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Reati tributari, difficoltà finanziaria e stato di necessità

8Cassazione Penale, Sez. III, 5 giugno 2014 (ud. 14 maggio 2014), n. 23532
Presidente Teresi, Relatore Pezzella, P.G. Mazzotta

Si segnala la recente pronuncia numero 23532, depositata il 5 giugno 2014, con la quale la terza sezione (relatore Pezzella) ha preso nuovamente posizione in ordine alla questione – ormai sempre più frequente nelle aule di giustizia – del rilievo da attribuire alla situazione di illiquidità derivante da difficoltà finanziarie in relazione alle violazioni tributarie di cui agli artt- 10-bis e 10-ter del D.Lgs. 74 del 2000.

Il fatto che si siano regolarmente pagati i propri fornitori, i propri dipendenti, i mutui e i finanziamenti – si sostiene spesso da parte dei ricorrenti – dimostrerebbe che l’inadempimento dell’obbligazione tributaria deriva esclusivamente da una situazione di difficoltà finanziaria e, dunque, la conseguente situazione di illiquidità (non addebitabile – si specifica – ad una cattiva gestione dell’impresa da parte del suo amministratore, ma a fattori del tutto indipendenti dalla sua volontà) dovrebbe integrare una sorta di condizione di forza maggiore tale da escludere la rilevanza penale delle violazioni tributarie.

La Corte, nell’affrontare la questione, ricorda come nell’ormai ricorrente casistica dei motivi dell’illiquidità che si assume essere incolpevole e che si chiede poter scriminare il mancato pagamento di tributi all’Erario vengano per lo più sottoposte all’attenzione della giurisprudenza, insieme o in alternativa, tre diverse ipotesi:

  • l’aver ritenuto di privilegiare il pagamento delle retribuzioni ai dipendenti, onde evitare dei licenziamenti;
  • l’aver dovuto pagare i debiti ai fornitori, pena il fallimento della società;
  • la mancata riscossione di crediti vantati e documentati, spesso nei confronti dello Stato.

Ebbene – affermano i giudici della terza sezione – nessuna di queste situazioni, seppure provata, può integrare ex se l’invocato stato di necessità ex art. 54 c.p.

Non lo è, anzitutto, la pur comprensibile scelta di adempiere prioritariamente alle obbligazioni di pagamento delle retribuzioni dei lavoratori dipendenti. L’art. 54 c.p., esclude, infatti, la punibilità per chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sè o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona. Ed è pacifico nella giurisprudenza di questa Corte che con l’espressione “danno grave alla persona“, il legislatore abbia inteso riferirsi ai soli beni morali e materiali che costituiscono l’essenza stessa dell’essere umano, come la vita, l’integrità fisica (comprensiva del diritto alla salute), la libertà morale e sessuale, il nome, l’onore, ma non anche quei beni che, pur essendo costituzionalmente rilevanti, contribuiscono al completamento ed allo sviluppo della persona umana (si rinvia sul punto alla recente sentenza della stessa sezione 15416/2014). In altri termini, pur essendo fuori discussione che il diritto al lavoro è costituzionalmente garantito e che il lavoro contribuisce alla formazione ed allo sviluppo della persona umana, deve escludersi, tuttavia, che la sua perdita costituisca in quanto tale un danno grave alla persona sotto il profilo dell’art. 54 c.p.

In secondo luogo, nessuna conseguenza può discendere in termini di punibilità, dalla circostanza che il mancato pagamento dei creditori diversi dall’Erario sia stato ritenuto necessario in quanto si è ritenuto di dover prioritariamente pagare altri creditori, tra cui i fornitori, per scongiurare il fallimento della società. E ciò sia perchè il fallimento avrebbe ben potuto essere richiesto dallo stesso Erario proprio in relazione ai crediti tributari, sia perchè la semplice necessità di scongiurare il fallimento non è sufficiente ad integrare l’ipotesi di forza maggiore sopra delineata.

Infine, nessuna autonoma rilevanza può derivare dal fatto che il ricorrente provi di vantare crediti verso terzi che non sia riuscito ad esigere. E ciò vale anche se il terzo debitore sia lo Stato o un altro ente pubblico, laddove l’interessato abbia nei confronti dello stesso rapporti di tipo contrattuale, ad esempio per la prestazione di servizi. La legge, infatti, disciplina in maniera tassativa i casi in cui può procedersi a compensazione del debito tributario. E, al di fuori di questi, il mancato pagamento dei debiti che l’interessato può addurre nei confronti dello Stato o dell’ente pubblico, rientra nel suo normale rischio d’impresa, di tipo privatistico, e non può certo elidere l’obbligazione, di natura pubblicistica, che egli ha verso l’Erario.

Tale assunto – specifica la Corte – non è incompatibile con la più recente precisazione fornita da questa stessa Suprema Corte (Cass. pen. Sez. III, 05-12-2013, n. 5467) secondo cui non è escluso che, in astratto, siano possibili casi – il cui apprezzamento è devoluto al giudice del merito e come tale è insindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato – nei quali possa invocarsi l’assenza del dolo o l’assoluta impossibilità di adempiere l’obbligazione tributaria. E’ tuttavia necessario, perchè in concreto ciò si verifichi, che siano assolti gli oneri di allegazione che, per quanto attiene alla lamentata crisi di liquidità, dovranno investire non solo l’aspetto della non imputabilità a chi abbia omesso il versamento della crisi economica che ha investito l’azienda o la sua persona, ma anche la prova che tale crisi non sarebbe stata altrimenti fronteggiabile tramite il ricorso, da parte dell’imprenditore, ad idonee misure da valutarsi in concreto (non ultimo, il ricorso al credito bancario).

In conclusione – in linea con quanto ritenuto dalla più recente giurisprudenza di legittimità – il ricorrente che voglia giovarsi in concreto di tale esimente, evidentemente riconducibile alla forza maggiore, nei termini di cui si è detto, dovrà dare prova che non gli sia stato altrimenti possibile reperire le risorse necessarie a consentirgli il corretto e puntuale adempimento delle obbligazioni tributarie, pur avendo posto in essere tutte le possibili azioni, anche sfavorevoli per il suo patrimonio personale, atte a consentirgli di recuperare la necessaria liquidità, senza esservi riuscito per cause indipendenti dalla sua volontà e a lui non imputabili (in senso conforme Cass. pen. Sez. III, 05-12-2013, n. 5467).