DIRITTO PENALEMERITOResponsabilità degli enti

Infortuni sul lavoro e responsabilità ex D. lgs. 231/2001: alcune conferme dal tribunale di Milano

45610

Tribunale di Milano, Sezione IX Penale, Giudice Canevini
28 ottobre 2015 (ud. 15 ottobre 2015), n. 10647/2015

Con la sentenza qui allegata, il Tribunale di Milano ribadisce alcuni consolidati principi in merito all’applicabilità del sistema sanzionatorio del D.Lgs. 231/2001 ai reati colposi d’evento.

Nella vicenda che qui interessa, una Società viene chiamata a rispondere dell’illecito amministrativo ex art. 25 septies D.Lgs. 231/2001 per aver – in assenza di un modello organizzativo – realizzato un vantaggio per l’ente in dipendenza del mancato rispetto delle norme in materia di sicurezza ed igiene sul lavoro in occasione di un infortunio occorso sul lavoro a un lavoratore.

Nello specifico, il dipendente – addetto al ripristino dei tubi di scarico dei fumi e di presa d’aria delle caldaie – era salito su un trabattello montabile presso una ditta al fine di svolgere le dovute riparazioni.

Sennonché, nel corso delle lavorazioni, veniva erroneamente azionata la pulsantiera dei comandi relativa a un carroponte, il quale finiva per sbattere contro il trabattello causando la caduta a terra da 7 metri del lavoratore, il quale riportava la frattura dello sterno, un trauma distorsivo cervico dorsale e una ferita lacerocontusa retro auricolare destra con prognosi complessiva pari a 53 giorni.

Accanto al procedimento penale per lesioni colpose nei confronti del management della Società, la Procura, come si è visto, contestava l’illecito amministrativo ex art. 25 septies D.Lgs. 231/2001 in capo alla stessa Società.

Orbene, a valle delle risultanze dibattimentali emerse, il Tribunale di Milano dichiara la responsabilità della Società in ordine all’illecito amministrativo contestato e sfrutta l’occasione per riaffermare alcuni principi generali sui cardini della responsabilità ex D.Lgs. 231/2001.

In prima battuta, così, il Tribunale supera la tradizionale censura secondo cui il Decreto Legislativo n. 231/2001 avrebbe introdotto una forma di responsabilità per fatto altrui e, come tale, incompatibile con il principio della personalità della responsabilità penale ex art. 27 Cost.

Precisa infatti il Tribunale: “il richiamo ad una forma di responsabilità tramite la previsione normativa di sanzioni conseguenti a condotte riconducibili ad organi sociali deriva direttamente dalla sentita necessità di sollecitare condotte virtuose e prassi preventive collegando direttamente la ricaduta sanzionatoria sulla persona giuridica anziché sulle singole persone fisiche che la rappresentano. Con il doppio risultato attribuire il peso economico della “buona prassi” al soggetto giuridico che meglio lo può sostenere e di evitare le conseguenze dell’avvicendamento nelle cariche sociali” (pp. 2-3).

Per tali ragioni, prosegue la Corte, il sistema delineato dal D.Lgs. 231/2001 si impernia infatti sul sistema dei modelli e delle procedure organizzative e la violazione dei precetti viene ricondotta alle carenze organizzative societarie: “in tal senso deve essere letto il complesso sistema dei modelli organizzativi che con il riferimento a protocolli. Al potere di controllo conferito ad organi esterni, a verifiche periodiche della tenuta del sistema e simili offrono un forte richiamo al modello di diligenza tipico della costruzione colposa della responsabilità” (cfr. p. 3).

Rebus sic stantibus, il sistema ex D.Lgs. 231/2001 avrebbe delineato una “forma normativa di colpevolezza per omissione organizzativa e gestionale” che fonda quindi una forma di responsabilità per fatto proprio della Società, senza che si possa parlare di forma di responsabilità per fatto altrui.

Ciò precisato, il Tribunale ribadisce i tre criteri di imputazione della responsabilità dell’ente: segnatamente, “la commissione di uno dei reati presupposto; la qualifica dell’agente quale soggetto funzionalmente legato all’ente, anche in via di fatto; la realizzazione della condotta nell’interesse o a vantaggio dell’ente stesso” (cfr. p. 4).

