ARTICOLIDIRITTO PENALEIN PRIMO PIANOResponsabilità degli enti

Depositate le motivazioni del Tribunale di Milano nel caso BT Italia: esclusa la responsabilità dell’ente per adeguatezza del Modello

Tribunale di Milano, II sezione penale, 22 aprile 2024 (ud. 25 gennaio 2024), n. 1070
Presidente dott. Mancini, Giudici dott.ssa Ballesi – dott. Lentini 

Segnaliamo ai lettori al sentenza con cui il Tribunale di Milano, II sezione penale, si è pronunciato in tema di false comunicazioni sociali – tema su cui il Tribunale ha affrontato i criteri per la attribuzione di responsabilità ai diversi soggetti a vario titolo coinvolti (componenti del consiglio di amministrazione, altri dirigenti e componenti del collegio sindacale) –  responsabilità del revisore legale (ex art. 27 comma 2 d. lgs. 27 gennaio 2010, n. 39) e responsabilità degli enti (ex d. lgs. 231/2001).

Quanto al primo tema – con riferimento alla responsabilità del collegio sindacale – il Tribunale osserva come, “ai fini della presente decisione è dirimente richiamare le considerazioni già formulate con riferimento all’elemento soggettivo in capo agli amministratori privi di delega (si veda, ex plurimis, Cass. 42568/2018), secondo cui l’affermazione della responsabilità penale esige la prova dell’effettiva conoscenza del falso o, quantomeno, di “segnali di allarme” dai quali poterne desumere con alto livello di confidenza la sussistenza“.

Ciò premesso – di legge nella sentenza – “dall’analisi dei verbali sopra richiamati si evince che, nel primo periodo, il Collegio non ha mai riscontrato segnali di allarme che potessero anche solo far sospettare l’esistenza delle frodi e delle manipolazioni contabili oggetto dell’impianto accusatorio: più precisamente, nel corso di detto periodo, il Collegio sindacale si è attenuto agli obblighi sullo stesso gravanti secondo il dettato dell’art. 2403 c.c. in considerazione del fatto che: durante le riunioni in sede di consiglio di amministrazione, il collegio non ha mai avuto notizia, né il sospetto del compimento di operazioni imprudenti, azzardate o in conflitto di interessi; durante gli incontri di cui sono stati analizzati i relativi verbali, il collegio ha ricevuto informazioni periodiche sull’andamento della gestione, dalla quale non sono emersi segnali di particolare criticità ed, anche laddove sono state evidenziate delle aree nelle quali erano stati individuati degli indici di sofferenza, quale quella del recupero dei crediti nello small e medium business, il collegio sindacale si è comunque sempre attivato per avere costanti aggiornamenti sul punto, ricevendo, dal parte degli amministratori, conferme in senso migliorativo di dette situazioni“.

Quanto al secondo periodo, “dinanzi alle legittime richieste ed alle osservazioni sulle lacune informative il collegio non ha mai ricevuto riposte puntuali e documentate, con la conseguenza che non solo il collegio sindacale non ha mai avuto percezione di significativi segnali d’allarme che giustificassero il suo intervento, ma tale comportamento posto in essere dai vertici aziendali ha rappresentato un evidente ostacolo all’attività di vigilanza del Collegio”.

La conclusione è che “l’assenza di significativi ‘segnali d’allarme’, unitamente al riscontro di comportamento fraudolenti posti in essere da alcuni vertici dell’azienda, consente al Collegio di ritenere che i sindaci debbano essere assolti dai restanti capi di imputazione perché il fatto non costituisce reato, per carenza dell’elemento soggettivo richiesto dalla fattispecie incriminatrice“.

Quanto al secondo aspetto, il Tribunale precisa che “la fattispecie di reato contestata presuppone il dolo, ovvero la prova da parte di tutti i professionisti che hanno fatto parte del team di revisione, della consapevolezza e volontà di emettere un giudizio falso ex art. 14 del citato decreto al fine di far conseguire agli organi amministrativi e di controllo della società sottoposta a revisione un ingiusto profitto“.

Dall’esame delle deposizioni testimoniali e delle produzioni documentali, il Collegio “ha ritenuto, da un lato, che la condotta contestata sussista sul piano oggettivo, essendo emerso che egli, quale socio responsabile dell’attività di revisione, ha falsamente attestato la corrispondenza del bilancio alle scritture contabili, rilasciando un giudizio positivo (senza rilievi) su un bilancio inidoneo a rappresentare correttamente la situazione patrimoniale ed economica della società“.

Al tempo stesso, tuttavia, “difetta l’elemento soggettivo del reato, essendo stato il revisore fuorviato da false o carenti informazioni provenienti dai vertici della società, essendo, infatti, emerse: la complessità degli schemi di frode e la loro insidiosità, la loro scoperta a seguito di ammissioni fatte all’interno della società stessa e del conseguente avvio di una complessa attività di investigazione; l’alterazione dei dati che venivano fomiti al revisore, differenti rispetto a quelli contenuti nei report interni; l’impossibilità per il revisore, per tutte le ragioni sopra esposte, di intercettare le frodi nonostante le procedure introdotte“.

