coordinazione) ed il tempo che detta azione precede (per apprezzarne durata, fermezza, ponderazione e quant’altro necessario a ricostruire il sotteso processo volitivo)”.

Ebbene, “in mancanza di prova certa circa la sussistenza, a disposizione dell’imputato, di uno spatium deliberandi apprezzabile, necessario per poter ritornare sul proprio convincimento delittuoso, non può considerarsi integrata l’aggravante della premeditazione: se non vi sono, quindi, valide prove che possano dirsi dimostrative e sintomatiche della sua giuridica configurabilità, quali, a mero titolo esemplificativo, una progettualità, allora anche per la circostanza aggravante in esame, come per tutte le circostanze aggravanti, vieppiù quelle che conducono il reo alla pena perpetua, non può non valere il principio processual-penalistico dell’in dubio pro reo”.

L’imputato – si legge nella sentenza – “è stato, si, contraddittorio sicché smentito da solide risultanze probatorie allorquando ha raccontato le modalità esecutive dell’uccisione di Giulia Tramontano, ma non lo è stato affatto quando ha respinto l’accusa della premeditazione, fermamente negando che il topicida fosse il mezzo, ab origine prescelto, per perpetrare il delitto, fosse cioè lo strumento destinato ad uccidere la madre di suo figlio”. All’imputato – continua la Corte – “si può anche non credere quando, minimizzando, racconta di avere somministrato il topicida alla compagna in due sole occasioni (…), ma si è obbligati a credergli sul movente, perché nulla (di probatorio e significativo) vale a smentirlo a fronte di emergenze probanti che lo riscontrano: da un lato, gli esiti tossicologici e, prima ancora, tanatologici; dall’altro il tenore ed il tempo delle ricerche in rete: tutte finalizzate all’aborto del feto non all’omicidio, premeditato, della madre”.

La Corte prosegue osservando come “ricondurre l’aggravante della premeditazione – e, nello specifico, il momento deliberativo omicidiario – al risalente disegno (criminoso) abortivo non solo finirebbe per poggiarsi su una ricostruzione dei fatti fallace, artefatta e travisata, ma potrebbe altresì condurre ad un vistoso errore tecnico-giuridico”.

Non conosciamo il numero e non sappiamo la frequenza delle somministrazioni tossiche patite dalla vittima, men che meno conosciamo il loro dosaggio, se in crescendo oppure no”; tuttavia – prosegue la sentenza citando la decisione di primo grado – “è senz’altro corretto dedurne, razionalmente, sul piano logico, […] che l’imputato, somministrando topicida alla compagna a maggio, quando la stessa si trovava ormai al settimo mese di gravidanza, (…) si rappresentasse concretamente l’eventualità tutt’altro che residuale che un aborto a gestazione cosi avanzata potesse degenerare in una serio pericolo di vita per la madre; e d’altra parte non è possibile affermare che I’imputato con tale comportamento non si rendesse conto, in via più generale, che una tale somministrazione potesse nuocere seriamente alla salute ed alla incolumità della compagna…”.

È esatto, naturalmente” – si legge nella sentenza – “solo che la motivazione (giuridica) appena data sarebbe stata perspicua e inappuntabile per qualificare giuridicamente ciò che ci si sarebbe trovati a giudicare (e punire) ove l’aborto fosse stato effettivamente provocato e ne fosse seguita, quale effetto collaterale (o “complicanza”), la morte della madre, intossicata dalle sostanze ingerite”. Essa, viceversa, “è motivazione che non vale a confezionare la veste giuridica appropriata da dare in questa sede, essendo piuttosto rispondente alla nozione tecnica di dolo eventuale, cioè a dire la più lieve tra le forme di dolo ed (anche) per questo ontologicamente incompatibile con la premeditazione, ch’è invece la più intensa”.

Nell’omicidio premeditato, “l’evento letifero (in tesi d’accusa: la morte di Giulia Tramontano) deve porsi – e deve provarsi che così sia stato – come il primario finalismo dell’azione criminale (di avvelenamento); dovrebbe essere – e deve provarsi che così sia stato – lo scopo inseguito, agognato, progettato, voluto e mai rinunciato, dalla deliberazione sino alla sua esecuzione, col mezzo venefico. Il che, semplicemente, non è accaduto”.

Nell’omicidio eventualmente doloso, invece, “l’agente ponendo in essere una condotta diretta ad altro scopo (anch’esso senz’altro illecito, cioè la consumazione del reato sub B), concentra la sua rappresentazione volitiva sull’azione (di progressivo avvelenamento), mentre l’evento-morte (in tesi d’accusa non solo il feto ma anche la gestante) si presenta come una conseguenza collaterale, secondaria ma messa in conto ed accettata, della sua condotta”.

