ARTICOLICONTRIBUTIDelitti contro la famigliaDIRITTO PENALEParte speciale

Ambiente di lavoro, parafamiliarità e reato di maltrattamenti – Cass. Pen. 53416/2014

Cassazione Penale, Sez. VI, 22 dicembre 2014 (ud. 22 ottobre 2014), n. 53416
Presidente Ippolito, Relatore Bassi, P.G. Policastro

Massima

Ai fini della sussumibilità del mobbing nella fattispecie incriminatrice dei maltrattamenti ex art. 572 c.p., l’esistenza di una situazione para-familiare e di uno stato di soggezione e subalternità del lavoratore va verificata avendo riguardo delle dinamiche relazionali in seno all’azienda tra datore di lavoro e lavoratore.

Il commento

Con la sentenza n. 53416/2014, la Suprema Corte di Cassazione ha ribadito importanti principi – invero consolidati – sul rapporto tra la fattispecie criminosa di maltrattamenti delineata nell’art. 572 c.p. e il contesto lavorativo individuato nell’ambito di un’attività imprenditoriale.

Com’è noto, la norma pocanzi richiamata punisce chi maltratta un familiare, un convivente o una persona che si trovi in un determinato rapporto col primo, qualificato da uno stato di subordinazione e/o soggezione.

La particolare collocazione della regola codicistica nel Capo dedicato ai delitti contro l’assistenza familiare pare mal conciliarsi con la riferibilità della norma a contesti diversi dalla famiglia tecnicamente intesa (anche se “di fatto”). Tuttavia, sebbene in modo distonico rispetto all’alveo sistematico in cui è inserita, detta ipotesi criminosa è ritenuta applicabile a situazioni relazionali alternative al gruppo familiare, e conformemente depone il testo dell’art. 572 cit., laddove fa riferimento alle relazioni di cura, vigilanza, istruzione, educazione e custodia, nonché al generico rapporto individuato nella “sottoposizione all’altrui autorità”.

E’ al contempo di palmare evidenza la necessità di rinvenire un criterio mediante il quale sanare l’apparente discrasia concettuale tra la lettera della legge e il riferimento sistematico che pocanzi si richiamava, rendendo così più agevole la sussunzione, nella norma, di fenomeni vessatori che avvengano in contesti, ad es., lavorativi e che – provenendo dal datore di lavoro – producono un’offesa di specifici beni giuridici di pertinenza del lavoratore (c.d. “mobbing verticale”).

Il requisito dirimente viene individuato dalla giurisprudenza di legittimità oramai granitica nel dato della “parafamiliarità”, la quale investe le relazioni lavorative connotate da una informale soggezione all’altrui posizione preminente. E’ in altri termini contraddistinto da parafamiliarità quel contesto in cui le consuetudini e le prassi operative evochino sentimenti di affidamento e fiducia tipici della comunità familiare, altresì caratterizzati da una particolare quanto intensa aspettativa di assistenza e supporto che il lavoratore vanti nei confronti del proprio datore (in senso conforme, Sez. VI, 19 marzo 2014, n. 24642, in C.E.D. Cass., n. 260063).

Il requisito in esame non può essere automaticamente rinvenuto nelle realtà aziendali di modeste dimensioni con riguardo al numero di lavoratori impiegati, né può essere aprioristicamente escluso in imprese di grandi dimensioni, poiché la parafamiliarità attiene non al momento “quantitativo” bensì a quello “qualitativo” del rapporto di lavoro, sicché il numero di lavoratori è nelle aule giudiziarie inteso quale mero indice sintomatico di una maggiore o minore probabilità di rinvenire una parafamiliarità nei rapporti lavorativi, ciò non consentendo di escludere in radice l’esigenza di un più pregnante controllo sulla morfologia di questi ultimi (ad es., nelle grandi aziende la spersonalizzazione dei rapporti lavorativi è empiricamente più frequente, con conseguente tendenziale insussistenza del connotato in parola).

Certo quanto sopra, la reiterazione di condotte vessatorie, discriminatorie ed alienanti, fondata sulla acclarata volontà di costante svilimento e frustrazione dell’altrui personalità umana e/o lavorativa, acquisisce nei contesti aziendali caratterizzati dalla succitata parafamiliarità la conformazione tale da consentirne la sussunzione nell’art. 572 c.p.

Al contempo, non vale ad escludere la configurazione del reato la diffusività della condotta prevaricatrice del datore, a nulla rilevando che l’atteggiamento oppressivo e dequalificante sia diretto verso un intero gruppo di lavoratori piuttosto che verso il solo denunciante (cfr. § 4.3. della sentenza). L’assunto giova a criticare la tesi espressa dalla Corte d’Appello nel caso di specie, secondo cui “la prassi costante posta in essere dagli imputati nei confronti di un numero indeterminato di dipendenti madri è agli antipodi con un’intensificazione peculiare ed individualizzata del rapporto di lavoro, presupposto necessario per la sussistenza del reato di cui all’art. 572 cod. pen.”. Questo argomento è infatti validamente contestato dal Procuratore Generale ricorrente, il quale evidenzia il paradossale ribaltamento di prospettiva che consentirebbe di qualificare quasi come “causa di non punibilità”, piuttosto che come elemento di prova di un intenso coefficiente doloso, il comportamento prevaricatore del datore di lavoro generalizzato nei confronti di una moltitudine di soggetti. D’altronde, evidenzia la Corte, l’applicazione di un siffatto principio, oltre a non tenere in conto il pur presente stato di soggezione dinanzi all’altrui ingiusta prevaricazione (a prescindere dal fatto che tale soggezione sia o meno “condivisa” con altre vittime), condurrebbe altresì ad escludere la rilevanza penale – quantomeno ai sensi dell’art. 572 c.p. – dei reiterati maltrattamenti compiuti dal padre nei confronti di tutti i membri della propria famiglia, il che costituirebbe un esito contrario al diritto, ma prima ancora alla logica e al buon senso.

Parimenti irrazionale – chiosa il Supremo Collegio – è l’argomento esternato dalla Corte Territoriale volto ad escludere lo stato di soggezione della vittima in virtù dell’avere questa denunciato il fatto, per due motivi: 1) lo stato di debolezza ed inferiorità rispetto ad un soggetto oppressore va infatti valutato ex ante, e cioè indagato con riferimento al momento in cui il fatto veniva perpetrato, e non ex post con riguardo all’istante in cui la parte offesa decideva di reagire al sopruso ricorrendo all’autorità giudiziaria; 2) se adire le vie legali valesse a provare in fin dei conti l’insussistenza dell’offesa, molti reati diverrebbero solo in astratto procedibili ma in concreto mai o difficilmente perseguibili.