Responsabilità degli enti ex d. lgs. 231/2001: il Tribunale di Bari (nonostante le Sezioni Unite) ritiene ammissibile la messa alla prova
[a cura di Guido Stampanoni Bassi]
Tribunale di Bari, prima sezione penale, 15 giugno 2023, n. 3601
Giudice dott. Antonio Donato Coscia
1. Segnaliamo, in tema di responsabilità degli enti ex d. lgs. 231/2001 e messa alla prova, la sentenza con cui il Tribunale di Bari – nel medesimo procedimento nel quale era stata pronunciata ordinanza di ammissione alla messa alla prova – ha nuovamente preso posizione in senso favorevole sul punto, pronunciando nei confronti dell’ente sentenza di non doversi procedere per esito positivo della messa alla prova.
In punto di diritto, il Tribunale si è preliminarmente posto il tema dell’intervenuta sentenza n. 14840/2023 delle Sezioni Unite, con la quale si è affermato che «l’istituto dell’ammissione alla prova (art. 168-bis c.p.) non trova applicazione con riferimento agli enti di cui al d. lgs. n. 231 del 2001».
Ad avviso del Tribunale, «tale principio deve ritenersi privo dell’effetto vincolante tipico dei principi di diritto affermati dalle Sezioni Unite», in ossequio all’orientamento giurisprudenziale secondo cui «il vincolo derivante dal principio di diritto affermato, ai sensi dell’art. 618, comma 1-bis, c.p.p., dalle Sezioni Unite della Corte riguarda esclusivamente l’oggetto del contrasto interpretativo rimesso e non si estende ai temi accessori o esterni» (Cass. pen. sent. n. 49744 del 2022) e a quello secondo cui il principio è vincolante in relazione «agli aspetti preliminari e conseguenziali ad esso, ancorché relativi a profili non specificamente devoluti ma che si rendano, tuttavia, necessari per meglio delimitare il significato e la portata applicativa del principio stesso che, in tal modo, riveste carattere unitario» (Cass. pen. sent. n. 23148 del 2021).
Ebbene – si osserva – «appare evidente che la questione della possibilità per l’ente di esser ammesso alla prova non manifesta caratteri di pregiudizialità o di consequenzialità rispetto a quella oggetto del principio di diritto affermato dalle Sezioni unite, avente natura esclusivamente processuale, attenendo alla legittimazione all’impugnazione dell’ordinanza ex art. 464 bis c.p.p. in capo al procuratore generale e all’elencazione delle categorie generali dei motivi deducibili con l’impugnazione. A riprova, sulla prima questione, diversamente dalla seconda, non si era registrato alcun contrasto nella giurisprudenza di legittimità (che anzi, non si era ancora pronunciata sul tema, sino a quel momento affrontato solo dai giudici di merito), tant’è che le Sezioni unite l’hanno risolta solo in ragione dell’accertata “ammissibilità del ricorso immediato per cassazione del Procuratore generale presso la Corte di appello di Trento”».
In ogni caso – si legge nel provvedimento – «il principio di diritto affermato dalla Corte di cassazione, pure a Sezioni unite, non è fonte del diritto, rappresentando, piuttosto, la generalizzazione dell’interpretazione di una disposizione in relazione a una fattispecie concreta». La sua formulazione, cioè, «è il risultato di un’operazione interpretativa, attraverso cui la decisione individuale viene ricondotta sotto una regola generale valida per casi uguali, simili o assimilabili; in altri termini, il principio di diritto assolve la funzione di universalizzare la decisione individuale e, consolidandosi nel tempo, esso realizza la funzione nomofilattica».
Ne consegue che l’art. 618, c. 1 bis c.p.p. «impone (solo) alle sezioni singole della Corte di cassazione di rimettere alle Sezioni unite la decisione del ricorso ove non condividano il principio di diritto enunciato da quest’ultime, essendo il giudice di merito vincolato alle questioni di diritto decise dalla Corte di cassazione solo nell’ipotesi prevista dall’art. 627, c. 3, c.p.p., non ricorrente nel caso di specie».
