Scarico di acque reflue industriali oltre i limiti e responsabilità 231.
in Giurisprudenza Penale Web, 2020, 5 – ISSN 2499-846X
di Mattia Miglio e Lorena Morrone
Cassazione Penale, Sez. III, 27 gennaio 2020 (ud. 4 ottobre 2019), n. 3157
Presidente Izzo, Relatore Andreazza
La presente pronuncia offre interessanti spunti di riflessione in merito ai profili di responsabilità amministrativa ex art. 25 undecies D. Lgs. 231/2001 in relazione al reato di scarico di acque reflue industriali oltre i limiti tabellari di cui all’art. 137, comma 5, D. Lgs. 152/2006.
In particolare, nella vicenda che qui ci interessa, la Suprema Corte ha confermato la sentenza emessa dalla Corte d’Appello di Milano, che condannava una società a responsabilità limitata con riferimento all’illecito amministrativo sopra richiamato “per non aver adottato ed efficacemente attuato, prima della commissione del predetto reato, modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati della stessa specie commessi per conto e nell’interesse della Società“.
1. Andando con ordine, in relazione all’asserita incompatibilità – invocata dalla difesa – del requisito dell’interesse o vantaggio richiesto dall’art. 5 del D. Lgs. 231/2001 con la natura colposa della norma contestata, la Suprema Corte richiama apertamente i principi sanciti dalle Sezioni Unite in relazione ai reati colposi in materia di sicurezza sul lavoro.
In particolare, secondo la Corte, anche con riferimento agli illeciti colposi ambientali, i concetti di interesse e di vantaggio devono essere delineati alla luce della condotta e non anche dell’evento lesivo: infatti “è ben possibile che l’agente violi consapevolmente la cautela, o addirittura preveda l’evento che ne può derivare, pur senza volerlo, per corrispondere ad istanze funzionali a strategie dell’ente” (Cass. pen., sez. un., 24 aprile 2014, n. 38343).
In questo senso, sempre sulla scorta della giurisprudenza formatasi in materia di sicurezza sui luoghi di lavoro, si è detto che “indubbiamente, non rispondono all’interesse della società, o non procurano alla stessa un vantaggio, la morte o le lesioni riportate da un suo dipendente in conseguenza di violazioni di normative antinfortunistiche, mentre è indubbio che un vantaggio per l’ente possa essere ravvisato, ad esempio, nel risparmio di costi o di tempo che lo stesso avrebbe dovuto sostenere per adeguarsi alla normativa prevenzionistica, la cui violazione ha determinato l’infortunio sul lavoro” (p. 3; in questo senso Cass. pen., sez. IV, 20 aprile 2016, n. 24697).
Tali principi, prosegue la Suprema Corte, trovano applicazione anche con riferimento alla fattispecie presupposto qui in esame, l’art. 137, comma 5, D. Lgs. 152/2006 (contravvenzione punibile sia a titolo di dolo che di colpa), nell’ambito della quale “l’interesse e il vantaggio vanno individuati sia nel risparmio economico per l’ente determinato dalla mancata adozione di impianti o dispositivi idonei a prevenire il superamento dei limiti tabellari, sia nell’eliminazione di tempi morti cui la predisposizione e manutenzione di detti impianti avrebbe dovuto dare luogo, con economizzazione complessiva dell’attività produttiva” (pp. 4-5).
2. A margine di ciò, merita un approfondimento il passaggio finale delle motivazioni.
Avendo stabilito che, secondo la Corte, anche nei reati colposi ambientali, il criterio di imputazione oggettiva del reato all’ente ex art. 5 D. Lgs. 231/2001 debba riferirsi alla condotta posta in essere, si apprezza l’argomentazione difensiva circa l’occasionalità dei superamenti dei limiti tabellari, quale parametro per escludere la sussistenza di una politica d’impresa finalizzata al conseguimento di un’utilità per la persona giuridica.
La Suprema Corte, dunque, affronta la questione, ritenendo, tuttavia, che, nel caso di specie, sia possibile riscontrare una certa sistematicità della condotta “atteso che, come da imputazione, il superamento dei limiti venne riscontrato in tre diverse date […] in occasione di altrettanti campionamenti, ben potendo dunque ritenersi che la mancata predisposizione di cautele atte ad evitare l’inquinamento si sia inserita all’interno di scelte aziendali consapevoli” (p. 5).
Pertanto, nel valutare nel merito tale argomentazione, la Suprema Corte sembra riconoscere che un unico, occasionale, superamento potrebbe essere indice della mancanza di un interesse o di un vantaggio per l’ente, nel senso descritto dalla stessa sentenza in commento.
