A proposito di desistenza volontaria: tra spontaneità e volontarietà
Cassazione Penale, Sezione II, 24 aprile 2013 (ud. 5 aprile 2013) n. 18358
Carmenini Presidente, Gallo Relatore, Policastro Procuratore generale
La massima
Con riferimento alla cd. desistenza volontaria di cui all’art. 56 c.3 c.p., benché la “volontarietà” non debba essere confusa con la “spontaneità”, la legge richiede che la desistenza non sia riconducibile a cause esterne che rendano impossibile, o gravemente rischiosa, la prosecuzione dell’azione. La scelta di desistere deve essere operata in una situazione di libertà interiore indipendente dalla presenza di fattori esterni idonei a menomare la libera determinazione dell’agente.
Il commento
1. Una recente pronuncia della Corte di Cassazione è tornata ad illustrare i presupposti di applicabilità dell’istituto della desistenza volontaria di cui all’art. 56 c.3 c.p.
Nella massima sopra riportata viene ribadito l’orientamento assolutamente prevalente in giurisprudenza secondo cui la desistenza volontaria si rinviene quando l’agente arresta volontariamente la condotta senza che vi sia stata imposizione da parte di fattori esterni.
In ordine alla configurabilità della desistenza, la giurisprudenza è costante nell’affermare che si deve necessariamente presupporre, da un lato che vi sia un tentativo punibile, dall’altro la costanza della possibilità di consumazione del delitto (v. su tutte Cass. pen., Sez. I, 27.02.2009, n.9015, in C.E.D. Cass. n. 242877).
Ciò che rileva al fine di configurare tale causa di non punibilità è che, in termini di sostanziale continuità temporale, l’autore inverta con modalità inequivoche la situazione – di cui abbia ancora la piena disponibilità – sicché quella situazione già concretizzatasi e penalmente rilevante non sia, per sé, inevitabilmente suscettibile di muovere verso la piena consumazione del delitto (in questo senso v. Cass. pen., Sez. V, 26.09.2008, n. 36919, in C.E.D. Cass. n. 241595; Id., Sez. II, 20.03.2007, n. 15527, in Riv. Pen., 2008, 7, 715; Id., Sez. VI, 9.11.2011, n. 40678 in Dir. Pen. e Proc., 2012, 1, 31 con nota di Corbetta; Id., Sez. V, Maravolo, 07.02.1999, n. 1955 in Cass. Pen., 2001, 1469; Id., Sez. IV, 14.12.1988, Manfregola, ivi, 1990, 235; Id., Sez. II, 03.04.1987, Caldares, ivi, 1988, 2064 nonché Id., Sez. II, 24.03.1986, Bellini, ivi, 1987, 1328).
Ancora, al fine di apprezzare se la condotta del soggetto agente sia scandita da volontaria desistenza, occorre verificare modi e scopi del contegno tenuto dall’agente prima e nella immediatezza della presunta azione di desistenza: è, cioè, necessario accertare se la rinuncia alla persistenza nell’azione offensiva posta in essere avvenga o meno al di fuori di cause esogene che già in sé rendano altrimenti vana o impediscano la prosecuzione dell’offesa. (v. Cass. pen., Sez. VI, 09.04.2009, n. 32830, in C.E.D. Cass. n. 244602; Id., Sez. V, 11.07.2008, De Valeri, ivi n. 241595; Id., Sez. I, 2 ottobre 2007, Pepini, ivi n. 238112 nonché Id. Sez. II, 18.09.2003, n. 35764, Iadanza, in Cass. Pen., 2005, 2241).
2. La dottrina più autorevole è pressoché concorde nel ritenere che la volontarietà non possa essere intesa come sinonimo di spontaneità: da più parti si sottolinea, infatti, che laddove il Legislatore esige che vi sia spontaneità, espressamente la richiama, come avviene per la circostanza attenuante di cui all’art. 62 n. 6 c.p. (In quest’ultimo caso, tuttavia, è importante sottolineare che, a differenza del caso che ci riguarda, il delitto è pienamente consumato e non è solo “compiuto” il tentativo).
