Strage di Corinaldo (cd. “banda dello spray”): la sentenza della Cassazione
Cassazione Penale, Sez. V, 20 febbraio 2023 (ud. 12 dicembre 2022), n. 7213
Presidente Vessicchelli, Relatore Cuoco
Segnaliamo ai lettori, in considerazione dell’interesse mediatico e giuridico della vicenda – relativa alla “strage di Corinaldo” (cd. “banda dello spray“), per i fatti avvenuti presso la discoteca “Lanterna Azzurra”, nella notte tra il 7 e l’8 dicembre 2018 – la sentenza con cui, nel 2022, la quinta sezione della Corte di cassazione si è pronunciata sui ricorsi presentati contro la sentenza emessa dalla Corte di Assise di Appello di Ancona.
La Corte prende le mosse affrontando il tema della sussistenza del reato associativo, ritenuto sussistente dalla Corte d’appello dopo che era stato escluso in primo grado.
I giudici ricordano come, in generale, l’associazione per delinquere si caratterizzi per “tre fondamentali elementi: un vincolo associativo tendenzialmente permanente, o comunque stabile, destinato a durare anche oltre la realizzazione dei delitti concretamente programmati; un programma criminoso tendenzialmente indeterminato, che distingue il reato associativo dall’accordo che sorregge il concorso di persone nel reato; una struttura organizzativa, sia pur minima, ma comunque idonea e soprattutto adeguata a realizzare gli obiettivi criminosi presi di mira“.
Ebbene, “la corte territoriale ha ritenuto l’esistenza di un’autonoma struttura associativa (e l’individuale partecipazione di ciascuno) alla luce di una pluralità di elementi, logici e fattuali, in massima parte dedotti dal contenuto delle conversazioni intercettate, analiticamente indicate nel corpo della motivazione, tra i quali:
– la partecipazione ad una pluralità di reati fine, la serialità delle azioni delittuose e l’evidente analogia del relativo modus operandi: il gruppo operava all’interno di locali di tutto il centro-nord Italia (con mire espansionistiche in altre zone del Paese e anche all’estero), con cadenza ravvicinata, durante un rilevante arco temporale e con uso di mezzi sperimentati (spray, taser), al fine di impossessarsi di preziosi indossati dagli avventori presenti ad eventi con notevole afflusso di pubblico;
– l’esistenza di ruoli, ben specifici, frutto di un consapevole accordo programmatico e tutti funzionali a garantire il compimento dei reati scopo: uno o due “disturbatori” avevano il compito di distrarre la vittima; un componente “strappava” i monili indossati dalle vittime, approfittando della momentanea distrazione causata dai suoi complici; un membro aveva, poi, il compito di ricevere ed occultare la refurtiva immediatamente dopo l’azione delittuosa, anche per tutelare il soggetto che aveva materialmente eseguito lo “strappo”; tutti i componenti del sodalizio avevano, infine, il compito di intervenire nel caso in cui uno di loro fosse stato eventualmente fermato, controllato o sospettato, provvedendo, secondo un copione preparato, a difenderlo;
– l’esistenza di un pregresso rapporto di amicizia o comunque di frequentazione assidua, come si evince dal tono confidenziale delle conversazioni intercettate;
– l’esistenza di più “squadre”, a “geometria variabile”, legate da un vincolo di fattiva collaborazione, pronto aiuto reciproco e “non belligeranza” (nell’ipotesi di contemporanea attività predatoria nello stesso locale da parte di più squadre composte da membri del sodalizio criminale);
– l’esistenza di una specifica “competenza territoriale” di operatività criminosa (alla quale corrispondeva una spartizione dei locali oggetto delle singole attività predatorie), in contrapposizione con quella riconosciuta ad altri gruppi che svolgevano attività similare – i “genovesi” e i “torinesi” – nei confronti dei quali agivano unitariamente anche a fini ritorsivi;
– un’unitaria predisposizione di mezzi (disponibilità di auto proprie e di terzi), di strumenti atti ad offendere (spray al peperoncino, taser), di attività commerciale tramite la quale provvedere alla monetizzazione della refurtiva (il negozio di “compro-oro”), di “autisti” da utilizzare per trasportare i componenti della banda nei luoghi ove era prevista la commissione di azioni predatorie, eventualmente “pagati” con i proventi dell’attività criminosa;
– la divisione dei proventi dell’attività illecita, attraverso i quali traevano profitto i singoli membri dell’associazione e che consentiva loro di mantenere (in assenza di lecite fonti di reddito) un elevato tenore di vita“.
