ARTICOLICONTRIBUTIDIRITTO PENALE

Il segreto professionale: codice deontologico forense, sviluppi e prospettive

Il presente articolo si pone come contributo all’analisi della disciplina e delle problematiche che si annidano intorno al c.d. segreto professionale che trova un addentellato normativo all’art. 622 c.p., norma che deve essere assoggettata ad una lettura sistematica e coordinata con l’art. 200 c.p.p. nonché con le leggi di disciplina delle varie categorie professionali. In particolare, analizzati i presupposti di operatività della fattispecie della Rivelazione di segreto professionale, si intende volgere l’attenzione alla categoria degli Avvocati, avendo particolare riguardo alla posizione assunta di recente dalla giurisprudenza di legittimità che, nell’interpretare l’art. 58 del Codice Deontologico Forense, chiarisce che solo ove esista un mandato professionale con l’Avvocato, quest’ultimo deve astenersi dal deporre come testimone su circostanze che siano state apprese nell’esercizio della propria attività e siano inerenti al mandato ricevuto.

A questa disamina seguirà l’analisi delle modifiche al Codice Deontologico Forense in ordine alla testimonianza dell’Avvocato, apportate con delibera del Consiglio Nazionale Forense del 31 gennaio 2014, pubblicate in Gazzetta Ufficiale il 16 ottobre 2014 ed efficaci a decorrere dal 15 dicembre prossimo, le quali impongono una rilettura della posizione assunta dalla Corte di Cassazione poiché estendono il dovere di astensione anche alle informazioni rivelate all’Avvocato prima del formale conferimento del mandato professionale.

Il segreto professionale è disciplinato all’art. 622 c.p., che punisce chiunque, avendo avuto notizia di un segreto in virtù del proprio stato, ufficio, della propria professione o arte, lo rivela senza giusta causa o lo utilizza a proprio o altrui profitto, se dal fatto può derivare nocumento.

La ratio della norma si rinviene nell’esigenza di salvaguardia dei rapporti intimi professionali determinati da necessità o quasi necessità (MANZINI), nonché nell’interesse pubblico a che il professionista preservi la segretezza dei fatti di cui venga a conoscenza nell’esercizio del ruolo ricoperto, in tal modo garantendo la tutela della libertà e della sicurezza dei rapporti professionali.

Soggetti attivi del reato sono i professionisti in senso lato. Il codice si limita ad indicare alcune situazioni personali idonee a determinare il sorgere di un obbligo di segretezza. In particolare la norma fa riferimento allo stato, ad intendersi quella condizione giuridica derivante da rapporti di parentela o di coniugio, oppure nella condizione in cui si trova il soggetto che espleta una particolare attività nei confronti del richiedente, quale ad esempio quella di praticante o di segretaria; all’ufficio, da intendersi riferito all’esercizio di attività pubbliche o private da cui derivino diritti e doveri ivi comprese le funzioni svolte da tutori, consulenti o impiegati; alla professione o arte ad intendersi ogni forma di attività, principalmente retribuita, di carattere intellettuale o manuale, svolta a servizio di altre persone.

Discusso è se risponda del reato in esame chi si sia falsamente qualificato professionista. In tali ipotesi, ferma restando la punibilità per i reati di truffa ed abusivo esercizio di una professione, la dottrina più recente (MANTOVANI) ritiene di dover considerare punibile ex art. 622 c.p. anche il soggetto che abbia agito attribuendosi una qualifica professionale non realmente posseduta, onde evitare di creare un’ingiustificata disparità di trattamento in suo favore rispetto al professionista che sia effettivamente tale. Gli ulteriori presupposti individuati dalla norma, ai fini della punibilità del soggetto per il reato di cui trattasi, sono l’assenza di giusta causa alla base della rivelazione del segreto nonché il potenziale nocumento che potrebbe derivare dalla rivelazione stessa.

La giusta causa può essere individuata nella sussistenza di un interesse, prevalente rispetto a quello messo in pericolo dalla divulgazione, che può essere garantito solo attraverso la rivelazione del segreto. Giusta causa potrebbe essere anche il consenso o la ratifica da parte del titolare del segreto nonché l’esistenza di una norma giuridica che impone la rivelazione del segreto in presenza di determinate circostanze.