Se così non fosse, dalla configurabilità del reato in capo alla persona fisica – come conseguenza diretta del mero ed oggettivo superamento dei valori tabellari – conseguirebbe automaticamente – in caso di mancata predisposizione ed efficace attuazione di modelli e cautele ex D. Lgs. 231/2001 – un procedimento penale a carico dell’ente, con le (eventuali e note) conseguenze sanzionatorie in capo alla società.
3. In relazione alla sopra citata occasionalità, invero, occorre precisare come la giurisprudenza di legittimità abbia escluso anche che la stessa possa venire invocata per escludere la sussistenza del reato presupposto (in quanto “un danno all’ambiente, in tali ipotesi, è presunto per legge, con la conseguenza che non è logicamente possibile – senza scardinare il sistema, aprendo a possibili gravi oscillazioni operative con diversità di trattamento tra operatori – dedurre la non offensività della trasgressione in concreto basata sulla natura limitata o temporanea della violazione”, da ultimo Cass. pen., sez. III, 23 gennaio 2019, n. 11518), affermando con vigore che la violazione del divieto di scarico extra tabellare di acque reflue industriali configuri un reato di pericoloso presunto (che “esclude ogni valutazione del giudice sulla gravità, entità e ripetitività della condotta, la cui offensività è insita, per la legge”, pen., sez. III, 10 febbraio 2015, n. 21463).
Un orientamento particolarmente infelice per l’ente, se si considera che quest’ultimo, al contrario delle persone fisiche imputate del medesimo reato presupposto, non potrebbe neppure usufruire delle cause di esclusione della punibilità concesse alle prime (quali, a titolo di esempio, l’istituto della particolare tenuità ex art. 131bis c.p., Cass. Pen., sez. III, 10 luglio 2019, n. 1420; nello stesso senso, Cass. pen., sez. III, 23 gennaio 2019, n. 11518) né, ex art. 8 D. Lgs. 231/2001, di estinzione del reato, come la sospensione del procedimento per la messa alla prova (Tribunale Milano, 27 marzo 2017).
Onde scongiurare tale eventualità, dunque, risulta indispensabile porre l’attenzione sull’accertamento giudiziale del reato di cui all’art. 137, comma 5, D. Lgs. 152/2006 (la cui insussistenza renderebbe del tutto superflua ogni valutazione in merito ai presupposti applicativi della responsabilità amministrativa dell’ente).
È necessario, infatti, che i campioni dei reflui industriali prelevati ed oggetto di contestazione siano effettivamente rappresentativi delle condizioni dello scarico, prima di poter giungere a qualsivoglia rimprovero nei confronti della persona fisica e, conseguentemente, dell’ente.
3.1. In questo senso, un’effettiva valutazione di rappresentatività non può certamente prescindere da un’attenta disamina del metodo di campionamento adottato dall’Autorità amministrativa deputata al controllo.
Nella prassi, invero, vengono eseguiti due differenti metodi – a) il campionamento istantaneo, che viene compiuto una sola volta, su un unico campione di acque di scarico e b) il campionamento medio, consistente nel prelevare più campioni delle acque di scarico in un determinato intervallo temporale.
A tal proposito, è solo il caso di ricordare che ai sensi del par. 1.2.2 dell’allegato 5 alla parte III del D. Lgs. 152/2006 “le determinazioni analitiche ai fini del controllo di conformità degli scarichi di acque reflue industriali sono di norma riferite ad un campione medio prelevato nell’arco di tre ore“.
È la stessa norma del testo unico, tuttavia, a riconoscere che l’autorità preposta al controllo possa, con motivazione espressa nel verbale, “effettuare il campionamento su tempi diversi, al fine di ottenere il campione più adatto a rappresentare lo scarico qualora lo giustifichino particolare esigenze” (come ad esempio le caratteristiche del ciclo tecnologico o il tipo di scarico).
Il metodo del campionamento medio composito per la verifica del superamento delle soglie, dunque, non costituisce un criterio legale di valutazione della prova rigido ed insormontabile, ma può essere derogato – in presenza di giustificati motivi – dall’adozione del campionamento istantaneo (Trib. Milano, 12 settembre 2019, n. 10491), “atteso che spetta all’autorità amministrativa di controllo, ed in sede processuale, al giudice, valutare la razionalità del metodo adottato in relazione alle specifiche caratteristiche del ciclo produttivo e delle modalità dello scarico” (Cass. Pen., sez. III, 24 marzo 2004, n. 14425).
Si consideri, infatti, che gli esiti del metodo di campionamento istantaneo meglio si attagliano ai cicli produttivi c.d. discontinui, grazie alla presenza in questi ultimi dei c.d. pozzi di accumulo, ove l’acqua subisce un processo di decantazione prima di essere espulsa.