2. Ciò chiarito, il Tribunale passa ad affrontare, nel merito, le conclusioni delle Sezioni Unite, giungendo a ritenere l’affermazione sull’impossibilità per l’ente di essere ammesso alla prova – contenuta nella sentenza delle Sezioni unite – non persuasiva.
Ad avviso del Tribunale di Bari, «anche ove si volesse ritenere che l’ammissione dell’ente alla prova sia il frutto non già di un’interpretazione estensiva, ma di un’applicazione analogica in bonam parte della legge penale, ciò non appare contrastare col principio di riserva di legge, corollario del principio di legalità ex art. 25, c. 2, Cost.». Autorevole dottrina – si legge nella sentenza – «ha affermato che il ricorso all’analogia non collide mai, in maniera diretta, col principio di riserva di legge, giacché è pur sempre da una disposizione di legge che si prendono le mosse per la regolamentazione del caso non previsto espressamente; semmai, occorre verificare che il ricorso all’analogia non violi il diverso principio di tassatività della legge penale, ulteriore corollario del principio di legalità».
Inoltre, come noto, «l’analogia in bonam partem non contrasta col principio di tassatività, poiché è conforme alla ratio di quest’ultimo, che è quella di garantire la libertà personale del cittadino a fronte di possibili arbitri dei poteri esecutivo e giudiziario (ratio di cui, per inciso, partecipa anche il principio di riserva di legge). Essa trova dei limiti nell’eventuale carattere di eccezionalità o indeterminatezza della norma oppure nell’eventuale intenzionalità della lacuna normativa da colmare». Tuttavia, tali limiti – prosegue il Tribunale – «non sussistono nel caso di specie, per le ragioni illustrate nell’ordinanza di ammissione dell’incolpata alla prova emessa il 22.6.2022, le cui motivazioni si richiamano integralmente».
Nondimeno – si prosegue – «le Sezioni unite hanno affermato che, nel caso di specie, all’analogia in bonam partem osta, per un verso, la natura di sanzione penale della messa alla prova, e, per altro verso, la “disomogeneità” tra quest’ultima e la peculiare natura giuridica della responsabilità dell’ente prevista dal D.Lgs. n. 231/2001». Sennonché, «anche aderendo alla tesi della natura di sanzione penale della messa alla prova affermata dall’orientamento della Corte costituzionale richiamato dalle Sezioni unite, non può non rimarcarsi che il medesimo orientamento ha evidenziato che l’istituto in esame manifesta, allo stesso tempo, anche la natura di causa di estinzione del reato, per la quale, attesa la sua incontestabile portata generale, l’ammissibilità dell’analogia in bonam partem non è revocabile in dubbio».
Tutto ciò – si conclude – «volendo ritenere che nel caso di specie l’ammissione dell’ente alla prova sia il frutto di un’operazione analogica, laddove, in ragione dell’espresso rinvio degli artt. 34 e 35 del D.Lgs. n. 23 1/2001 alle norme del codice di procedura penale e alle disposizioni processuali relative all’imputato in quanto compatibili, potrebbe ritenersi che nel caso di specie si tratti di una mera interpretazione estensiva della legislazione vigente, in luogo di una fattispecie ad analogia espressa»; del resto, «pure in quest’ultimo caso, l’analogia, in quanto espressa, sarebbe, allora, espressamente consentita dal legislatore, con il solo limite della compatibilità, nel caso di specie rispettato alla luce delle considerazioni sopra svolte».
Quanto, da ultimo, alle «incertezze interpretative che deriverebbero dall’applicazione analogica dell’istituto individuate dal procuratore generale e richiamate dalla sentenza in commento, valgono le considerazioni già espresse in sede di ammissione della incolpata alla prova, che si richiamano integralmente: esse rientrano nella fisiologica sfera di discrezionalità nell’ambito della quale si muove il Giudice in sede di applicazione analogica della legge; discrezionalità che, a garanzia della libertà delle scelte di azione del cittadino, la Costituzione limita quando ne possano derivare effetti negativi per quest’ultimo, il che, come visto, non accade nel caso di specie».
Alla luce di tali considerazioni – e preso atto dell’esito positivo della messa alla prova – il Tribunale ha pronunciato sentenza di non doversi procedere nei confronti della persona giuridica per estinzione dell’illecito amministrativo.