In ogni caso, a risolvere i casi nei quali si presentino difficoltà, giova sempre tenere a mente che la volontarietà per definizione deve presupporre la possibilità di scelta tra due condotte: tale possibilità viene meno non solo quando una di esse sia impossibile da realizzare, ma anche quando una delle due presenti svantaggi o rischi tali da non potersi attendere da qualunque persona ragionevole (In senso conforme v. Antolisei, Manuale di diritto penale, parte generale, Milano, 1969, 392; Mantovani, Diritto Penale, Padova, 1979, 397; Marinucci Dolcini, Manuale di diritto penale, parte generale, Milano, 2009, 389; Fiandaca Musco, Diritto penale, parte generale, Bologna, 2007, 474; Padovani, Diritto Penale, Milano, 2008, 280; Pagliaro, Principi di diritto penale, parte generale, Milano, 1972, 504; Nuvolone, Il sistema del diritto penale, Padova, 1982, 416; Ramacci, Istituzioni di diritto penale, Torino, 1988, 226; Romano, Art. 56 in Comm. sist. cod. pen., Milano, 2004, 604; Serriani, La desistenza volontaria e il ravvedimento attivo, Milano, 2008, 100).
Appare, viceversa, decisamente isolata l’opinione contraria secondo cui per volontarietà dovrebbe intendersi spontaneità, con conseguente pentimento morale del colpevole (Bettiol, Diritto Penale, parte generale, Palermo, 1962, 451).
Quanto all’effetto di tale desistere – che è la non punibilità, e non l’applicazione di un’attenuazione di pena come nel cd. recesso attivo – questo dipende dal fatto che quell’azione “incompleta” se non vi fosse stata la desistenza sarebbe già di per sé un tentativo.
D’altronde, se non fosse un illecito immediatamente prima della desistenza, non vi sarebbe stato bisogno di una previsione di legge ad hoc che dichiara pur sempre “colpevole” del fatto pregresso il desistente (Donini, Le logiche del pentimento e del perdono nel sistema penale vigente, in Studi in onore di Franco Coppi, II, Torino, 2011, 891).
Volendo concludere con le parole di Francesco Carrara, il criterio per distinguere la desistenza volontaria da quella non volontaria si riduce a questa indagine: «il colpevole desistette perché ebbe coscienza di non poter con sicurezza, per cagioni vere o supposte, compiere il delitto? Allora la causa è morale, e il tentativo rimarrà imputabile. Il colpevole desistette perché, quantunque rimanesse in lui la coscienza di poter senza proprio pericolo attuale condurre a termine il reato, cambiò consiglio? Allora il tentativo sarà abbandonato e non è imputabile» (Carrara, Programma del corso di diritto criminale, Parte generale, I, Firenze, 1897, 386).
L’illustre giurista tratteggiava l’istituto della desistenza ricollegandolo alla teoria che distingue tra “tentativo abbandonato” e “tentativo impedito”.
Se l’esecuzione si interrompe per fattori esterni dalla volontà dell’agente (si pensi al colpevole che desiste perché un terzo glielo intima, perché si vede scoperto da qualcuno o perchè vede accorrere gente) allora la causa non sarà volontaria perché si è in presenza di accadimenti in virtù dei quali «egli scelse di desistere contro la sua volontà, mentre avrebbe voluto continuare»; se, al contrario, l’agente desiste «perché pensa alla pena o perché si commuove all’idea del pianto o delle preghiere dell’aggressore, allora egli non vede in ciò un ostacolo imminente ma è tutto un moto del suo animo che lo fa cambiar consiglio»; la causa in tal caso sarà volontaria e il tentativo non gli si dovrà imputare (Carrara, Programma, 387).
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