A finire sotto la lente del Tribunale è il terzo requisito, ossia il criterio dell’interesse o del vantaggio dell’ente stesso; infatti, con riferimento ai reati colposi d’evento, tale requisito parrebbe – almeno in linea astratta – presentare alcuni ontologici problemi di compatibilità con la struttura del reato colposo che funge da presupposto alla responsabilità amministrativa dell’ente.

Del resto, secondo un orientamento c.d. teleologico, la responsabilità dell’ente non sarebbe compatibile con la realizzazione di reati colposi, “atteso che l’evento (in questo caso, le lesioni) non deve essere voluto proprio in forza della prospettazione colposa della fattispecie e comunque non costituisce un vantaggio per l’ente” (cfr. p. 4).

Ma il Tribunale mostra di non accogliere tale posizione, propendendo piuttosto per il secondo (e maggioritario) orientamento secondo cui, con riferimento ai reati colposi d’evento, i concetti di vantaggio e di interesse andrebbero parametrati non tanto sulla tensione finalistica quanto circa “l’obiettiva idoneità della condotta a produrre effetti vantaggiosi per l’ente, così anche limitando la connotazione soggettiva della responsabilità dell’ente alla colpa di organizzazione come criterio di rimproverabilità” (cfr. p. 5).

A sostegno di tale posizione, il Tribunale muove tre argomenti; la tesi dell’impostazione obiettiva, in primo luogo, consente di fornire operatività concreta alla previsione normativa di cui all’art. 25 septies, la quale, ove si optasse per la tesi c.d. teleologica, finirebbe per essere sostanzialmente priva di qualsivoglia applicazione.

Contestualmente, non si può non segnalare come il legislatore abbia confermato la compatibilità della responsabilità ex D.Lgs. 231/2001 in relazione ai reati colposi, introducendo l’art. 25 undecies, il quale contiene numerose ipotesi di reati ambientali di tipo colposo.

Da ultimo, poi, la tesi dell’obiettiva idoneità trova un ultimo sostegno anche nel dato letterale di cui all’art. 5 del D.Lgs. 231/2001, il quale dispone testualmente che i reati devono essere commessi nell’interesse o nel vantaggio dell’ente. Ebbene, proprio la congiunzione “o” altro non vuol dire che i due concetti di “interesse” e “vantaggio” non sono affatto sinonimi, “non costituiscono un’endiadi”, ma anzi fanno riferimento a concetti ontologicamente distinti.

Richiamando una precedente pronuncia della Suprema Corte di Cassazione (cfr. Cass. Pen., Sez. II, 20 dicembre 2005, n. 36215), il Tribunale di Milano afferma che i due concetti “hanno riguardo a concetti giuridicamente diversi, potendosi distinguere un interesse a monte per effetto di un indebito arricchimento, prefigurato e magari non realizzato, in conseguenza dell’illecito, da un vantaggio obiettivamente conseguito con la commissione del reato, seppure non prospettato ex ante, sicché l’interesse ed il vantaggio sono in concorso reale” (cfr. pp. 5-6).

In applicazione di tali criteri, pertanto, il Tribunale afferma che “l’evento oggetto dell’orientamento finalistico, nei reati di tipo di quello che qui ci occupa, non deve esser individuato nelle lesioni patite dal lavoratore, ma nella condotta colposa che ne ha costituito il presupposto” (cfr. p. 6) e viene così integrato dal solo requisito del vantaggio, nei termini poco sopra delineati.

Tuttavia, non ogni vantaggio o interesse maturato nel corso dell’attività produttiva e lavorativa potrà integrare un vantaggio rilevante al fine di fondare la responsabilità ex D.Lgs. 231/2001.

Infatti, il vantaggio maturato dall’ente dovrà essere oggetto di prova concreta: “pare opportuno verificare in concreto se la condotta di violazione di norme cautelari sia anche idonea a costituire interesse (o più facilmente) un vantaggio per l’ente, vuoi sotto il profilo del risparmio di spese, vuoi di un generico contenimento dei costi di gestione, di accelerazione del ciclo produttivo et similia” (cfr. p. 6).

Nel caso di specie, tale prova risulta essere raggiunta, dal momento che la mancata dotazione di attrezzature idonee – accanto alla mancata predisposizione di procedure di coordinamento tra dipendenti che avrebbero di fatto rallentato i lavori – avevano di fatto comportato un contenimento delle spese in capo all’ente, determinando così un risparmio sui costi di gestione.