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Caso Formigoni: la decisione della Corte di Appello sulla richiesta di inefficacia dell’ordine di carcerazione

Corte di Appello di Milano, Sez. IV, 27 marzo 2019
Presidente Bricchetti, Consiglieri Caroselli, Lai

Pubblichiamo, in considerazione dell’interesse mediatico della vicenda, l’ordinanza pronunciata dalla Corte di Appello di Milano, quale giudice dell’esecuzione, sull’istanza, avanzata dai difensori di Roberto Formigoni, volta a far dichiarare l’inefficacia dell’ordine di carcerazione emesso nei suoi confronti dal Procuratore Generale presso la Corte d’appello di Milano lo scorso 22 febbraio.

Il caso ha ad oggetto la disciplina intertemporale della recente Legge 9 gennaio 2019, n. 3 (cd. Spazzacorrotti) la quale, come è noto, all’art. 1 comma 6 ha previsto l’introduzione, nel testo dell’art. 4 bis O.P. tra i reati ostativi c.d. “di prima fascia”, delle fattispecie di cui agli artt. 314 co. 1, 317, 318, 319, 319 bis, 319 ter, 319 quater co. 1, 320, 321, 322, 322 bis c.p.

Secondo i giudici, «la segnalata discrasia tra la mancanza di un limite di pena per l’accesso dell’ultrasettantenne ex art. 47-ter, comma 1 o.p. al regime della detenzione domiciliare e il termine fissato dall’art. 656, comma 5, c.p.p. come condizione legittimante l’intervento sospensivo del pubblico ministero, si risolve, in definitiva, in una critica al legislatore, senza che si possano, quindi, ricollegare ad essa effetti eversivi di una corretta esegesi della norma del codice, la quale riflette una precisa scelta del legislatore stesso, che ha voluto stabilire una soglia sanzionatoria oltre la quale la sospensione dell’esecuzione non è concedibile, ancorché la suddetta misura alternativa si renda astrattamente applicabile. E anche volendo riconoscere l’esistenza di un difetto di coordinamento delle due norme, che le renderebbe non sintoniche tra loro, è solo al legislatore che spetta di ricondurre a unitarietà il sistema e di eliminare l’eventuale disarmonia con esclusione di interventi in funzione correttiva da parte dell’interprete».

Nè può dirsi rilevante – si legge nell’ordinanza – «il fatto che il reato di cui all’art. 319 c.p. sia stato incluso, in epoca successiva alla data del commesso reato, nel catalogo dei reati ostativi di cui all’art. 4-bis O.P., inclusione che incide in senso sfavorevole al condannato sia sulla sospendibilità dell’ordine di esecuzione (art. 656, comma 9, c.p.p.), sia sulla concessione della detenzione domiciliare  (art. 47-ter ordinamento penitenziario)».

La Corte di Appello si è pronunciata anche sulla richiesta di sollevare questione di legittimità costituzionale delle norme di recente introduzione.

E’ priva di rilevanza – scrive la Corte – «ogni questione di legittimità che muova dal presupposto che non può trovare applicazione retroattiva una legge che modifichi in senso sfavorevole al reo la disciplina di istituti che in vario modo incidano sul trattamento penale, tra i quali le misure alternative alla detenzione, ciò in aperto contrasto con il consolidato orientamento della Corte di Cassazione che esclude la riconducibilità di dette misure all’art. 25, secondo comma, Cost. e all’art. 2, primo comma, c.p., argomentando in base alla natura processuale della disciplina di dette misure, che le sottrarrebbe al divieto di irretroattività».

Da ultimo, i giudici hanno richiamato quanto di recente affermato dalla Corte di Cassazione (Sez. VI, sentenza n. 12541/2019), secondo cui la questione relativa alla mancata previsione di una disciplina transitoria «mitigatrice degli effetti dell’immediata applicabilità della novella», sebbene non manifestamente infondata, sarebbe comunque irrilevante nel caso concreto, potendo semmai tali questioni essere eventualmente «prospettate al Tribunale di sorveglianza qualora sia avanzata richiesta di concessione della detenzione domiciliare».

Redazione Giurisprudenza Penale

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