ARTICOLICONTRIBUTIDelitti contro l’amministrazione della giustiziaDIRITTO PENALEMERITOParte speciale

Una querela infondata e disinvolta non integra gli estremi della calunnia se vi è la percezione di aver subito un torto

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GUP del Tribunale di Torino, 10 novembre 2015

La sentenza del Tribunale di Torino offre l’occasione per spazzare il campo da un equivoco che spesso alberga (a torto) tra i profani del diritto penale.

Capita sovente infatti che molte persone lamentino di aver subito un torto, ma non ritengano opportuno sporgere denuncia/querela avanti le competenti Autorità per il timore che il mancato riconoscimento giudiziale di eventuali responsabilità in capo al soggetto denunciato possa dare avvio a un procedimento penale per i delitti di simulazione di reato ex art. 367 c.p. o di calunnia ex art. 368 c.p. in capo al soggetto querelante. Orbene, per i motivi che si illustreranno fra un attimo, tale eccesso di prevenzione pare assolutamente privo di ragionevole fondamento.

Vediamo da vicino i fatti: una signora, titolare di un contratto di assicurazione dal 2008, teme di aver contratto una neoplasia polmonare. Non godendo di adeguata copertura assicurativa per le spese sanitarie, si rivolge all’Agente assicurativo di fiducia, che le propone di integrare la polizza vigente e di elevare il massimale assicurato.

L’operazione di adeguamento viene perfezionata poco prima della scadenza dell’originale contratto e, pochi giorni dopo, l’assicurata (qui imputata) decide di ricoverarsi presso una struttura sanitaria per sottoporsi alle cure terapeutiche necessarie. Una volta dimessa, la signora presenta la documentazione attestante le spese mediche sostenute all’Assicurazione sulla scorta del contratto assicurativo, ovviamente adeguato al nuovo massimale. L’assicurazione, tuttavia, respinge la richiesta di rimborso, sostenendo che l’integrazione del massimale non costituiva una mera integrazione del contratto assicurativo, ma costituiva piuttosto un secondo contratto che andava ad affiancarsi al primo rapporto contrattuale, ora scaduto.

Per tale ragione, pertanto, il secondo contratto non poteva coprire le spese mediche sostenute dalla paziente, dal momento che la neoplasia era stata diagnosticata in un epoca antecedente alla stipula del secondo contratto e, in ogni caso, non era stata dichiarata in sede di stipula. Né le spese mediche potevano essere rimborsate alla luce del primo contratto, poiché la denuncia della diagnosi e il relativo ricovero erano stati effettuati successivamente alla scadenza degli effetti della prima polizza.

Ritenendo di essere stato raggirata, il soggetto assicurato presentava denuncia/querela per truffa nei confronti dell’Agente, asserendo che questi, al momento della stipula dell’integrazione, aveva dolosamente taciuto che l’integrazione altro non era che un nuovo contratto, per giunta inidoneo a coprire le spese terapeutiche sostenute.

La Pubblica Accusa, tuttavia, chiedeva l’archiviazione del procedimento, che, dopo l’opposizione della persona offesa, veniva confermata dal GIP. A valle di tale decisione, il Pubblico Ministero contestava all’odierna imputata il delitto di calunnia nei confronti del soggetto assicurato, per aver denunciato la broker, pur sapendola innocente.

In sede di giudizio abbreviato, il GUP di Torino dirime la controversia, soffermandosi, in particolare, sulla verifica dell’atteggiamento psicologico dell’imputata, in modo da accertare se al momento della presentazione della querela e/o quando, perseverando nella condotta, si opponeva alla richiesta di archiviazione, l’imputata era consapevole dell’innocenza dell’Agente.

La risposta a tale quesito è decisamente negativa.

In primo luogo, il GUP si richiama all’orientamento giurisprudenziale maggioritario in tema di calunnia: “la prova dell’elemento soggettivo può desumersi dalle concrete circostanze e modalità esecutive dell’azione criminosa, attraverso le quali, con processo logico-deduttivo, è possibile ritenere alla sfera intellettiva e volitiva del soggetto, in modo da evidenziarne la cosciente volontà di un’accusa mendace nell’ambito di una piena rappresentazione del fatto attribuito all’incolpato” (cfr. Cass. Pen., Sez. VI, 22 gennaio 2014, n. 10289).