È pur vero – proseguono i giudici di appello – “che la gravata sentenza contiene un esplicito riferimento alla pretesa compatibilità fra dolo eventuale e premeditazione, non già con propria giurisprudenza innovativa, bensì traendolo da altro arresto di legittimità; ma è altrettanto vero che un isolato precedente (in casistica non assimilabile e che in ogni caso nel prosieguo della stessa massima ribadisce la ineludibile necessità dei noti requisiti costitutivi) non può sconfessare interi Annali di giurisprudenza conforme”.

La conclusione abbracciata dal primo Giudice “si pone, dunque, in contrasto con il contrario insegnamento nomofilattico, prevalente e monocorde secondo cui, per la contraddizione logica che non consente di diversamente opinare, la premeditazione non può che essere incompatibile con il dolo eventuale, richiedendo in capo all’agente il dolo diretto o intenzionale, anche nella forma del dolo alternativo o condizionato”.

E dunque, per tirare le fila – conclude, sul punto, la Corte di Assise di Appello – “se, in ipotesi, l’imputato – perseguendo il fine primario della sua condotta di intossicazione, cioè a dire provocare l’aborto del figlio atteso – rappresentandosi la significativa possibilità di verificazione anche della morte della compagna/gravida – si fosse determinato ad agire comunque, raggiungendo il fine perseguito e accettando l’evento ulteriore, in guisa di eventuale prezzo da pagare, allora Alessandro Impagnatiello sarebbe stato chiamato a rispondere di un capo B (la violazione di cui all’art 593-ter comma 1 c.p., interruzione di gravidanza non consensuale), connotato da dolo diretto, in concorso con un capo A (omicidio volontario), connotato da dolo indiretto o eventuale (e non semplicemente la violazione della precitata norma, nella forma aggravata dall’evento: 3° comma dell’art. 593-ter c.p.)”.

Quello sin qui percorso – si conclude – “è, però, solo un ragionare ipotetico su ciò che si sarebbe potuto verificare ma non si è verificato, non sono i fatti da giudicare”.

Ne consegue che “una aggravante di natura soggettiva, quale è la premeditazione, non può essere configurata in assenza di un nesso causale tra la condotta rimproverata e l’evento, per giunta avendo riguardo ad una azione non idonea e neppure univocamente diretta a cagionare la morte di una persona. Di più. In concreto, risultata inidonea a provocare sia l’evento primariamente cercato (l’aborto), sia l’evento eventualmente accettato (la morte della gestante)”.

A questo punto, la Corte ha tenuto a precisare – “a dispetto dell’ovvietà” – che tutto ciò “non equivale a lasciare impunita, tamquam non esset, la davvero esecrabile condotta di intossicazione, perdurata e ripetuta nel tempo ai danni della persona offesa Giulia Tramontano, come sembrano paventare e temere le costituite Parti Civili, versando in manifesto errore”.

Significa semplicemente” – precisano i giudici – “non valutarla quale mera ipotesi d’accusa: per quello che sarebbe potuta essere epperò non è stata, giacché cosi impongono i precetti normativi di garanzia processual-penalistica, da assicurare sempre, anche attraverso l’obbligo di determinatezza delle imputazioni. Significa valutarla per ciò ch’è stata in concreto, ai fini della commisurazione della pena, nel rispetto delle norme codicistiche, senza forzature interpretative o superfetazione di circostanze aggravanti non provate in fatto ed infondate in diritto, una delle quali (il motivo futile) già caduta in prime cure. Significa valutare detta illecita condotta secondo le regole processuali, senza alcuna necessita di introdurre illazioni, enfatizzazioni e congetture indimostrate per aggravare un fatto di reato che già nel suo realismo è, a dir poco, di eccezionale gravità. Significa, in breve, esercizio della giurisdizione”.

Quanto alle altre circostante, i giudici di appello hanno ritenuto sussistente l’aggravante della cd. “crudeltà”, dal momento che l’imputato “non si è limitato ad uccidere attraverso il metodo che riteneva più immediato ed efficace per portare a termine il suo scopo”, ma ha “voluto dare sfogo ad altro: c’era una furia rabbiosa da scaricare; c’era una “punizione” da infliggere e una frustrazione da canalizzare in energia violenta e omicida ed ecco allora che le lesioni cervicali riscontrate in sede autoptica sono state ben 24, di cui 11 intra vitae”.

In altri termini, “il numero e la reiterazione dei colpi non sono, in questo caso, una superflua, macabra e stilistica enumerazione: valgono a motivare la sussistenza della circostanza aggravante perché rispondenti a lesioni inutilmente afflittive, eccedenti la finalità omicidiaria, sicché crudeli”.

Redazione Giurisprudenza Penale

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