Pertanto – si conclude – “essendo la fattispecie contestata un reato doloso ed essendo stata accertata la mancanza dell’elemento soggettivo, l’imputato deve essere assolto perché il fatto non costituisce reato, con conseguente venir meno di ogni responsabilità in capo alla società di revisione“.

Quanto al tema della responsabilità degli enti, il Tribunale ha evidenziato “quello che dovrebbe essere il contenuto di un Modello 231 efficacemente strutturato“, soffermandosi tanto sul concetto di colpa di organizzazione, quanto sulle generali e speciali del Modello.

Con riferimento a quest’ultima, “il contenuto sicuramente più significativo del Modello 231 è rappresentato dai protocolli di comportamento che integrano il secondo fondamentale contenuto del dovere di organizzazione che grava sugli enti, in quanto hanno come obiettivo strategico quello della ‘cautela’, cioè l’apprestamento di misure idonee a ridurre continuativamente e ragionevolmente il rischio-reato. Lo strumento per conseguire detto obiettivo è la predisposizione di un processo, di un sistema operativo che deve essere caratterizzato da’ cautele’ puntuali, concrete ed orientate sul rischio da contenere. Alla determinatezza, si deve affiancare anche l’efficace attuazione nel senso che lo strumento di prevenzione non deve risolversi in un mero supporto cartaceo’ che sarebbe sicuramente poco efficace sul piano applicativo“.

Una volta definita l’orditura dei protocolli – si legge nella sentenza – “il loro contenuto richiede: a) l’indicazione di un responsabile del processo a rischio-reato, il cui compito principale è quello di assicurare che il sistema operativo sia adeguato ed efficace rispetto al fine che intende perseguire; b) la regolamentazione del processo, ovvero I ‘individuazione dei soggetti che hanno il presidio di una specifica funzione, e ciò in osservanza del predetto principio di segregazione delle funzioni; e) la specificità e la dinamicità del protocollo, laddove il primo requisito evoca la sua aderenza sostanziale rispetto al rischio da contenere, mentre il secondo presupposto attiene alla capacità del modello di adeguarsi ai mutamenti organizzativi che avvengono nella compagine sociale; d) la garanzia di completezza dei flussi informativi, che rivestono un ruolo assolutamente centrale sul versante dell’effettività della cautela e, da ultimo, un efficace monitoraggio e controllo di linea, ovvero quelli esercitati dal personale e dal management esecutivo“.

Venendo al caso di specie, “lo stesso consulente del PM non ha mosso rilievi né al contenuto del Codice di comportamento, né all’apparato sanzionatorio e disciplinare, considerandoli entrambi completi ed adeguati. La principale carenza che ha ravvisato nel Modello consiste nel fatto che esso conteneva solo la parte generale, ove erano compiutamente descritti il quadro normativo, inclusi c.d. reati-presupposto, i principi ispiratori del Modello, le sue finalità ed i destinatari, i compiti, i requisiti e le modalità di funzionamento dell’Organismo di Vigilanza. Sempre nella parte generale erano richiamati il Codice di comportamento adottato dalla società, la struttura organizzativa e le procedure aziendali, nonché il sistema delle deleghe e procure e, infine, le caratteristiche della comunicazione, formazione, e informativa sul Modello e sul suo apparato sanzionatorio“.

Il Collegio – prosegue la sentenza – “non ritiene che nel Modello 231 del 2011 fossero del tutto assenti i protocolli di prevenzione del rischio-reato: infatti, se, da un lato, è vero che il Modello del 2011 non contempla ‘formalmente’ la parte speciale, dall’altro lato deve essere evidenziato che la società ha adottato formalmente le seguenti policies di gruppo: DoA; Reserved Powers; Group Trading Policy; The Way we work; Anticorruption&Bribery; Gift and Hospitality Policy, Charitable Donations e Sponsorship; Market Developments and Sales Incentives“. Si tratta – precisa il Tribunale – “di protocolli che contengono specifiche procedure di prevenzione del rischio-reato e che confluiranno nella parte speciale del Modello del 2016 ritenuto dallo stesso consulente della Procura assolutamente idoneo“.

Come lo stesso CT del PM afferma nella sua perizia – prosegue la pronuncia – “si tratta di politiche aventi carattere generale tese a dare delle linee guida comportamentali in settori di attività che sono sicuramente molto delicati nell’attività della società, vietando tassativamente la corruzione e la concussione e indicando, da un lato, le procedure da seguire, e, dall’altro, le modalità attraverso le quali i dipendenti potevano e dovevano denunciare eventuali situazioni dubbie. Trasversalmente strumentali alla corruzione e concussione sono da ritenersi anche le donazioni e le sponsorizzazioni, nonché le procedure volte a regolamentare le politiche di omaggi o ospitalità, oltre alle politiche di sviluppo del mercato, indicandosi modalità di comportamento auspicate, divieti ed eventuali canali di denuncia“.

In altre parole, “dall’analisi degli allegati alla perizia del PM, si può facilmente constatare che significativi protocolli di prevenzione del rischio-reato, i quali erano finalizzati ad operare in alcuni settori ‘nevralgici’ della politica aziendale, ovvero i settori interessati dalla circolazione di denaro, erano già stati elaborati ed approvati nel 2013 ed il relativo contenuto è stato puntualmente richiamato nel Modello del 2016“.

Redazione Giurisprudenza Penale

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