In ordine al requisito del potenziale nocumento, giova precisare che il dictum normativo è chiaro nel subordinare la punibilità del soggetto non all’effettivo verificarsi del nocumento, ma alla sola possibilità che esso si realizzi. Il reato, dunque, si perfeziona nel luogo e nel momento in cui sorge il pericolo di nocumento.

Il dovere di segretezza, d’altronde, trova riconoscimento anche nella Carta dei Principi Fondamentali dell’Avvocato Europeo, risalente al 28 ottobre 1988 e la cui ultima modifica è stata adottata all’unanimità nella sessione plenaria tenutasi a Bruxelles il 24 novembre 2006. Si tratta di un testo vincolante per tutti gli Stati membri. Ne consegue che tutti gli avvocati che sono iscritti agli ordini di tali paesi, indipendentemente dal fatto che tali ordini siano membri effettivi, associati o osservatori del CCBE, sono tenuti a rispettare il Codice nell’esercizio delle loro attività transnazionali all’interno dell’Unione europea, dello Spazio economico europeo e della Confederazione svizzera nonché degli Stati associati e osservatori.

La Carta dei Principi Fondamentali dell’Avvocato Europeo individua, innanzitutto, lo speciale ruolo svolto dall’Avvocato in una società fondata sul rispetto della giustizia: “Il suo compito non si limita al fedele adempimento di un mandato nell’ambito della legge. L’avvocato deve garantire il rispetto dello Stato di Diritto e gli interessi di coloro di cui deve difendere i diritti e le libertà; l’avvocato ha il dovere non solo di difendere la causa ma anche di essere il consigliere del proprio cliente. Il rispetto della funzione professionale dell’avvocato è una condizione essenziale dello Stato di diritto e di una società democratica” (Codice Deontologico degli Avvocati Europei del CCBE, articolo 1.1).

Nel corpo del testo di cui trattasi, uno degli elementi essenziali della professione forense è individuato nella comunicazione all’avvocato di informazioni che egli deve ricevere in via riservata. La certezza della riservatezza è necessaria ai fini della attribuzione della fiducia quale presupposto indispensabile per il conferimento del mandato professionale. La Carta sottolinea che il rispetto della riservatezza non è soltanto un dovere dell’avvocato, ma anche un diritto fondamentale del cliente e permane anche dopo la cessazione del mandato.

Tornando all’analisi delle questioni che si annidano intorno al segreto professionale, sul piano della normativa primaria giova evidenziare che l’art. 622 c.p. deve essere coordinato con l’art. 200 c.p.p. a tenore del quale gli avvocati e altri professionisti “non possono essere obbligati a deporre su quanto hanno conosciuto per ragione del proprio ministero, ufficio o professione, salvi i casi in cui hanno l’obbligo di riferirne all’autorità giudiziaria”, nonché con le leggi di disciplina delle varie categorie. Vengono in rilievo, in particolare, l’art. 21 della L. del 22 maggio 1978, n. 194 sull’aborto, il quale prevede espressamente la punibilità ai sensi dell’art. 622 c.p. di chi, fuori dai casi previsti dall’art. 326 c.p., essendone venuto a conoscenza per ragioni di professione o di ufficio rivela l’identità, o comunque divulga notizie idonee a rivelarla, di chi ha fatto ricorso alle procedure o agli interventi previsti dalla stessa legge. Per quanto riguarda il segreto bancario , l’art. 326 c.p. tutela la riservatezza delle sole informazioni relative alla banca, in quanto ente pubblico, mentre la violazione dell’obbligo di segretezza circa i rapporti economici con i clienti integra la fattispecie sanzionata dall’art. 622 c.p.. Difatti, benché la banca svolga la propria attività in forma aziendale non può escludersi che i rapporti che si instaurano tra il cliente e l’istituto di credito siano di tipo confidenziale. Infine, in ordine al segreto giornalistico, l’opinione prevalente tende a ritenere applicabile l’art. 622 c.p. quando il giornalista sia venuto a conoscenza della notizia nell’esercizio della sua attività.

Orbene, al fine di delimitare l’ambito di operatività del segreto professionale per gli esercenti la professione di avvocato, occorre tener conto del Codice Deontologico Forense nella formulazione attualmente vigente. In particolare, non essendo ancora entrate in vigore le modifiche apportate con delibera del Consiglio Nazionale Forense del 31 gennaio 2014 (pubblicate in Gazzetta Ufficiale 16 ottobre 2014 ed efficaci a decorrere dal 15 dicembre prossimo, come espressamente stabilito dalla medesima delibera all’art. 73) occorre fare riferimento all’art. 58 a tenore del quale “per quanto possibile l’avvocato deve astenersi dal deporre su circostanze apprese nell’esercizio della professione e inerenti al mandato”.

