CONTRIBUTIDIRITTO PENALE

La “colpa d’impresa” in una recente sentenza della Corte di cassazione

in Giurisprudenza Penale Web, 2024, 2 – ISSN 2499-846X

Cassazione Penale, Sez. IV, 28 dicembre 2023 (ud. 5 ottobre 2023), n. 51455
Presidente e estensore Dovere

1. Il fatto

La Sezione quarta è stata chiamata a vagliare la legittimità di una sentenza della Corte d’appello di Firenze che confermava la responsabilità ex art. 25 septies del d.lgs. 231/2011 scaturita dalla morte di un dipendente con conseguente condanna di alcuni soggetti per omicidio colposo.

La vittima era parte di una squadra di operai addetti al taglio di piante ed aveva il compito di raccogliere le ramaglie prodotte dallo sfalcio e spostarle dalla zona di caduta ad un’altra. Nel fare ciò era la vittima era stata investita da materiale legnoso ed era caduta in una fossetta di scolo, riportando lesioni che, circa un mese dopo l’evento, ne determinavano il decesso.

In primo ed in secondo grado veniva condannata la legale rappresentante dell’ente in quanto datore di lavoro e l’ente stesso veniva ritenuto responsabile per carente organizzazione. Nello specifico, i ricorsi dell’imputata e della società lamentavano l’illogicità della motivazione nella parte in cui non prendeva in considerazione l’anomalia del comportamento del personale nel cantiere, la mancata valutazione del rilascio in favore dell’ente di una certificazione di idoneità alla partecipazione a gare d’appalto indette da soggetti pubblici e la mancata valutazione degli elementi che portavano ad ascrivere l’evento all’organizzazione in loco del cantiere e non all’ente in generale.

Nel presente commento si procederà a valutare unicamente il decisum della Corte con riferimento alla responsabilità amministrativa da reato dell’ente, senza commentare la prima parte della sentenza, legata unicamente all’amministratore unico della società incolpata.

2. La ricostruzione in diritto della Corte

La Sezione quarta è partita dalle premesse di diritto, chiarendo un principio consolidato nella giurisprudenza della Cassazione: “la colpa di organizzazione deve intendersi in senso normativo ed è fondata sul rimprovero derivante dall’inottemperanza da parte dell’ente dell’obbligo di adottare le cautele, organizzative e gestionali, necessarie a prevenire la commissione dei reati previsti tra quelli idonei a fondare la responsabilità del soggetto collettivo, dovendo tali accorgimenti essere consacrati in un documento che individua i rischi e delinea le misure atte a contrastarli”.

La sezione quarta prosegue ricordando che l’illecito dell’ente è una fattispecie complessa, di cui il reato presupposto è uno degli elementi essenziali,  insieme alla colpa di organizzazione, che rende l’illecito stesso “proprio” dell’ente, in ossequio al principio sancito dall’art. 27 Cost.

Meno chiaro il periodo successivo in diritto, cui dovrà seguire debita operazione chiarificatrice: “Del pari, questa Corte vuole ribadire che la colpa di organizzazione e l’assimilazione della stessa alla colpa, intesa quale violazione di regole cautelari, implica che la mancata adozione e l’inefficace attuazione degli specifici modelli di organizzazione e di gestione prefigurati dal legislatore rispettivamente agli artt. 6 e 7 del decreto e all’art. 30 del d.lgs. 81/2008 non è un elemento costitutivo della tipicità dell’illecito dell’ente ma una circostanza atta ex lege a dimostrare che sussiste la colpa di organizzazione”.

Detto così, parrebbe che la colpa di organizzazione debba essere intesa come una circostanza atta a dimostrare che sussiste la… colpa.

Ciò che la Corte vuole dire, in realtà, è che la mancata adozione e l’inefficace attuazione dei modelli organizzativi costituisce un elemento di prova della sussistenza della colpa di organizzazione, che è il metodo di imputazione soggettiva, ex art. 27 Cost., dell’illecito all’ente.

Il riferimento alla tipicità deve essere inteso nel senso che non integra il fatto tipico dell’illecito dell’ente la mancata adozione o l’inefficace attuazione dei modelli organizzativi.

Il ragionamento è posto in questi termini – che potevano tranquillamente essere più espliciti e chiaramente esposti – perché la Corte vuole affermare – come effettivamente fa, poco dopo – che “il verificarsi del reato non implica ex se l’inidoneità o l’inefficace attuazione” del m.o.g. e che quest’ultimo non coincide con il sistema di gestione della sicurezza  del lavoro incentrato sul documento di valutazione dei rischi di cui agli artt. 17, 18, 28 e 29 d.lgs. 81/2008.