In merito alla configurabilità del reato di omicidio preterintenzionale, secondo la Corte “è possibile dedurre con sufficiente certezza che tutti i ricorrenti, utilizzando consapevolmente lo spray (o anche approfittando dell’uso altrui), erano pienamente consapevoli delle lesioni conseguenti alla diffusione della sostanza urticante e ne abbiano accettato la verificazione quale effetto (strumentale) necessario per il raggiungimento del loro obbiettivo: la consumazione delle attività predatorie“.
In concreto, “l’esistenza di un chiaro e preciso animus laedendi è circostanza che emerge con evidenza dal tessuto motivazionale della sentenza impugnata. Come correttamente considerato dalla corte territoriale: tutti gli imputati erano presenti, la sera presso la discoteca; tutti erano adusi all’utilizzo dello spray al peperoncino per la commissione di azioni predatorie ed erano assolutamente consapevoli degli effetti della diffusione della sostanza urticante; si erano ivi portati, in accordo tra loro, al fine di commettere furti in danno degli avventori; erano a conoscenza che lo spray al peperoncino, già usato in passato, fosse nella disponibilità del gruppo per essere utilizzato ai fini della consumazione e del buon esito delle sottrazioni di monili“.
Il fatto per cui sarebbero deceduti soggetti differenti rispetto alle persone investite dallo spray urticante – prosegue il collegio – “è circostanza del tutto irrilevante; e non già alla luce della disciplina dettata dall’art. 82 c.p., ma perché “l’offesa recata a costoro, alla stregua della ricostruzione dei fatti logicamente operata dai giudici di merito, non discende da un errore nell’uso nei mezzi di esecuzione (errore del quale non è traccia nella condotta degli imputati) o da altra causa (individuata dalla corte d’appello nella reazione di panico, che, tuttavia, non è giuridicamente una causa, ma va inclusa nel novero degli effetti dell’azione dolosa degli imputati), ma dall’adesione volontaria all’evento da parte degli imputati come costo “accettato” dell’azione realizzata per conseguire il fine perseguito. Sicché, anche rispetto ai terzi (tali solo in relazione alla programmata azione predatoria), è configurabile una piena e consapevole volontà lesiva, seppur in termini di dolo eventuale, quale effetto (strumentale) necessario per la consumazione delle attività predatorie. E ciò rende irrilevante ogni questione sollevata, sotto tale profilo, dalla difesa“.
Quanto alla possibilità di qualificare, come “malattia“, la sensazione di stordimento e di bruciore conseguente all’utilizzo dello spray, i giudici di legittimità hanno evidenziato che “gli effetti che si sono verificati – irritazioni delle vie respiratorie e della cute, difficoltà respiratorie, tosse, visione offuscata, scarsa capacità di movimento, nausea, vomito, stati d’ansia e attacchi di panico – sono tipicamente riconducibili all’effetto urticante dello spray e, in quanto direttamente incidenti sulle funzioni dell’organismo, sono qualificabili in termini di malattia“.
Da ultimo, in merito alla ipotizzata idoneità delle difformità organizzative e strutturali del locale ad interrompere il nesso causale, la Corte ha ricordato che, “alla luce della consolidata giurisprudenza di questa Corte, sono cause sopravvenute, da sole sufficienti a determinare l’evento, quelle che innescano un percorso causale completamente autonomo rispetto a quello determinato dall’agente e quelle che, pur inserite in un percorso causale ricollegato alla condotta (attiva od omissiva) dell’agente, si connotino per l’assoluta anomalia ed eccezionalità, sì da risultare imprevedibili tanto in astratto, quanto, in concreto, dal soggetto agente; in altri termini, un fattore del tutto eccezionale, abnorme, da solo determinante l’evento letale“.
Sicché “non possono essere considerate tali quelle che abbiano causato l’evento in sinergia con la condotta dell’imputato, atteso che, venendo a mancare una delle due, l’evento non si sarebbe verificato“.
Ne consegue che, “se non fosse stato utilizzato a fini lesivi lo spray, non si sarebbe creata una situazione (incontrollabile) di panico generalizzato, le vittime non sarebbero state costrette a fuggire e sull’uscita di sicurezza non vi sarebbe stata la presenza di una massa di persone pressante sulle balaustre. L’evento, quindi, non si sarebbe verificato“.
Tanto è sufficiente – si conclude – “per escludere la rilevanza causale delle pur esistenti difformità. Circostanza che può avere amplificato l’effetto del panico, ma certo non può ritenersi di per sé idonea ad elidere l’autonoma rilevanza causale della volontaria azione posta in essere dai ricorrenti e che ha generato il disordinato movimento di folla”.