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Superbonus e sconto in fattura: la Cassazione “raddoppia” il credito sequestrabile in caso di frode?

in Giurisprudenza Penale Web, 2023, 9 – ISSN 2499-846X

Cassazione Penale, Sez. II, 12 settembre 2023 (ud. 13 giugno 2023), n. 37138
Presidente Imperiali, Relatore Coscioni

1. La sentenza in breve.

Suscita qualche riflessione critica la sentenza con cui la Corte di Cassazione ha recentemente deciso un ricorso inerente ad un provvedimento di sequestro preventivo di crediti d’imposta da superbonus.

Gli imputati ricorrenti erano ritenuti avere costituito un gruppo criminale che, attraverso una serie di società operanti nel settore edile ed una serie di professionisti, realizzava falsa documentazione mediante la quale certificava l’esecuzione di lavori di ristrutturazione di natura c.d. “trainante” (miglioramento energetico o adeguamento antisismico) in misura superiore a quella reale, al fine di accedere ai benefici statali connessi appunto al superbonus, nella particolare forma dello sconto in fattura.

In fase cautelare veniva quindi emesso dal GIP un decreto di sequestro dal contenuto composito, previa riqualificazione giuridica del fatto in indebita percezione di erogazioni pubbliche (art. 316-ter c.p.). In particolare – si legge nella sentenza della Cassazione – la cautela reale era consistita nel:

– sequestro preventivo impeditivo in via diretta delle quote sociali di due delle società coinvolte;

– sequestro preventivo ai fini della confisca obbligatoria della somma di Euro 2.622.508,00, pari al profitto del reato di cui all’art. 316-terp. in via diretta a carico della società beneficiaria del credito acquisito ed anche per equivalente, in denaro o beni, a carico dei coindagati cui era contestata la percezione di somme relative ai vari cantieri;

– sequestro preventivo ai fini della confisca obbligatoria del profitto dei reati di autoriciclaggio contestati a taluni degli indagati.

Sembra utile soffermarsi in particolare sulla seconda voce di sequestro perché, facendola oggetto dei loro motivi di ricorso, i ricorrenti hanno ottenuto dalla Corte di Cassazione una risposta – in termini di infondatezza – che sembrerebbe indicare la possibilità di un “raddoppio” dell’oggetto confiscabile in caso di frodi in materia di superbonus.

Premesso infatti un chiarimento che pare indiscutibile, ossia che il delitto di indebita percezione ex art. 316-ter c.p. si consuma con la semplice elargizione del beneficio economico da parte dello Stato, a prescindere dall’uso che poi se ne faccia, la Cassazione (al punto 1.2. della motivazione) afferma che all’illecita operazione oggetto del processo si collegherebbero, “sotto un diverso profilo, sia il sequestro del credito di imposta generato illecitamente, quale profitto direttamente derivato dalla condotta di cui all’art. 316-ter c.p. e sottoposto a vincolo reale in via diretta e impeditiva, sia il sequestro preventivo per equivalente del successivo profitto che dalla cessione di tale credito è stato realizzato nel patrimonio dell’indagato e nelle società coinvolte”.

Sul punto, la Cassazione richiama in senso adesivo le affermazioni dell’ordinanza del Tribunale del riesame, oggetto del ricorso, la quale aveva sostenuto potersi procedere al sequestro “sia del prodotto (consistente nel credito illecitamente creato) che del profitto (consistente nella cessione dello stesso)”.

Tale affermazione non viene ulteriormente argomentata nella sentenza: infatti, dopo un excursus squisitamente teorico sulle definizioni di prodotto, profitto e prezzo del reato date dalle Sezioni Unite Chabni Samir del 1996, che però nulla aggiunge al problema giuridico sotteso ai ricorsi, la Corte si limita a concludere che “Da quanto si è detto, è del tutto evidente che si può procedere al sequestro o alla confisca sia del prodotto che del profitto del reato, dovendo identificarsi, nel caso in esame, il prodotto nel credito illecitamente creato ed il profitto nella cessione dello stesso”.