Da qui in poi la motivazione della Corte non è particolarmente chiara, ma censura variamente la Corte d’appello di Firenze per aver, sostanzialmente, affermato che la responsabilità da reato sarebbe stata ascritta all’ente per condotte ascrivibili “esclusivamente alla persona fisica”.

In altri termini, non c’era comportamento lecito – cioè di organizzazione – che l’ente poteva adottare per prevenire la condotta dei singoli che ha determinato il decesso e, quindi, in ipotesi, il reato presupposto.

Discorso analogo viene svolto con riferimento all’interesse dell’ente alla commissione del reato presupposto.

La Sezione quarta ricorda qui che “la fattispecie dell’illecito dell’ente presuppone una relazione funzionale corrente tra reo ed ente ed altresì una relazione teleologica tra reato ed ente, ricorrente quando il primo è stato commesso nell’interesse del secondo o questo ne ha tratto vantaggio. Ciò è richiesto perché il legislatore nazionale ha ritenuto non sufficiente il mero rapporto di immedesimazione organica; con la previsione del collegamento teleologico, ha escluso che possa essere attribuito alla persona morale un reato commesso sì da un soggetto incardinato nell’organizzazione ma per fini estranei agli scopi di questo (e, in ipotesi, persino in contrasto con questi ultimi)”.

Obiettivamente, la mera immedesimazione organica, da sola, non solo non sarebbe stata sufficiente, ma non avrebbe rivestito nemmeno il minimo indefettibile elemento di ascrivibilità dell’illecito all’ente ai sensi dell’art. 27 Cost.

La Corte, quindi, prosegue motivando nei seguenti termini. “All’interesse viene per lo più attribuita un’accezione soggettivizzante, nel senso che esso viene inteso come allusivo alla finalità che muove il reo e non alla oggettiva attitudine del reato di concretizzare un’utilità per l’ente. Sicchè è al reo che occorre guardare per accertare se quell’elemento ricorre nel caso concreto. Ciò diversamente dal vantaggio, che è proprio l’utilità che l’ente ricava dal reato commesso”.

Anche in questo frangente, forse, la Sezione quarta avrebbe potuto esprimersi in modo più chiaro, anche se l’argomentazione serve a censurare il ragionamento della Corte d’appello di Firenze, “caduta”, in motivazione, proprio sul tema dell’interesse. Nonostante la formulazione abbastanza oscura, l’assunto della Sezione quarta è che il vantaggio dell’ente perseguito dal reo può anche non concretizzarsi in una vera e propria utilità, perché, in ipotesi, consistente nel “risparmio” determinato dalla mancata adozione di misure di sicurezza idonee ad elidere le fonti di rischio cui possono essere esposti i dipendenti.

Detto questo, la Corte ha annullato con rinvio – anche – in punto responsabilità dell’ente perché, conclusivamente, “si sono evocati obblighi facenti capo al datore di lavoro invece che profili di colpa della società incolpata”.

3. Conclusioni

La sentenza in commento, al di là di alcune formulazioni poco fortunate in termini di chiarezza, è molto interessante nella sostanza e indica un filone dirimente per chi studia la colpa di organizzazione.

Vero è che, a quanto è dato leggere, la sentenza d’appello – e quella di primo grado – a loro volta contenevano formulazioni piuttosto oscure, da cui, in parte necessariamente, la non perfetta linearità dell’argomentazione della Sezione quarta.

Detto questo, i principi che si possono desumere rivestono, come osservato in precedenza, una certa rilevanza.

In primo luogo la Corte indica un metro di valutazione sulla ascrivibilità del reato presupposto all’ente stesso. In “ambito 231”, in altri termini, ciò che deve essere indagato è se l’ente avesse adottato ed efficacemente attuato il sistema organizzativo, per avere  un elemento di valutazione sulla sussistenza della colpa di organizzazione.

La sovrapposizione tra verificazione del reato presupposto e colpa di organizzazione, inoltre, non può essere automatica, come pare di capire sia stato nelle sentenze di merito che hanno determinato il giudizio di legittimità. In questo va colto l’elemento di maggiore interesse della sentenza in commento: l’esigenza che la struttura della responsabilità organizzativa degli enti determinata dal d. lgs. 231/2001 e dal d. lgs. 81/2008 non sia appiattita su un modello di responsabilità sostanzialmente oggettiva.

Anzi, gli elementi di ascrivibilità soggettiva dell’illecito sono perfettamente rinvenibili nella normativa vigente e l’elaborazione della giurisprudenza della Cassazione li ha, in più occasioni, esaminati e valorizzati, come accaduto – anche – nella pronuncia in esame.

Come citare il contributo in una bibliografia:
M. Borgobello, La “colpa d’impresa” in una recente sentenza della Corte di cassazione, in Giurisprudenza Penale Web, 2024, 2