Ed ancora: “La consapevolezza del denunciante circa l’innocenza dell’accusato è esclusa qualora sospetti, congetture o supposizioni di illiceità del fatto denunciato siano ragionevoli, ossia fondati su elementi di fatto tali da ingenerare dubbi condivisibili da parte del cittadino comune che si trovi nella medesima situazione di conoscenza” (cfr. Cass. Pen., Sez. VI, 6 novembre 2009, n. 46205).

Orbene, nel caso di specie, i sospetti di illiceità adombrati in sede di denuncia risultano assolutamente ragionevoli, dal momento che l’odierna imputata aveva ritenuto (erroneamente) di integrare ed adeguare il massimale per ottenere il rimborso delle spese mediche e si era vista rifiutare il rimborso delle spese mediche dall’Assicurazione, la quale le aveva eccepito che le due formule assicurative non erano affatto in continuità tra di loro ma costituivano piuttosto due rapporti contrattuali separati tra di loro.

In tale contesto, ritiene il GUP torinese, “è evidente che B. possa aver avuto la ragionevole percezione di essere stata raggirata dall’assicuratore, ed è parimenti ragionevole che la sua reazione abbia avuto come destinataria la R., essendo quest’ultima la persona fisica che materialmente le aveva proposto la stipula della polizza”. Non essendo un tecnico della materia, l’odierna imputata non poteva neppure cogliere le regole e i tecnicismi giuridici che regolano la materia assicurativa e, più generalmente, contrattuale.

Sotto altro profilo, non può essere indice inequivocabile di un intento calunnioso neppure il mancato esperimento delle azioni civili in luogo della denuncia/querela: “la querela è stata probabilmente presentata con una certa “disinvoltura”, posto che sarebbe stato sufficiente al raggiungimento dello scopo […] intraprendere le azioni civili innanzi all’Autorità Giudiziaria competente […] Tuttavia, non può dirsi che l’intento dell’imputata sia stato calunnioso, in quanto la ragionevole consapevolezza – al momento – di essere stata truffata ne esclude il dolo”.

Tutto ciò posto, alla luce del percorso argomentativo appena ricordato, non possiamo che salutare con estremo favore la decisione del GUP.

Pensiamo alle conseguenze che sarebbero potute derivare in caso di condanna dell’imputata: si sarebbe creato infatti un insidiosissimo precedente che avrebbe potuto giustificare, in astratto, l’apertura di un procedimento penale (a valle) del tutto inutile (oltre che pernicioso) ogni qual volta un procedimento penale (a monte) si sia concluso con un provvedimento di archiviazione, con una sentenza di non luogo a procedere o con un’assoluzione in sede dibattimentale.

Orbene, tale soluzione avrebbe conseguenze potenzialmente devastanti: la macchina della giustizia penale si caricherebbe di procedimenti inutili, aumentando così i costi di gestione e distogliendo risorse (sia umane che economiche) da indagini penali ben più rilevanti e più intollerabili agli occhi dell’opinione pubblica.

Sotto altro aspetto, poi, lo spettro dell’accusa di calunnia potrebbe, come si è detto, dissuadere dal presentare querela tutti coloro che lamentano ragionevolmente di aver subito frodi a propri danni e, di fatto, farebbe incrementare la c.d. cifra nera di potenziali crimini mai denunciati.

Da ultimo, sotto un profilo prettamente tecnico, l’astratta prospettiva di una contestazione di calunnia a valle di un’archiviazione o di un’assoluzione finirebbe poi, in buona sostanza, per avallare una distorsione interpretativa dei delitti di simulazione di reato o di calunnia: tali delitti, infatti, rientrano tra i reati a tutela della corretta amministrazione della giustizia e hanno quindi il solo fine di  impedire che la macchina della giustizia venga messa in moto per perseguire ipotesi di reato radicalmente inventate dal querelante oppure per avviare indagini nei confronti di persone di cui il querelante abbia piena consapevolezza della loro innocenza.

Ove il loro ambito di applicazione finisca per ricomprendere anche i casi di denunce/querele in cui il denunciante abbia un fondato e ragionevole dubbio sulla illiceità dei fatti ivi segnalati, è evidente che tali delitti troverebbero, almeno in astratto, applicazione anche in tutte le ipotesi di archiviazione o di assoluzione nel merito, stravolgendo così il bene tutelato dalla norma, ossia il corretto esercizio dell’amministrazione della giustizia, la quale, è bene ricordarlo, viene anche correttamente e doverosamente amministrata anche nelle ipotesi in cui un procedimento venga avviato genuinamente e si concluda, altrettanto genuinamente, con un’archiviazione o con un’assoluzione.