Nei suoi passaggi argomentativi e nelle conclusioni a cui giunge, questa sentenza è pressoché in toto sovrapponibile alla precedente Cass. pen., sez. II, 25 gennaio 2023, n. 8429.

2. Qualche riflessione critica.

Ci si confronta in sintesi con un caso in cui, secondo la prospettazione accusatoria, gli autori dell’asserita frode in superbonus avrebbero gonfiato il valore di lavori effettivamente eseguiti al fine di accrescere il beneficio derivante dal riconoscimento del connesso credito d’imposta, che essi facevano poi oggetto di sconto in fattura.

Non può negarsi che alcune delle premesse del ragionamento sviluppato dalla Corte siano corrette.

Sembra innanzitutto corretta la sussunzione del fatto – operata mediante riqualificazione dal GIP ed avallata dalla Corte di Cassazione – nel reato di indebita percezione di erogazioni pubbliche ex art. 316-ter c.p. Infatti, caratterizza le pratiche di superbonus l’esistenza di un procedimento in virtù del quale lo Stato riconosce il beneficio in modo automatico a fronte della presentazione della documentazione necessaria, non venendo effettuati controlli su quanto inviato, il che esclude quel profilo di induzione in errore dello Stato che (secondo Cass. pen., sez. un., 19 aprile 2007, n. 16568, Carchivi) rappresenta proprio l’elemento discretivo tra questo reato e quello di truffa in danno dello Stato.

Corretta, ancor più a monte, appare anche l’esclusione dell’applicabilità di fattispecie penal-tributarie. Infatti, sebbene oggetto di elargizione da parte dello Stato sia un credito d’imposta, qualora quest’ultimo sia ottenuto su basi fraudolente la tipicità del fatto dipende dall’uso che di questo venga fatto: il suo mero ottenimento e successiva cessione od utilizzo in ambito extra-dichiarativo (per esempio, proprio in uno sconto in fattura) integrerà un’indebita percezione di erogazioni pubbliche, mentre solo in caso di utilizzo del credito in detrazione nella propria dichiarazione sarà integrato il reato tributario di cui all’art. 3 d.lgs. 74/2000 (il quale, peraltro, assorbirebbe in tal caso anche il reato comune di indebita percezione, stante il noto principio di specialità che regola i rapporti tra fattispecie di reato comuni e reati tributari).

Si fermano però qui i profili condivisibili nella sentenza e, anzi, le affermazioni in punto di oggetto del possibile sequestro preventivo sembrano creare una certa confusione, forse determinata anche dal fatto che non è possibile per chi legga la sola sentenza della Cassazione conoscere e comprendere tutti i dettagli della fattispecie concreta.

Su questo tema, la Cassazione traccia innanzitutto una distinzione tra due diverse entità: da un lato il credito d’imposta superbonus ottenuto mediante indebita percezione di erogazioni pubbliche e dall’altro lato il corrispettivo ottenuto mediante la successiva cessione del suddetto credito. La Cassazione chiama il primo “prodotto” del reato di indebita percezione mentre il secondo “profitto” della cessione o commercializzazione del credito. Stabilisce, infine, che entrambe sono confiscabili e, quindi, prim’ancora sequestrabili in via preventiva.

È questa, per l’appunto, un’affermazione che non sembra poter trovare condivisione per una serie di motivi.