E’ chiaro che la norma fa dipendere l’obbligo di astensione dall’esistenza di un mandato professionale. Sul punto è chiara anche la giurisprudenza di legittimità la quale, prendendo posizione, chiarisce che solo ove esista un mandato professionale con l’Avvocato, quest’ultimo debba astenersi dal deporre come testimone su circostanze che siano state apprese nell’esercizio della propria attività e siano inerenti al mandato ricevuto (Cass. Pen., sez. VI, 02 aprile 2013, n. 15003 – MILO Presidente – PETRUZZELLIS Relatore).
Per vero, la citata norma, prescrivendo di astenersi “per quanto possibile”, esprime solo un’opportunità di comportamento e non un dovere assoluto prevedendo, peraltro, che, soltanto nel caso in cui l’Avvocato decida di rendere testimonianza, sussiste una necessità di rinuncia al mandato ed un divieto di riassunzione dello stesso. Letta in questi termini la norma consente di dire che, invece, quando trattasi di informazioni apprese nell’ambito di un mero comportamento informale di natura confidenziale ed amichevole tale per cui venga sollecitato un consiglio o un suggerimento, l’Avvocato ben può essere chiamato ad assumere la veste di testimone nel processo penale, non avendo, tale comportamento, alcun rilievo rispetto all’art. 58 del Codice Deontologico Forense.

Ciò posto in ordine alla disciplina attualmente vigente, occorre sottolineare che a breve entreranno in vigore le modifiche apportate con delibera del Consiglio Nazionale Forense del 31 gennaio 2014, pubblicate in Gazzetta Ufficiale il 16 ottobre 2014 ed efficaci a decorrere dal 15 dicembre prossimo, come espressamente stabilito dalla medesima delibera all’art. 73. La norma di riferimento in ordine all’obbligo di segretezza sussistente in capo all’Avvocato dovrà individuarsi nell’art. 51 del nuovo Codice Deontologico Forense a tenore del quale “L’avvocato deve astenersi, salvo casi eccezionali, dal deporre, come persona informata sui fatti o come testimone, su circostanze apprese nell’esercizio della propria attività professionale e ad essa inerenti” (art. 51 co.1).

Orbene, la suddetta norma, si esprime in termini in equivoci quanto alla individuazione di un vero e proprio dovere di astensione in capo all’Avvocato, salvo casi eccezionali, ed estende l’obbligo di segretezza a tutta l’attività professionale svolta dall’Avvocato. Pare, pertanto, ricomprendere nell’ambito di operatività del segreto professionale anche le informazioni rivelate dal cliente in un momento anteriore al conferimento del mandato professionale. Dalla portata estensiva della norma consegue che l’Avvocato non dovrà assumere la veste di testimone, ben potendo esercitare il diritto di astensione, qualora le domande rivolte dall’Ufficio di Procura attengano ad informazioni di natura confidenziale ed amichevole che il teste abbia ricevuto dall’imputato, anche in assenza di mandato professionale. Può ben dirsi, infatti, che nel momento in cui l’Avvocato riceve informazioni anche dirette ad ottenere consigli o suggerimenti, egli stia svolgendo la sua attività professionale.

Se così è, deve auspicarsi, un mutamento nell’atteggiamento della giurisprudenza di legittimità in ordine al dovere di astensione dell’Avvocato posto che, se prima, in virtù della precedente formulazione dell’art. 58 del Codice Deontologico Forense, in mancanza di un formale mandato, poteva dirsi insussistente un segreto professionale da tutelare, con la conseguenza di dover considerare legittimo l’ordine impartito dal Giudice al teste di deporre sulle domande che attengono ai fatti oggetto di imputazione, a partire dal 15 dicembre 2014, l’interesse del cliente a che il professionista preservi la segretezza dei fatti di cui venga a conoscenza nello svolgimento della propria funzione vedrà una tutela rafforzata ed estesa anche alle informazioni rivelate all’Avvocato al di fuori delle ipotesi di formale conferimento del mandato professionale.