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La cassazione delle PEC. Necessari rimedi in sede di conversione del decreto ristori?

in Giurisprudenza Penale Web, 2020, 11 – ISSN 2499-846X

di Giovanni Briola, Mario Arienti e Matteo Picotti

Cassazione Penale, Sez. I, 19 novembre 2020 (ud. 3 novembre 2020), n. 32566
Presidente Sandrini, Relatore Aprile

La recente pronuncia della Suprema Corte di Cassazione, decidendo per l’inammissibilità di un’impugnazione proposta dal Pubblico Ministero depositata a mezzo PEC, in realtà prima dell’effettiva entrata in vigore delle specifiche tecniche del DGSIA e dell’elenco degli indirizzi PEC ex art. 24, co. 4, d.l. 137/2020, ha preventivamente preso posizione sulla possibilità di deposito telematico degli atti, in particolare degli atti di impugnazione.

I giudici supremi dubitano di tale possibilità, nonostante la lettera della legge abiliti al deposito mediante posta elettronica certificata di “tutti gli atti, documenti e istanze” che non debbano depositarsi tramite portale deposito atti penali.

Tale interpretazione si fonda sulla presunta mancanza di deroga espressa della disciplina del codice dell’amministrazione digitale e sulla assenza di repository, ovvero del c.d. fascicolo informatico sul quale, secondo la Suprema Corte, sarebbe imprescindibile depositare l’atto trasmesso a mezzo PEC.

In realtà, le argomentazioni espresse nella recente sentenza non paiono né decisive né dirimenti, poiché interpretando le disposizione dell’art. 24, d.l. 137/2020 in modo ben più restrittivo di quanto la legge letteralmente preveda, i giudici di cassazione tralasciano altresì totalmente di considerare la ratio e la finalità della presente disposizione di emergenza, introdotta dal legislatore attualmente al solo scopo di contenere la diffusione del contagio da Covid-19, quale soluzione ontologicamente  di carattere derogatorio ed eccezionale nonché meramente temporanea, coincidendo la scadenza della disposizione con il termine dello stato di emergenza.

Si ritiene, inoltre, che i giudici supremi travisino la evidente differenza, da una parte, fra processo penale telematico, introdotto  dalla disposizione di cui al co. 1, dall’obbligo di deposito di determinati atti ex art. 415-bis, co. 3, c.p.p., mediante l’ormai noto portale deposito atti penali, che oggi soffre di evidenti limiti tecnologici, e, dall’altra parte, fra mero invio a mezzo pec di atti processuali, ora per giunti sottoscritti con firma digitale, soluzione quest’ultima di pronta e immediata applicazione, che attesta, contrariamente a quanto ritenuto dalla Suprema Corte, con ben maggiore certezza, rispetto all’invio dell’impugnazione tramite raccomandata cartacea , ex art. 583 c.p.p., a cui comunque il codice dell’amministrazione digitale, all’art. 48, equipara la validità della pec.

Tuttavia, la sfiducia della suprema corte per l’utilizzo delle pec non è scalfita nemmeno all’esito della espressa previsione contenuta nel decreto ristori e nemmeno nel contesto della pandemia in atto.

Preso atto di questa posizione, che si ritiene comunque anacronistica e non in linea con il grado di certezza che la tecnologica, già riconosciuta dal d.m. 21 fabbraio 2011 ha già da tempo portato, si ritiene che il legislatore, in sede di conversione del decreto, potrà apportare modifiche formali, in realtà pleonastiche, ma necessarie per superare la resistenza della Suprema Corte sul punto, assai poco comprensibile nell’odierna società.

Come citare il contributo in una bibliografia:
G. Briola – M. Arienti – M. Picotti, La cassazione delle PEC. Necessari rimedi in sede di conversione del decreto ristori?, in Giurisprudenza Penale Web, 2020, 11