– Vero che il fatto sopra descritto integra indebita percezione di erogazioni, e che la consumazione del reato avviene a fronte del semplice ottenimento del beneficio, l’entità economica così ottenuta non sembra certo potersi qualificare come prodotto del reato, ma piuttosto come profitto. Si tratta di definizioni che la sentenza in commento richiama e spiega, ma non sembra poi applicare in maniera coerente nella propria motivazione. “Prodotto”, si dice, “è il risultato dell’azione criminosa, ovvero la cosa materiale creata, trasformata o acquisita mediante l’attività delittuosa”; “profitto” è invece “un accrescimento del patrimonio dell’autore del reato ottenuto attraverso la acquisizione la creazione o la trasformazione di cose suscettibili di valutazione economica”. Sembra dunque ineludibile che il falso credito d’imposta superbonus ottenuto mediante indebita percezione ex 316-ter c.p. costituisca, di quel reato, il profitto, e non già il prodotto, trattandosi di un’entità identificabile esclusivamente mediante il suo valore economico e, al contempo, priva di materialità. Non a caso, già in precedenza si era affermato nella giurisprudenza di legittimità che “il profitto” (e non già il prodotto) “del reato di indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato coincide con l’importo del finanziamento indebitamente ottenuto” (così Cass. pen., sez. VI, 13 gennaio 2022, n. 11246; Cass. pen., sez. VI, 24 novembre 2021, n. 2125).

– Tra l’altro, quella di “prodotto” del reato sarebbe stata, in ogni caso, una nozione estranea all’oggetto confiscabile ai sensi dell’art. 322-terp. – che si riferisce testualmente al solo profitto o prezzo del reato – e semmai ricompresa nella del tutto diversa nozione di confisca di cui all’art. 240 c.p.

– Questo “profitto” del reato di indebita percezione matura nel momento in cui esso si consuma, che è – lo ricorda la stessa Corte nella sentenza – quello in cui il soggetto pubblico erogante dispone l’accredito dell’importo a favore di chi ne abbia fatto indebitamente richiesta, essendo irrilevante il momento di successiva apprensione degli incentivi (punto 1.1. della motivazione). È allora al momento dell’elargizione che il reato si consuma e che il profitto matura come entità economica individuabile, pari al valore del credito d’imposta indebitamente riconosciuta, confiscabile ex 322-ter c.p. e quindi anche sequestrabile in via preventiva ex art. 321 comma 2 c.p.p.

– Da questa anticipazione del momento consumativo del reato, chiarita dalla Cassazione, dovrebbe però discendere l’ulteriore corollario della assoluta irrilevanza delle condotte di successivo utilizzo del credito consistenti nella sua cessione o nello sconto in fattura, essendo condotte tali da non mutare la tipicità del fatto nel diverso e speciale reato di dichiarazione fraudolenta ex 3 d.lgs. 74/2000: in queste ipotesi, appunto, il reato di indebita percezione è consumato con l’ottenimento dell’indebito beneficio ed ogni condotta successiva dovrebbe rappresentare un mero postfatto non punibile, non mutando in alcun modo la tipicità né il disvalore del fatto-reato già cristallizzato. Conseguentemente, non dovrebbe assumere alcuna autonoma rilevanza quella condotta di successiva “commercializzazione” o “cessione” del credito, che invece la Cassazione nella sentenza valorizza – quasi – come reato autonomo, foriero di un profitto separato ed autonomo, ossia il corrispettivo di cessione.

– Questa concezione non sembra appunto poter essere condivisa. Che si tratti del credito, o del corrispettivo per la sua cessione, sempre unico è il beneficio indebitamente percepito ex 316-ter c.p. dall’autore del reato e sempre unico deve essere, conseguentemente, l’oggetto confiscabile o sequestrabile quale profitto.

Per queste ragioni, appare corretto riaffermare la necessaria unitarietà del profitto derivante dall’art. 316-ter c.p., sequestrabile e confiscabile una volta ed una soltanto, in via diretta o per equivalente, là dove esso si trova (in capo al primo beneficiario ovvero in capo a successivi cessionari) ed in solido in capo agli ulteriori concorrenti nel reato (ma per un importo che non può che rimanere, appunto, unico).

Come citare il contributo in una bibliografia:
R. Lucev, Superbonus e sconto in fattura: la Cassazione “raddoppia” il credito sequestrabile in caso di frode?, in Giurisprudenza Penale Web, 2023, 9