Al contrario, i risultati dei campioni prelevati con il metodo c.d. medio risultano maggiormente idonei a rappresentare il ciclo produttivo c.d. continuo – caratterizzato cioè dall’assenza di pozzi di accumulo – il quale, evidentemente, mal si concilia con il criterio di campionamento istantaneo, essendo i valori delle acque esaminate potenzialmente soggetti a picchi sia in senso negativo sia in senso positivo (Trib. Monza, 17 febbraio 2016, n. 557).
Alla luce di ciò, quindi, non resta che trarre la prima conclusione.
Il mero superamento dei valori tabellari non può condurre automaticamente al riconoscimento della penale responsabile della persona fisica con riferimento al reato presupposto ex art. 137, comma 5, D. Lgs. 152/2006, essendo necessario accertare la natura del ciclo produttivo aziendale e il metodo di campionamento adottato, al fine di verificare l’affidabilità dei valori riscontrati.
3.2. Accanto a quanto si è appena detto, l’affidabilità dei valori dei campioni esaminati dipende necessariamente anche dal punto esatto in cui è stato posto in essere il prelievo del refluo contestato.
Infatti, ogni valutazione in tal senso dovrà essere parametrata sui risultati derivanti dallo scarico proveniente dal ciclo produttivo e non già dallo scarico finale (Cass. pen., sez. III, 25 maggio 2011, n. 24426).
Del resto, ai sensi dell’art. 108, comma 5, D. Lgs. 152/2006, il campionamento del refluo industriale deve essere eseguito, in caso di confluenza tra acque di processo ed acque di diluizione, sullo scarico proveniente dal ciclo lavorativo e non sullo scarico finale, nel quale ben potrebbe essere confluito un misto di acque reflue provenienti anche da altre unità produttive.
È questa l’unica interpretazione che evita l’accertamento dopo la confluenza delle acque di processo produttivo con le acque di diluizione, con risultati non genuini (Cass. pen., sez. III, 10 marzo 2016, n. 1296).
Tale previsione, dunque, è tesa ad assicurare la massima oggettività ed affidabilità delle successive analisi.
Ma non è tutto; i parametri valutativi appena indicati dovranno essere considerati e razionalizzati anche alla luce di eventuali elementi fattuali (da provare in sede dibattimentale), quali (sempre a titolo di esempio): l’inoperatività dello scarico (Trib. Milano, 23 aprile 2018, n. 4743), l’affidamento in appalto a terzi delle attività di smaltimento (Trib. Milano, 23 aprile 2018, n. 4743), la provenienza da altre fonti delle sostanze rilevate (Trib. Monza, 30 aprile 2016, n. 594) oppure l’effettuazione dei rilievi ad impianto fermo (Trib. Milano, 12 settembre 2019, n. 10491).
4. Alla luce di quanto si è appena detto, risulta indispensabile procedere con un approccio esegetico che non si limiti ad accertare il mero superamento dei limiti tabellari sanciti dal D. Lgs. 152/2006.
Per poter giungere ad un giudizio di responsabilità penale, il superamento dei limiti dovrà essere coordinato e razionalizzato alla luce di tutte le altre evidenze probatorie – meglio descritte nei paragrafi precedenti – per trarre in ultima istanza le dovute conclusioni.
In questo senso, i parametri (e le sentenze che si sono poc’anzi richiamate) potranno assumere una funzione epistemologica in grado di guidare l’organo giudiziario nella decisione del caso concreto – fondata ovviamente sul criterio della certezza processuale, alla luce degli elementi probatori e delle evidenze scientifiche emerse nel corso del dibattimento.
Un metodo, in definitiva, che – per non sfociare in un mero arbitrio dell’organo giudicante – dovrà necessariamente essere coerente con l’alta probabilità logica, mediante una motivazione accurata e approfondita delle ragioni a fondamento della responsabilità del soggetto agente del reato presupposto.
In questo senso, un approccio scientificamente ed empiricamente rigoroso sulla sussistenza del reato ex art. 137, comma 5, D. Lgs. 152/2006 finisce per essere di beneficio, in primis, alla persona fisica – cui viene contestato il reato presupposto – la quale potrà superare i pericoli derivanti da un accertamento poggiante sul mero superamento dei valori tabellari, evitando così di incorrere in una sorta di responsabilità oggettiva.
Di riflesso, all’ente stesso, nei confronti del quale – in caso di insussistenza del reato presupposto per le ragioni anzidette – non potrà essere contestato alcun illecito ex D. Lgs. 231/2001, rendendo – in definitiva – assolutamente ininfluente ogni discussione sul contenuto e sul perimetro della nozione di interesse o vantaggio negli illeciti colposi.
Come citare il contributo in una bibliografia:
M. Miglio – L. Morrone, Scarico di acque reflue industriali oltre i limiti e responsabilità 231, in Giurisprudenza Penale Web, 2020, 5