Aggravante dell’aver agito con crudeltà (art. 61 n. 4 c.p.): è compatibile con il tentativo
Cassazione Penale, Sez. I, 30 aprile 2014 (ud. 7 marzo 2014), n. 18136
Presidente Chieffi, Relatore Boni
Depositata il 30 aprile 2014 la pronuncia 18136 della prima sezione penale della Corte di Cassazione relativa alla applicabilità della circostanza aggravante di cui all’art. 61 n. 4 c.p. (l’avere adoperato sevizie, o l’aver agito con crudeltà verso le persone) al delitto tentato.
Con specifico riferimento alla natura della aggravante in questione – afferma la Corte – la giurisprudenza ha già affermato che «vanno ricomprese nel concetto di crudeltà tutte le manifestazioni che denotano, durante l'”iter” criminoso, l’ansia dell’agente di appagare la propria volontà di arrecare dolore» (Cass. Pen. Sez. I, 18-01-1996, n. 1894 in Cass. Pen., 1997, 56).
Quanto alla sua compatibilità con la fattispecie tentata, la forma di realizzazione della aggravante – incentrata sulla particolare intensità del dolo e sulla assenza di sentimenti di pietà verso gli altri, rese manifeste dalle modalità operative della condotta, dal comportamento spietato ed insensibile – non richiede per la sua integrazione la verificazione dell’evento e l’effettivo patimento di sofferenze percepite nella loro afflittività dal soggetto passivo (in questi termini v. Cass. Pen. Sez. I, 23-02-2006, n. 16473, rv. 234086, in Riv. Pen., 2007, 3, 322 secondo cui «sussiste l’aggravante dell’aver agito con crudeltà e sevizie nella condotta di chi infierisce lungamente e rabbiosamente sulla vittima fino a massacrarla, con una condotta che eccede i limiti della normalità causale, essendo irrilevante che la vittima abbia potuto o meno percepire l’afflittività di tutti gli atti di crudeltà» nonchè Cass. Pen. Sez. I, 10-02-1997, n. 2960 in Cass. Pen., 1998, 804 secondo cui «per la sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 61 n. 4 c.p., non si richiede l’attitudine della vittima del reato a percepire od avvertire l’afflittività degli atti di crudeltà, essendo la circostanza essenzialmente imperniata sulla considerazione del comportamento dell’autore dell’illecito e sulla conseguente maggiore riprovevolezza di un modus agendi connotato da particolare insensibilità, spietatezza od efferatezza».
Pertanto – concludono i giudici – deve ritenersi che la circostanza sia rintracciabile anche nel frammento di condotta che dà luogo al tentativo, quando questa sia tale da rivelare che l’azione era orientata finalisticamente a cagionare patimenti eccedenti il normale meccanismo causale impiegabile in quel frangente per dare la morte e che, suo tramite, con l’infierire contro la vittima, l’agente avrebbe dato soddisfazione ai propri istinti crudeli ed immorali.
Il fatto che l’omicidio non sia stato portato a termine con l’effettivo decesso della vittima, dunque, non è di ostacolo al riconoscimento della aggravante: il suo carattere soggettivo ne consente il riconoscimento anche in assenza di consumazione, dal momento che la preparazione e l’inizio della condotta, per le modalità prescelte e per i mezzi impiegati (l’impiego del fuoco per cagionare la morte di una persona inerme già indebolita da colpi ricevuti) si presentavano tali da arrecare sofferenze fisiche particolarmente spietate denotando nell’autore un atteggiamento di particolare malvagità e soddisfazione nell’infliggere dolore ad altri.